domenica 30 novembre 2025

In morte di una foresta. Così l’esportazione del tannino sta distruggendo l’ecosistema del Chaco argentino - Marta Facchini e Irupé Tentorio

 L'area soffre i più alti tassi di deforestazione al mondo: solo nel 2024 sono andati distrutti 150mila ettari. E il paesaggio si sta trasformando in campi di polvere | Foto di Sofía López Mañan

 

SOMMARIO

1.      Tagliare legname oltre i limiti legali

2.      Il labirinto della produzione di tannino

3.      La rotta del tannino


“Tutti i giorni vediamo passare camion che trasportano tronchi su tronchi dei nostri alberi. È l’immagine di come sta scomparendo il Chaco argentino”. Natay Collet è guardiaparco. Nel suo lavoro quotidiano, assiste in prima persona alle deforestazioni illegali che stanno portando alla distruzione di uno degli ecosistemi più importanti dell’America Latina. Il Gran Chaco è una foresta subtropicale che si estende per 100 milioni di ettari tra Argentina, Paraguay, Brasile e Bolivia. È un territorio prezioso: composto da foreste e macchia, ospita migliaia di varietà di piante e centinaia di specie animali.

Secondo Greenpeace è una delle aree che soffre i più alti tassi di deforestazione al mondo: solo nel 2024 nel Chaco argentino sono andati distrutti 150mila ettari, il 10% in più rispetto all’anno precedente. A causa dell’avanzata dell’industria agricola, del legname e del carbone, il paesaggio si sta trasformando in campi di polvere. Ma, a differenza di quanto accade per la vicina Amazzonia, è una situazione poco visibile.

“Le ruspe producono effetti disastrosi perché le catene distruggono tutto. Alberi, piante, nidi di uccelli, fiori: tutto cade a terra e muore”, aggiunge Collet a ilfattoquotidiano.it mentre cammina per le strade sterrate che conosce a memoria. Per anni ha lavorato come cineasta e ha attraversato questo territorio riprendendo fauna e flora per fare sì che non si perda la loro memoria. Ha proiettato i suoi documentari nelle comunità dei popoli originari che vivono nel Gran Chaco e se ne prendono cura. “Nel nostro ecosistema vivono persone di diverse culture e alcune comunità sono qui da millenni. Hanno un legame spirituale con la foresta. La sua degradazione implica la rottura di una relazione ancestrale con la natura”, prosegue. Si avvicina al fusto di un quebracho colorado: questa specie cresce solamente nella ecoregione del Gran Chaco, l’unico posto al mondo in cui è possibile trovarla

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sabato 29 novembre 2025

Allora del clima non ve ne frega niente - Andrea Barolini

Ciascuno per sé. Non c’è altro modo di descrivere la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite che si è conclusa sabato 22 novembre a Belém, in Brasile. La Cop30 è stata, diciamolo, surreale e caotica da tanti punti di vista. 

Tentiamo una difficilissima sintesi. Nei primi giorni ci siamo, di fatto, tutti illusi. La presidenza brasiliana aveva infatti pubblicato dei testi provvisori che presentavano anche alcune opzioni decisamente ambiziose, in particolare su quello che era stato declamato come l’obiettivo principale della Cop30: adottare una roadmap per l’uscita dalle fonti fossili. È quell’anche che molti hanno sottovalutato.

Alle Cop30 nessun risultato sulle fonti fossili né sulla deforestazione

A fronte di quelle opzioni ambiziose ce n’erano troppe che non lo erano affatto. E soprattutto troppi ipotesi di «no text», che indicavano che qualche governo chiedeva di saltare a piè pari le questioni. Così, a due giorni dalla fine della conferenza è arrivata la doccia fredda. Qualsivoglia ipotesi di dare corpo dalla locuzione anodina e vaga (ma a due anni di distanza, occorre dire, benedetta) uscita dalla Cop28 di Dubai – transitioning away from fossil fuels – è stata abbandonata. Le parole fossil fuels non figuravano più in nessun passaggio della bozza. 

