La prima tappa è San Pietroburgo. E la prima cosa che facciamo è cercare un
negozio di telefonia e comprare una sim. Viaggiare con
un figlio millennial dotato di un telefono con accesso ai dati vuol dire
disporre sempre di tutte le informazioni utili per muoversi bene in una città
sconosciuta.
Ma non solo: vuol dire viaggiare con uno che capirà sempre prima di te il
funzionamento di qualsiasi macchinetta distributrice di qualsiasi cosa o la
mappa di qualsiasi metropolitana, che chiederà in un inglese migliore del tuo
qualsiasi informazione, e che in generale è più veloce e più impaziente.
Vuol dire anche, per esempio, prendere appunti per un articolo da scrivere
un paio di mesi dopo, al ritorno in Italia, mentre lui in tempo reale ha già
postato foto su Instagram e risposto ai commenti di un amico negli Stati Uniti.
E magari preso accordi con l’altro amico che incontreremo a Pechino.
Rallentare e accelerare insieme
Passeremo cinquanta giorni insieme, girando, e mi accorgo che cerchiamo entrambi di sincronizzare non solo il nostro passo (per fortuna sono una decente camminatrice) ma soprattutto il nostro ritmo. Lui rallenta per quanto riesce, io accelero per quanto posso.
Passeremo cinquanta giorni insieme, girando, e mi accorgo che cerchiamo entrambi di sincronizzare non solo il nostro passo (per fortuna sono una decente camminatrice) ma soprattutto il nostro ritmo. Lui rallenta per quanto riesce, io accelero per quanto posso.
Fisica delle relazioni interpersonali: sincronizzarsi è l’imperativo per
ridurre gli attriti.
Ovviamente, per muoverci, ci tocca decifrare almeno qualche scritta (i
cartelli stradali, per esempio) in cirillico. Anche in questo mio figlio è più
bravo e più veloce. La prima parola che imparo a riconoscere è l’onnipresente
KACCA. La C si pronuncia come una s: è la sigma greca, in una grafia medievale.
La cassa, il posto dove si fanno i biglietti.
Per i testi più lunghi c’è l’app di Google translate, che permette di
fotografare una qualsiasi scritta (funziona con 38 lingue) ottenendone
l’immediata traduzione. Provare per credere.
Dopo essere stata rinominata Pietrogrado (nel 1914) e Leningrado (nel 1924)
San Pietroburgo decide con un referendum di tornare a chiamarsi con il suo nome
originale nel 1991, pochi mesi prima che Gorbačëv rassegni le dimissioni, nel
pieno del terremoto economico e politico conseguente alla caduta del muro di
Berlino.
Con il medesimo referendum, la provincia sceglie di conservare il nome
precedente, e continua a definirsi come l’oblast di
Leningrado. Una discreta contraddizione tra prospettive storiche, oltre che tra
centro e periferia.
Chiunque racconti di San Pietroburgo dice che è incantevole: espressione
del progetto e, prima ancora, del sogno di Pietro il Grande di togliersi dagli
intrighi moscoviti e presidiare il mar Baltico costruendo dal nulla, ai primi
del settecento, una città all’altezza delle grandi capitali europee.
In effetti a chi, come noi, si cammina in un giorno d’estate carezzevole e
luminoso, il centro storico di San Pietroburgo appare bellissimo, scintillante
com’è di canali, cupole dorate e tinte pastello. È una palette di toni vezzosi, che sembrano rubati a un
vassoio di macarons.
Eppure, solo nel singolo momento in cui il cielo, da azzurro che era, si
scurisce e diventa color piombo risulta evidente la logica di tutti quei
colori, brillanti per compensare il grigio degli inverni lunghissimi nella
metropoli più a nord del mondo. Clic, clic. Colgo l’attimo e scatto.
Del resto, la nascita stessa della città è segnata dallo sforzo titanico di
addomesticare un luogo inospitale e avverso: decine di migliaia di disgraziati
servi della gleba ci vengono portati a forza, e muoiono in corso d’opera
piantando pali per consolidare il delta paludoso del fiume Neva.
Architetti italiani e francesi si sforzeranno poi di mascherare l’ostilità
della natura progettando strade ampie, piazze ariose, edifici eleganti e
opulenti. È una storia di magnificenza, arroganza, guerra, ambizione, visione e
crudeltà.
Anche la prospettiva Nevskij è molto più ampia di come pensavo, e continua
a essere gremita di gente a ogni ora del giorno, oggi come ai tempi di Nikolaj
Gogol’. Devo fare un bello sforzo di fantasia per immaginare i marciapiedi di
legno della prima metà dell’ottocento, le carrozze e le schiere di impiegati,
militari, signore in cappellino di raso e perdigiorno di cui parla lo scrittore
nel primo dei Racconti di Pietroburgo.
Oggi c’è un discreto traffico. Un sacco di turisti. Un sacco di negozi per
turisti. A metà circa della prospettiva, il susseguirsi di facciate color
pastello è interrotto dal cupo e imponente colonnato semicircolare della
cattedrale di Santa Maria del Kazan. Anche l’interno è cupo. E affollato. Pochi
i turisti. Lunghissima, invece, la coda delle persone in attesa di baciare
l’icona miracolosa di Maria.
Già, le icone si baciano, seguendo una ritualità piuttosto complicata.
