Visto dal cielo, il paesaggio attorno a Pechino sembra una scheda madre
zeppa di microchip per via delle schiere di palazzi di nuova costruzione,
raggruppati a decine, tutti uguali, tutti allineati, altissimi.
Visto da terra, il cielo sopra Pechino è di un azzurro sorprendente.
Ero stata a Pechino, e in altri posti della Cina, nel 2005. Era questa
stessa stagione dell’anno, e allora la città mi era apparsa grigia, opprimente
e inquinatissima. Il cielo azzurro è la prima novità che incontro.
Le cose cambiano.
(Per testimoniare quanto cambiano, ora, mentre scrivo e traduco i miei
appunti in questo articolo, vado a cercare nel computer qualche foto scattata
in quel primo viaggio cinese. La qualità delle immagini non è granché, ma
proverò a proporvi qualche confronto).
Considerando che l’aeroporto di Pechino è il secondo più affollato del mondo (il primo
è l’aeroporto di Atlanta), le procedure d’ingresso sono tutto sommato rapide
(assai più che ad Atlanta). E proprio come ad Atlanta c’è la fotosegnalazione e
la raccolta delle impronte digitali. I funzionari sono accigliati ma
efficienti.
Le strade verso la capitale sono linde. Il traffico è silenzioso. Vediamo
targhe di colori diversi: gialle per pullman e camion, blu per le auto, bianche
per la polizia, nere per i funzionari governativi, verdi per i veicoli a trazione elettrica. In
giro c’è un buon numero di targhe verdi.
Nella nostra stanza d’albergo troviamo un foglio stampato, il quale
cortesemente ci avverte che alcuni “popular websites” sono proibiti nella
Repubblica popolare cinese e sono bloccati dal provider. E ci ringrazia per il
nostro “kind understanding”.
Segue elenco. Per tutta la durata del nostro soggiorno in Cina dovremo
scordarci: Facebook, Twitter, YouTube, Blogger, Dailymotion, Picasa (è un sito
per la condivisione di foto dismesso da Google nel 2016, e mi domando perché il
governo continui a preoccuparsene), Dropbox, Google, Google britannico, Gmail,
Flikr, Instagram.
Verifico che non si accede neanche a Wikipedia e a molte testate
giornalistiche statunitensi. WhatsApp e Linkedin invece funzionano.
Appunto: le cose cambiano. Nel 2005 Facebook era appena nato, e non
costituiva certo un problema di cui il governo potesse pensare di occuparsi.
Fare a meno di Facebook non è poi un gran sacrificio ma, senza Google, l’intero
web diventa una stanza buia. C’è da accontentarsi di Bing, o ricorrere a
qualche scorciatoia. Per esempio, dopo l’ormai consueto acquisto di una scheda
telefonica locale, a mio figlio toccherà usare un protocollo vpn per accedere a
Google Maps e riuscire a orientarsi in una città fitta di ideogrammi e con una
topografia non esattamente intuitiva.
Sarà per via del cielo che, nuvole comprese, ora somiglia più a un cielo e
meno a un foglio di cartone, ma tutto quanto, compresa la sensazione di essere
permanentemente controllati, mi sembra più lieve che in passato.
Almeno per quanto riguarda il controllo, è ovviamente il contrario: il
riconoscimento facciale in Cina è reale, pervasivo. Ci sono grappoli di
telecamere appese dappertutto. E appena arrivati in piazza Tiananmen dobbiamo
mostrare i passaporti a un giovanissimo soldato che ce li chiede a muso duro, e
se li rigira in mano per un tempi infinito prima di restituirli.
Nel mio ricordo, piazza Tiananmen è, oltre che gigantesca, austera e
semideserta. Adesso la ritrovo ingombra di una folla chiassosa. Gli occidentali
sono davvero pochi, ma la quantità di turisti cinesi è impressionante. È una
seconda novità rispetto alla mia visita passata. Troveremo la medesima folla
impressionante, indisciplinata e quasi interamente cinese, anche all’interno
della Città proibita.