Raggelante, rispetto ai primi giorni di negoziati, nel corso dei quali il dinamismo della presidenza brasiliana – pronta anche a rompere i protocolli pur di arrivare “a dama” – aveva davvero fatto sperare in un risultato positivo. Leggendo quella bozza così piatta e svuotata di contenuti, molti hanno perfino pensato a una tattica: «Che la presidenza lo abbia fatto per sparigliare?». Tanto è stato lo stupore che si è cercato di leggerci, appunto, una strategia. 

E invece no. La realtà era ed è, semplicemente, che nel mondo non c’è accordo. La necessità di superare la dipendenza da carbone, petrolio e gas non è condivisa da tutti. Soprattutto, non lo è dai Paesi che bruciano la stragrande maggioranza di quelle fonti fossili. Stati Uniti, Cina, India e Russia. E sì, certamente: sulla Cina andrebbe fatto un discorso diverso, poiché la posizione di Pechino non è quella di Washington, non c’è alcun dubbio. Ma di fatto, la realtà che occorre dirsi è che «basterebbe un G2 per risolvere il problema dei cambiamenti climatici» (almeno dal punto di vista della mitigazione), come suggerito a Belém da Tommaso Perrone, uno dei giornalisti più esperti di Cop e di negoziati.

I risultati raggiunti alla Cop30 di cui non possiamo accontentarci

È questo il “ciascuno per sé”. Sul superamento delle fonti fossili a dire di no sono i Paesi che le estraggono, le vendono e/o ne sono fortemente dipendenti. Sui trasferimenti di fondi e tecnologia a favore dei Paesi in via di sviluppo a dire di no sono coloro che hanno prosperato per quasi due secoli devastando il Pianeta. Sugli indennizzi per perdite e danni subiti dalle nazioni più vulnerabili della Terra, idem. 

Neppure sulla deforestazione si è riusciti a raggiungere un risultato, nonostante fosse la prima Cop «alle porte dell’Amazzonia». E di certo non ci si può – di più: non di ci deve! – accontentare del fatto che il testo finale indica una “chiamata” (che non è un imperativo) per triplicare i fondi per l’adattamento al 2035 (cinque anni più tardi rispetto alla bozza precedente). Né del fatto che si lanci un Global Implementation Accelerator (Acceleratore globale per l’implementazione, in italiano), senza spiegare né cosa sia né come funzionerà, ma precisando a chiarissime lettere che sarà a carattere volontario. 

O forse si dovrebbe esultare perché è stato timidamente chiesto ai governi di rivedere le loro promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, perché quelle attuali ci porteranno, se va bene, a 2,3-2,5 gradi di riscaldamento globale? O perché è stata lanciata la “Belém Mission to 1.5°C”, anche qui senza spiegare di cosa si tratterà e indicando che comunque se ne riparlerà alla Cop31? O perché, con fatica, si è accettata l’idea di istituire un Just transition mechanism per rafforzare la cooperazione internazionale per una transizione equa? O che l’Unione europea è stata piuttosto collaborativa sulla mitigazione (meno su altri temi)? Sarebbe come accontentarsi perché a un malato di cancro in stadio avanzato è stato concesso un decimo di ciclo di chemioterapia.

All’ultima plenaria a Belém sono volati stracci

Sinceramente, scherziamo? Per giudicare qualcosa è sempre bene fare un paio di passi indietro e osservare la “big picture”. Alla Cop30 si è perfino dovuto tirare un sospiro di sollievo perché è stato citato l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale a un massimo di 1,5 gradi centigradi! Obiettivo che era ormai apparso come assodato in passato, anche dopo che l’Ipcc aveva spiegato (nello Special Report 1.5, nell’ottobre del 2018!) che la differenza tra 1,5 e 2 gradi è passare da una crisi a una catastrofe. 

Ciascuno per sé, dicevamo. Ed è così, di fatto, da un decennio (a partire dalla Cop22 di Marrakech). Un egoismo di fondo che finora era stato – non sempre, ma spesso – mascherato dai compromessi e dal bon ton. Che è mancato clamorosamente durante l’ultima plenaria alla Cop30, con alcune nazioni che hanno letteralmente sbattuto i pugni sul tavolo, con accuse reciproche e dita puntate addosso. Come in una riunione di famiglia obbligata nella quale a un certo punto, improvvisamente, tutti i rancori esplodono in modo dirompente. E sì, anche questo in fondo è multilateralismo. Ma intanto il tempo corre, e a furia di accontentarsi di andare a passo d’uomo ci risveglieremo che è troppo tardi (come se non fosse già troppo tardi).