Mi sono fatta poi spiegare bene quali sono le regole: se serve, bisogna
mettersi pazientemente in fila. Quando ci si avvicina (può essere necessario
salire qualche gradino) ci si inchina e si fa il segno della croce. Non si
bacia mai (mai! Vietato!) la faccia dell’immagine: bisogna cercare la mano (se
c’è e si vede), perché è quella che benedice. Se no, una croce (se c’è e si
vede). Se no, l’angolo in basso a destra dell’immagine (ma non la cornice).
Dopo aver baciato l’icona, ci si appoggia la fronte. Sulla balaustra
accanto all’icona spesso si trova una salvietta ricamata, nel caso fosse
necessario dare una pulitina al vetro. Se c’è la fila: sbrigarsi, per favore.
Nel 1997, dopo settant’anni di ateismo di stato, la legge “sulla libertà di
coscienza e le organizzazioni religiose” ha stabilito il primato del credo
ortodosso sulle altre quattro fedi russe tradizionali: islam, buddismo,
ebraismo, cattolicesimo.
Curioso segno del cambiamento: dal 1998 l’agenzia spaziale russa fa benedire i razzi
prima del lancio dal prete ortodosso.
La cattedrale del Kazan, come molte altre chiese in precedenza trasformate
in musei, magazzini, scuole o ospedali, è stata riaperta al culto negli anni
novanta.
C’è una gran ressa anche nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo, dove si
trovano le tombe dei Romanov: una quantità di enormi, spoglie, urne di marmo
messe senza troppo ordine una accanto all’altra, alte sul pavimento della
chiesa.
Fervore inaspettato
Non sapevo che, tra mille polemiche, la chiesa ortodossa avesse canonizzato l’ultimo zar, Nicola II, e la sua famiglia, in qualità di martiri (ma non la servitù uccisa insieme a loro). Le spoglie sono state tumulate nel 1998 e definitivamente autenticate solo di recente, grazie a un esame del dna che ha coinvolto molti discendenti, Filippo d’Inghilterra compreso.
Non sapevo che, tra mille polemiche, la chiesa ortodossa avesse canonizzato l’ultimo zar, Nicola II, e la sua famiglia, in qualità di martiri (ma non la servitù uccisa insieme a loro). Le spoglie sono state tumulate nel 1998 e definitivamente autenticate solo di recente, grazie a un esame del dna che ha coinvolto molti discendenti, Filippo d’Inghilterra compreso.
Vicino ai turisti cinesi che si fanno i selfie sfilano famiglie russe,
gruppi di ragazzi, gruppetti di anziane che allungano la mano tentando una
carezza sul marmo. Devo dire che non mi aspettavo tutto questo fervore. L’altra
cosa che non mi aspettavo è l’abbondanza di trofei militari collocati nelle chiese.
“Abbiamo ricominciato a sorridere nel 2005. Prima, tutto il mondo non
faceva altro che rimproverarci lo stalinismo”, mi dice, in ottimo inglese, ma
abbastanza a muso duro e senza troppa voglia di ascoltare repliche, una
graziosa signora bionda più o meno della mia età.
Ascoltandola, percepisco per la prima volta una sensazione che, nel corso
del viaggio, diventerà via via più forte, articolandosi e corroborandosi grazie
a diversi indizi. E a svariati discorsi analoghi.
In sostanza, tutte le vicende e le ferite dell’intero novecento restano ben
vivide, presenti e dolenti nella mente di chiunque abbia più di quarant’anni,
intrecciate con una dose di spirito di rivalsa e di riscatto. È una
disposizione mentale che, nel nostro smemoratissimo paese, appare abbastanza
inconcepibile. Dunque non giudico, non controbatto, ascolto e cerco di capire.
Comincio anche a domandarmi se tutto questo guardare a un passato meno
recente, compresi il fervore ortodosso e la rinnovata attenzione ai Romanov,
non possa essere, anche, strumentale rispetto a qualcos’altro. Per esempio, se
non abbia a che vedere con l’identità e l’orgoglio nazionale. E, perfino, con
il soft power: la capacità di produrre e diffondere
narrazioni interessanti e seduttive per gli interlocutori di altri paesi.
L’Ermitage è gremito: non si può far altro che trascinarsi di stanza in
stanza, tra ori e stucchi, seguendo il flusso. Per fortuna, c’è meno gente che
va a vedere gli impressionisti, giusto di fronte: eppure, basta attraversare la
piazza. La cattedrale di San Nicola dei Marinai è dipinta in un incredibile
azzurro e l’interno è davvero suggestivo: merita una deviazione dagli itinerari
più consueti. Anche il museo Fabergé è gremito, mentre al museo di stato russo
c’è tutto sommato poca gente.
Un buon posto per un pranzo veloce è il Marketplace, un grazioso
self-service al numero 24 della prospettiva Nevskij, con cibo fresco e
arredamento contemporaneo. Un posto di cibo da vedere è, invece, il Magazin
Kuptsov, al numero 56.
Per cenare, la simpatica ventenne al bancone dell’albergo prova a indicarci
un ristorante con camerieri in costume e spettacolo. Le chiediamo dove va lei,
quando esce coi suoi amici. Dice che loro evitano accuratamente la cucina russa
e vanno a mangiare sushi.
“Se proprio volete qualcosa di locale a un buon prezzo, andate in un
ristorante georgiano”, aggiunge. “I georgiani hanno grosse famiglie, si siedono
insieme a tavola e fanno festa. Proprio come voi”.
Non ci prendiamo la briga di mettere in discussione lo stereotipo, e
teniamo conto del suggerimento. Finirà che, nel corso del soggiorno, mangeremo
georgiano diverse volte, con gran soddisfazione.
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