Già in Russia ci eravamo imbattuti nel fenomeno cinese del “turismo rosso”, che rinnova la memoria della
rivoluzione visitandone i siti storici, ma ora possiamo renderci conto
dell’entità del fenomeno.
Vicino al mausoleo di Mao Zedong si snoda e si avvolge su se stessa la coda
interminabile e paziente di migliaia di visitatori disposti a spendere alcune
ore di attesa per guadagnarsi un singolo minuto, e non di più, di omaggio alle
spoglie del Grande timoniere.
In coda non ci sono solo anziani nostalgici, ma intere famiglie, giovani,
bambini: la stima è che nell’estate 2019 nel turismo rosso siano coinvolti
cento milioni di cinesi.
Una costante rispetto al passato è, invece, la presenza di militari
impettiti che marciano con ammirevole sincronia su e giù per la piazza.
Devo ammettere che quelli odierni sono assai più coreografici dei precedenti,
e sembrano messi lì non tanto per presidiare il territorio, quanto per offrire
ai turisti l’opportunità di scattare una foto in più, con tutto il campionario
delle divise nazionali nella loro versione più elegante.
La terza novità è che gli hutong, i classici,
labirintici vicoli abitati ai primi del novecento dalla classe operaia
pechinese, si stanno gentrificando. Me li ricordo
stretti, grigi, sporchini, pieni di fascino e di odori. Ma in occasione delle
Olimpiadi del 2008 il quartiere storico Qianmen-Dashilar, che si trova accanto
alla Città proibita, è stato trasformato in un lindo distretto commerciale. Una
sorte simile è capitata agli hutong che si
trovano accanto al lago Houhai. E l’intero centro continua a essere pieno di
cantieri, piccoli e grandi.
La quarta novità è che in giro non vedo più nessuno, ma proprio nessuno
vestito con la casacca e gli ampi pantaloni che nel 2005 erano ancora diffusi,
soprattutto tra gli anziani e le anziane. Vedo invece diverse bambine e
ragazze, e qualche signora, vestite nello stile hanfu.
È uno stile d’abbigliamento molto antico, risalente alle epoche precedenti
la dominazione della dinastia Qing, cominciata a metà 1600. Dagli abiti hanfu
sono derivati sia il kimono tradizionale giapponese sia l’hanbok, l’abito
femminile tradizionale comune alle due Coree.
Gli abiti hanfu sono aggraziati, bellissimi, e immagino che siano scelti
anche per le loro caratteristiche estetiche. Ma non solo: sono considerati
un simbolo di autentica cultura cinese, rimandano
all’etica confuciana e sono perfettamente in linea con le recenti esortazioni
presidenziali a riscoprire e promuovere i valori della Cina tradizionale.
Adottarli è un ulteriore modo per esprimere l’identità nazionale e testimoniare
la propria appartenenza. E anche, forse, per prendere qualche ulteriore
distanza dal passato prossimo, guardando con maggior interesse a un passato
remoto molto, molto idealizzato.
La quinta novità è che per strada si vedono alcune, ma non molte, famiglie
con due figli: qualcosa che, nel 2005, era impensabile.
In estrema sintesi: per limitare l’incremento demografico, nel 1979 Deng
Xiaoping vara la politica del figlio unico. È un provvedimento
davvero estremo e molto controverso.
Implica pesanti sanzioni per chi genera un secondo figlio. E, di
conseguenza, aborti forzati, figli clandestini e mai registrati, aborti
selettivi che provocano un’eccedenza di oltre 30 milioni di maschi sulle
femmine. E porta con sé il “problema 4-2-1”, che significa quattro nonni e due
genitori, all’inizio tutti focalizzati a coccolare e a viziare il prezioso
figlio-nipote unico. E poi, invecchiando, tutti economicamente dipendenti da
lui.
Le restrizioni, che hanno risparmiato minoranze etniche, parti gemellari e
zone rurali, sono state mitigate nel 2013 e abolite definitivamente solo nel
2015. Tuttavia, la crescita demografica è ancora oggi troppo bassa per
contrastare l’invecchiamento della popolazione.