L’elefante nella stanza alla Cop30 di cui non si parla mai

Ma c’era un elefante nella stanza, in quella plenaria, di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Perché quel “ciascuno per sé” ha una matrice culturale chiara, rintracciabile indiscutibilmente nel nostro modello di sviluppo. La Cop30 non è stata altro se non lo specchio di un sistema predatorio, colonialista, individualista e orientato al solo obiettivo di massimizzare i profitti, i guadagni personali, gli interessi di parte. Interessi diversi, a volte contrapposti, ma ai quali nessuno vuole rinunciare. È l’economia capitalista e ultra-liberista a spingere in quella direzione: ciascuna nazione ha il mandato, di fatto, di fare ciò che credono sia “meglio” per il loro microcosmo di periferia. 

E no, non è massimalismo, non è estremismo additare il sistema economico. Gli estremisti sono quelli che preferiscono distruggere gli equilibri del Pianeta pur di non rinunciare ai propri privilegi. Unica cosa che interessa davvero. Finché non cambieremo questo sistema di valori, non ne usciremo.

È per questo che arrovellarsi su riforme delle Cop per superare le impasse, forse, è un esercizio inutile, senza una riflessione culturale più ampia. Senza la quale non possiamo far altro che accodarci agli stracci che sono volati alla plenaria conclusiva di Belém e dircelo chiaramente, una volta per tutte: del clima, a troppi governi – perdonate il linguaggio rozzo – non frega davvero niente. 

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L’Onu avverte: siamo sulla traiettoria dei 2,5 gradi di riscaldamento climatico - Andrea Barolini

Gli sforzi e le promesse dei governi di tutto il mondo in materia di lotta ai cambiamenti climatici sono ancora insufficienti. A confermarlo è l’ultima edizione dell’Emissions Gap Report, documento pubblicato ogni anno dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). I calcoli degli esperti dell’Onu indicano che, stanti le promesse fin qui avanzate – contenute nelle Nationally determined contributions (Ndc), si prevede una crescita della temperatura media globale compresa tra 2,3 e 2,5 gradi centigradi, alla fine del secolo rispetto ai livelli pre-industriali. 

Si tratta di una stima che appare migliorata soltanto di poco rispetto a quella di un anno fa, quando lo stesso Unep aveva ipotizzato una forchetta compresa tra 2,6 e 2,8 gradi. Soprattutto, parliamo di una quota di riscaldamento climatico nettamente al di là delle soglie ipotizzate dalla comunità internazionale nell’Accordo di Parigi. Quest’ultimo, infatti, indica che occorre limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, e rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. 

Mezzo grado rappresenta la differenza tra crisi e catastrofe climatica

Nel corso del tempo, le stesse Nazioni Unite hanno d’altra parte spiegato che quel mezzo grado può rappresentare la differenza tra una situazione di crisi e una di catastrofe climatica.

Non solo: le stime dell’Unep si basano come detto sulle Ndc. Ovvero su impegni assunti dai singoli governi, che non è detto vengano rispettati (in tutto o in parte). L’esempio più evidente arriva dagli Stati Uniti, che hanno avanzato in passato delle (timide) promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, ma hanno per due volte sconfessato loro stessi, uscendo dapprima nel 2017 dall’Accordo di Parigi, quindi ripetendo la stessa decisione all’inizio di quest’anno (in entrambi i casi le decisioni sono arrivate da Donald Trump).

Le promesse dei governi sono insufficienti

La politica ha dunque un peso enorme sull’azione concreta di contrasto al riscaldamento climatico. «Gli scienziati ci indicano che un superamento temporaneo di 1,5 gradi è ormai inevitabile, a partire, al più tardi, dai primi anni Trenta. E il percorso verso un futuro vivibile diventa ogni giorno più difficile», ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. «Ciò non rappresenta un motivo per arrendersi. È un motivo per intensificare e accelerare gli sforzi. L’obiettivo di 1,5 gradi entro la fine del secolo rimane la nostra stella polare. E la scienza è chiara: è ancora alla nostra portata. Ma solo se aumentiamo in modo significativo le nostre ambizioni».

Commentando invece le nuove Ndc presentate dai governi, Inter Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep, ha ricordato che «le nazioni hanno sprecato tre tentativi per mantenere le promesse fatte nell’ambito dell’Accordo di Parigi. Sebbene i piani climatici nazionali abbiano portato alcuni progressi, questi non sono affatto sufficienti. Esistono soluzioni comprovate: dalla rapida crescita delle energie rinnovabili a basso costo alla lotta alle emissioni di metano. Sappiamo cosa bisogna fare. Ora è il momento che i Paesi si impegnino a fondo e investano nel loro futuro con azioni climatiche ambiziose, che garantiscano una crescita economica più rapida, tutelino la salute umana, creino più posti di lavoro, sicurezza energetica e resilienza».

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venerdì 28 novembre 2025

La turistificazione come dispositivo di governo neoliberale - Thomas Fazi

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione del libro di Antonio di Siena, Turisti a casa nostra (LAD, 2025). Buona lettura!

Questo è un libro che si distingue per molti motivi, a partire dalla capacità di mescolare sapientemente racconto e analisi, esperienza vissuta e teoria, storie e storia, immagini – vivide, vividissime – e numeri. È come un lungo piano sequenza in cui la macchina da presa si muove tra le strade, le case e le persone che le abitano, si sofferma sui loro volti e sulle loro sofferenze, ci catapulta all’interno delle loro lotte, per poi librarsi in cielo e mostrarci dall’alto gli ingranaggi invisibili che stanno lentamente trasformando – o, in larga parte, hanno già trasformato – le nostre città. In questo modo riesce nella rara impresa di restituire, in tutta la sua carnalità, un fenomeno che altri avrebbero affrontato unicamente con i freddi strumenti dell’analisi, sociologica, economica o politica che sia.

Il risultato è ancora più ammirevole se si considera che il fenomeno in questione – la turistificazione – è tuttora in corso: esattamente come fotografare un oggetto in movimento è molto più difficile che catturare qualcosa di statico, anche analizzare dei processi storici mentre si stanno svolgendo – e nei quali siamo direttamente coinvolti – è assai più complesso che studiare dall’esterno processi già compiuti. Ma è proprio questo, in ultima analisi, a rendere così appassionante la lettura: Di Siena non è un osservatore distaccato e tantomeno imparziale – e tantomeno fa finta di esserlo – ma è egli stesso uno dei protagonisti del proprio racconto, essendo quest’ultimo, in molti casi, il frutto di esperienze da lui vissute in prima persona: un racconto, dunque, fatto dall’interno, e il cui finale, come vedremo, è ancora da scrivere.

In questa sede non mi dilungherò troppo sulla natura del processo di turistificazione in sé, anche perché, da non specialista della materia, potrei aggiungere ben poco alla brillante analisi di Di Siena. Piuttosto, mi concentrerò su alcune delle dinamiche storiche – economiche e politiche – che lo hanno determinato. Prima di farlo, però, può essere utile tratteggiare alcuni degli aspetti più salienti del fenomeno. Per turistificazione, nell’analisi di Di Siena, si intende un processo sistemico di colonizzazione ed espropriazione delle città da parte del capitale finanziario, che trasforma lo spazio urbano, la casa, la vita stessa dei cittadini in una merce da cui estrarre valore.

Non indica, dunque, semplicemente la crescita del turismo, ma una vera e propria metamorfosi economica, politica e culturale delle città contemporanee, soprattutto nel Sud Europa. Ci troviamo, in sostanza, di fronte a un processo attraverso cui le città vengono progressivamente riconfigurate secondo la logica del turismo e della rendita, smettendo di essere luoghi di riproduzione sociale – con comunità e identità stabili, servizi, lavoro – per diventare “città-merce” o “quartieri-piattaforma”, come scrive Di Siena: spazi orientati al consumo e al ricambio continuo di visitatori.

La turistificazione è da intendersi, in sostanza, come una strategia di estrazione di valore in un contesto di bassa crescita, quale quello dell’Europa meridionale, in cui ormai vi è ben poco da estrarre dall’economia reale. In tale contesto, le abitazioni diventano la “materia prima” di un’economia renditiera che lavora su affitti brevi, consumo continuo e servizi turistici.