Il cielo resta azzurro o quasi per tutta la durata del nostro soggiorno a
Pechino, e non riusciamo a credere alla nostra fortuna. In realtà, non si
tratta solo di fortuna.
Se guardo la classifica delle città
più inquinate del mondo, vedo che tra luglio e agosto la qualità
dell’aria cittadina è accettabile, ma peggiora nei mesi invernali. Scopro però
che la concentrazione media annuale di polveri sottili è dimezzata rispetto al
2009, e che il numero di ore d’aria buona o accettabile è quadruplicato:
quest’anno è oltre la metà del totale.
Lo sforzo governativo per diminuire l’impatto ambientale dello sviluppo
cinese è enorme, ed è centrale nell’azione politica di Xi Jinping. Emblematico,
in questo senso, il recente discorso in cui Xi cita Marx, Mao
ed Engels, ma anche l’I Ching e il Tao Te Ching, testi classici della cultura cinese,
per sottolineare quanto la protezione ambientale vada considerata una delle
priorità nazionali.
Ovviamente il problema ambientale è tutt’altro che risolto, ma alcuni risultati sono già visibili.
Mio figlio ha un amico pechinese, conosciuto mentre entrambi studiavano
negli Stati Uniti. Concordano di vedersi a cena, e che ciascuno porterà la
propria madre. Così, mi trovo seduta di fronte a una signora con gli occhiali,
molto sorridente e molto compìta. La quale, per celebrare il nostro incontro,
ha ordinato una esagerata quantità di cibo, compresa la vera anatra alla
pechinese.
Assaggiarla è un’avventura gastronomica altamente ritualizzata, che si
sviluppa in tre diverse fasi: prima viene servita la pelle, molto croccante,
tagliata a striscioline. Poi, sottilissime fettine di carne. Infine, quel che
resta dell’anatra, ripassato (credo) nel brodo. Si mangia con le mani,
avvolgendo attorno ai pezzetti d’anatra delle piccole crêpe, e aggiungendo
diversi condimenti.
La signora non conosce l’inglese, quindi riusciamo a parlarci attraverso i
figli. È una strana sensazione: non sono esattamente a mio agio e cerco
argomenti di conversazione neutri e semplici.
A un certo punto, però, il discorso sterza sull’esperienza condivisa di
stare per anni lontane da un figlio che studia e vive a migliaia di chilometri
di distanza. Il disagio tra noi si riduce all’improvviso. E la signora si
commuove (anch’io, devo ammetterlo).
“Mangiate, mangiate”, ci esorta lei, “mangiate tutto quel che c’è su questa
tavola perché oggi siamo insieme e dobbiamo fare festa”.
Alla fine della cena, ci abbracciamo.
Il ristorante dove andiamo a cena si trova nel business district di
Pechino, all’interno di un gigantesco complesso commerciale che ospita un hotel
di lusso, un’infinità di ristoranti di ogni tipo, pasticcerie, tutti i negozi
di tutte le grandi marche internazionali del lusso, da Dior a Tiffany a Bottega
Veneta, e perfino una pista di pattinaggio sul ghiaccio e un calzolaio. A ogni
piano, c’è un concierge, che aiuta i visitatori spaesati dall’immensità del
luogo a orientarsi.
Poco distante da lì c’è il grattacielo della China central television.
Progettato da Rem Koolhaas, è un edificio enorme, dalla forma stupefacente. E
intorno c’è una quantità di altri grattacieli: un’esibizione di potere e di
progresso, e una sfida esplicita (non impossibile da vincere) agli analoghi
distretti americani.
Viaggiando in ferrovia da Pechino verso Tayuan scopriremo altre cose
interessanti. La prima è che per fortuna nessuno più sputa per terra (ulteriore
cambiamento rispetto al mio viaggio precedente). La seconda è che, invece,
viene ancora considerato legittimo (almeno dai vicini di scompartimento)
tagliarsi le unghie dei piedi in treno.
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