Questo processo di estrazione di valore si articola su due livelli complementari. Da un lato, i proprietari di casa vengono incentivati a privilegiare gli affitti brevi – spesso presentati come un modo per “integrare il reddito” – ma che in realtà spostano una quota crescente dei profitti verso le grandi piattaforme digitali che gestiscono le prenotazioni e impongono le proprie regole, tariffe e commissioni. In questo modo, la piccola proprietà viene inglobata in una catena del valore dominata da attori globali che ne drenano la redditività.

Dall’altro lato, si verifica una progressiva concentrazione della proprietà immobiliare. Attraverso l’imposizione di condizioni di rimborso dei mutui sempre più onerose, famiglie e piccoli proprietari vengono spinti verso l’insolvenza, aprendo la strada all’espropriazione sistematica degli immobili da parte di banche, società immobiliari e grandi fondi d’investimento. Ciò che inizia come indebitamento individuale si traduce in un trasferimento collettivo di ricchezza reale – case, quartieri, interi centri urbani – verso i vertici del capitale finanziario. In sintesi, la turistificazione agisce come un meccanismo di estrazione a doppia mandata: da un lato mercifica l’uso dell’abitazione, dall’altro ne finanziarizza la proprietà, convertendo lo spazio urbano in una miniera di rendita per il capitale globale. Una vera e propria forma di colonizzazione finanziaria.

Si tratta di un fenomeno per molti versi globale, che però, nel Sud Europa, come detto, sembra aver assunto connotati specifici, determinando uno strisciante processo di “secondomondizzazione”, dice Di Siena, in cui il turismo sta progressivamente diventando una monocultura economica: una dipendenza strutturale fondata sulla rendita, la precarietà e la deindustrializzazione. Ciò è particolarmente preoccupante se consideriamo la natura iper-estrattiva di questo modello, che comporta una duplice espropriazione: non solo economica e materiale ma anche simbolica, nella misura in cui quartieri perdono identità e memoria collettiva, diventando “non-luoghi” pensati per la mobilità e la transitorietà.

Di Siena sottolinea giustamente come quest’ultima non rappresenti un effetto collaterale della turistificazione, ma bensì uno dei suoi obiettivi non dichiarati. La turistificazione, infatti, svolge anche una importante funzione politica: pacifica il conflitto sociale, assorbendo temporaneamente la disoccupazione attraverso lavori precari, stagionali e non sindacalizzati; riduce la pressione per politiche di piena occupazione, sostituendo il welfare con quello che Di Siena chiama un “welfare surrogato”, cioè un sistema di sopravvivenza fondato sulla rendita, l’indebitamento e la precarietà; e, infine, frammenta le comunità, disinnescando alla radice qualunque tentativo di resistenza a cui questo processo potrebbe – dovrebbe – dar vita. Lo svuotamento sociale diventa dunque una forma di controllo politico: un vero e proprio dispositivo di governo neoliberale (“svuotare per dominare”).

E qui arriviamo al nocciolo della tesi di Di Siena: ovvero sia che la turistificazione non è affatto un processo naturale – e neanche la conseguenza inevitabile della crisi o al massimo della sua mala gestione – ma una strategia politica deliberata, promossa e sostenuta dagli Stati dei paesi in questione, finalizzata alla costruzione di “un modello semi-schiavile o – se vogliamo – neocoloniale”, come scrive. Di Siena analizza in profondità le politiche adottate dagli Stati al fine di creare le condizioni strutturali che rendano possibile l’estrazione di risorse attraverso il turismo: dalla precarizzazione del mercato del lavoro alla compressione della spesa pubblica e del welfare, dalla riforma dei contratti di locazione alla facilitazione degli sfratti. Tutti interventi che, lungi dall’essere risposte contingenti alla “crisi”, delineano un vero e proprio modello di governance economica fondato sulla rendita e sull’instabilità sociale.

In questa sede, tuttavia, vorrei soffermarmi sul ruolo — a mio avviso ancor più decisivo — giocato in questo processo dall’Unione europea, intesa non semplicemente come cornice istituzionale, ma come sovrastato neoliberale incaricato di coordinare e standardizzare tali politiche a livello continentale. Lungi dal limitarsi a imporre vincoli di bilancio, come vedremo, l’UE ha agito come un meccanismo di centralizzazione del potere economico e normativo, trasformando la cosiddetta “governance europea” in una vera e propria infrastruttura di estrazione di valore dal basso verso l’alto. Per parafrasare Marx, potremmo dire che l’Unione europea si configura oggi come il comitato che amministra gli affari comuni delle élite finanziarie transnazionali.

Per comprendere appieno il ruolo dell’Unione europea nel processo di turistificazione descritto da Di Siena, occorre tornare alle origini storiche e politiche del progetto di integrazione europea. Fin dall’inizio, l’obiettivo non era soltanto economico, ma profondamente politico: addomesticare le forze del lavoro organizzato, neutralizzando la capacità di conflitto che, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, aveva costretto il capitale a condividere una parte significativa dei propri profitti – e ad accettare una riduzione del proprio potere di classe – sotto forma di salari, welfare e diritti sociali.

La costruzione europea si configura così dall’origine come una risposta di classe alla crisi degli anni Settanta: una crisi percepita dalle élite non solo come un problema di natura economica – nel senso di una riduzione dei profitti – ma come minaccia politica, poiché l’aumento del potere contrattuale del lavoro – reso possibile dalla piena occupazione e dalla democrazia industriale – metteva in discussione la distribuzione del potere e dei profitti all’interno del capitalismo occidentale. Il cosiddetto “vincolo esterno” – l’idea che la disciplina economica dovesse essere imposta dall’esterno, attraverso regole sovranazionali e mercati finanziari – divenne fin da allora il principale strumento per contenere la sovranità democratica e restaurare il potere del capitale.

Un primo passo in questa direzione fu il Sistema monetario europeo (SME), istituito nel 1979. Esso legò rigidamente i tassi di cambio fra le valute europee, impedendo alle singole economie di utilizzare la leva monetaria per sostenere l’occupazione e la spesa pubblica. In tal modo, la politica economica nazionale venne progressivamente subordinata agli obiettivi della stabilità dei prezzi e della competitività esterna: obiettivi funzionali non alla prosperità collettiva, ma alla tutela dei creditori e degli esportatori. Lo SME rappresentò, di fatto, una prima forma di addomesticamento del lavoro: vincolare la politica monetaria significava togliere ai governi lo strumento con cui, nel dopoguerra, si era garantita piena occupazione.

Con la creazione del mercato unico europeo (1986) e la contestuale liberalizzazione dei movimenti di capitale (1990), questo processo entrò in una nuova fase. Le frontiere economiche vennero aperte non tanto per favorire la cooperazione, quanto per creare concorrenza permanente tra Stati e lavoratori. La libera circolazione dei capitali, in particolare, privò i governi della possibilità di controllare i flussi finanziari, ponendo le economie nazionali sotto il ricatto costante dei mercati. Si trattò di un passo decisivo verso la finanziarizzazione dell’economia europea, che trasformò il credito, l’immobiliare e il debito in nuovi terreni di estrazione di valore – gli stessi su cui oggi si fonda, in larga parte, la turistificazione.

La creazione dell’Unione europea – fondata sulla “libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” – e l’introduzione dell’euro portarono a compimento questa architettura. Cedendo la loro sovranità monetaria, gli Stati rinunciarono alla possibilità di gestire autonomamente il ciclo economico. L’unico strumento rimasto per correggere gli squilibri tra i paesi dell’area euro – non potendo più svalutare la moneta – divenne dunque la svalutazione interna, cioè la compressione dei salari, dei diritti e della spesa pubblica. Si inaugurò così un modello economico export-led, fondato sulla competizione tra lavoratori europei e sulla riduzione sistematica del costo del lavoro. In nome della competitività, le economie del Sud Europa vennero spinte verso la specializzazione in settori a basso valore aggiunto, tra cui appunto il turismo, mentre i paesi del Nord, e in particolare la Germania, rafforzarono la propria posizione industriale ed esportatrice.

La crisi dell’euro non ha fatto che esasperare queste dinamiche. Gli squilibri strutturali generati dalla moneta unica – enormi surplus commerciali nel Nord e deficit nel Sud –, combinati con gli effetti della crisi finanziaria, esplosero nella cosiddetta “crisi del debito sovrano” – a sua volta generata dall’impossibilità per i singoli Stati di gestire autonomamente le proprie politiche monetarie – che fu usata dalle istituzioni europee come arma politica per imporre riforme neoliberali radicali.

Oggi sappiamo, infatti, che tale “crisi” fu in larga misura “ingegnerizzata” dalla BCE (e dalla Germania) per imporre un nuovo ordine sul continente, in una sorta di “shock economy” autoindotta. L’allora presidente della BCE, Jean-Claude Trichet, non fece mistero del fatto che il rifiuto della banca centrale di sostenere i mercati dei titoli di Stato nella prima fase della crisi finanziaria fosse finalizzato a fare pressione sui governi dell’eurozona affinché consolidassero i loro bilanci e attuassero le cosiddette “riforme strutturali”, in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro.

La BCE e la Commissione sfruttarono dunque la crisi come occasione per trasformare l’Unione in un laboratorio di ingegneria sociopolitica: salvare le banche con denaro pubblico, scaricare i costi sui cittadini attraverso tagli, privatizzazioni e precarizzazione, e imporre un processo di radicale neoliberalizzazione dell’economia europea.

Emblematica, in tal senso, fu la lettera inviata nel 2011 da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi al governo italiano, nella quale la BCE imponeva un vero e proprio programma di governo: riduzione della spesa sociale, riforme del mercato del lavoro, deregolamentazione e privatizzazioni su larga scala. Un memorandum di austerità preventiva, concepito per ridurre il potere contrattuale del lavoro e assicurare la disciplina dei mercati finanziari.

Ma la BCE non si limitò a far fare il lavoro sporco ai mercati. In più di un’occasione utilizzò il proprio potere di monopolio della valuta come strumento attivo di pressione finanziaria e monetaria. Un esempio fu la decisione della BCE di ridurre gli acquisti di titoli di Stato italiani, pochi mesi dopo l’invio della famosa lettera, al fine deliberato di provocare un’impennata dello “spread” e costringere così Berlusconi a dimettersi e a lasciare il posto al governo “tecnico” di Mario Monti – un vero e proprio esempio di “colpo di Stato monetario”.

Ma il caso greco rappresentò l’esempio più brutale di questa logica. Nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE destabilizzò deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche greche, effettivamente portando a uno stop tutto il sistema bancario del paese, con l’obiettivo di costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, ricattando così un intero popolo per imporre politiche di tagli, licenziamenti e svendite del patrimonio pubblico. È forse superfluo a questo punto ribadire che il cosiddetto “salvataggio” della Grecia non servì a salvare i greci, ma piuttosto le banche creditrici francesi e tedesche, esposte verso Atene: in nome della solidarietà europea si consumò così un gigantesco trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord del continente.

Tutto ciò ha avuto effetti profondi e duraturi: smantellamento dei sistemi di welfare, precarizzazione del mercato del lavoro, aumento delle disuguaglianze e svuotamento della democrazia economica, stagnazione economica e deindustrializzazione. Parallelamente, la politica economica – già pesantemente limitata dall’architettura dell’euro – è stata completamente sottratta al processo democratico e subordinata alle regole del capitale finanziario.

Ed è proprio in questo contesto che matura il terreno su cui attecchisce la turistificazione. Quando il lavoro stabile viene sostituito da lavori precari e stagionali, quando la spesa pubblica è compressa e gli investimenti produttivi si prosciugano, il turismo diventa l’unico settore capace di generare flussi di liquidità immediata, seppure al prezzo di una crescente dipendenza e di un impoverimento strutturale. In questo senso, la turistificazione, in cui la città diventa una piattaforma di estrazione per il capitale globale, è la conseguenza logica – e voluta – del modello economico europeo: un modello nato per favorire gli interessi delle oligarchie finanziarie, in cui la rendita finisce per prendere progressivamente il posto della produzione, soprattutto nei paesi del “secondo mondo” europeo.

La lezione che emerge da ciò – e che attraversa in filigrana tutta l’analisi di Di Siena – è che la turistificazione non è un’anomalia da correggere con qualche politica di settore o con un po’ di “regolazione intelligente” dei flussi turistici, ma il sintomo di una malattia molto più profonda: la subordinazione integrale dell’economia, dello spazio urbano e della vita sociale alle logiche della rendita e della finanza. In questo senso, immaginare di contrastarla semplicemente “cambiando politica economica”, senza mettere in discussione le fondamenta dell’attuale ordine monetario e istituzionale europeo, equivale a curare un’infezione sistemica con un analgesico.

Superare la turistificazione implica, invece, un rovesciamento strutturale: la riappropriazione, da parte degli Stati e delle comunità, degli strumenti fondamentali di gestione e orientamento dell’economia – dalla politica monetaria a quella industriale, dal credito pubblico alla pianificazione territoriale. Significa restituire alla sfera democratica ciò che oggi è stato consegnato ai mercati, alle banche centrali “indipendenti” e alle istituzioni tecnocratiche di Bruxelles.

Solo attraverso il recupero della sovranità economica e politica, cioè della capacità collettiva di decidere come e per chi produrre ricchezza, sarà possibile invertire il processo di deindustrializzazione e precarizzazione che ha reso intere società dipendenti dalla monocultura del turismo. Finché le città saranno governate dalle stesse regole che hanno imposto l’austerità, la compressione dei salari e la privatizzazione dei beni comuni, esse continueranno a trasformarsi sempre più in scenografie da sfondo ai flussi del capitale finanziario.

Spezzare la logica della turistificazione, dunque, non significa solo cambiare modello urbano: significa cambiare paradigma economico e politico. Significa – per usare le parole di Di Siena – “riscopr[ire] la comunità come infrastruttura portante della democrazia e la stabilità come diritto e non come privilegio”, sottraendo le nostre città al destino di colonie interne del capitale globale.

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giovedì 27 novembre 2025

viaggiando in Cina (con Loretta Napoleoni e Ugo Bardi)

 

Il luogo che che sta sfidando le concezioni tradizionali di sviluppo e modernizzazione è in Cina - Loretta Napoleoni

 

Xinjiang - novembre 2025
Nelle distese aride del deserto del Gobi sta nascendo qualcosa di straordinario, qualcosa che sfida le concezioni tradizionali di sviluppo e modernizzazione. Lo Xinjiang, vasta regione nel cuore dell'Eurasia a due passi dalla Mongolia, non è semplicemente una provincia cinese in via di sviluppo - è il laboratorio vivente dove si sta scrivendo il futuro energetico del pianeta.

Ciò che colpisce immediatamente arrivando qui è la contraddizione apparente che invece funziona perfettamente. Un sistema socialista con un'economia capitalista, un partito unico che guida un mercato vibrante e innovativo. Mentre l'Occidente si arrovella su ideologie obsolete, la Cina ha creato qualcosa di unico: un ibrido che combina pianificazione statale lungimirante con l'agilità del mercato e l’innovazione tecnologica.

Quando scrivevo "Maonomics" oltre un decennio fa, avevo intuito il potenziale di questo modello, ma non avevo previsto che i risultati positivi arrivassero tanto velocemente. Oggi, vedendolo all'opera nello Xinjiang, posso confermare: le mie previsioni non solo si sono avverate, ma la realtà le ha superate. La Cina si è modernizzata in modo pacifico, in tempi record e lo ha fatto mantenendo la propria identità culturale. A differenza della Corea del Nord, si è aperta al mondo, un’apertura che non ha comportato l’omogeneizzarsi alla cultura occidentale. Nello Xinjiang non si trovano McDonald's a ogni angolo di strada, ma ristoranti che offrono piatti provenienti dalle 23 etnie presenti nella regione e si respira un'aria di autenticità e diversità che ormai in Occidente abbiamo dimenticato.

I dati sono impressionanti: 104,8 milioni di kW di capacità rinnovabile installata, con 40,37 milioni di kW aggiunti solo nel 2024. Ma i numeri da soli non rendono giustizia alla portata di ciò che sta accadendo. Quello che vediamo qui è la trasformazione di una provincia con grandi potenzialità energetiche in un modello nuovo globale.

Le riserve? 450 miliardi di tonnellate di carbone (25% del totale cinese), 4,2 miliardi di kW di potenziale solare (26,9% nazionale), 1 miliardo di kW di potenziale eolico (18% nazionale). Ma la vera rivoluzione non sta nell'abbondanza delle risorse, bensì nella visione strategica con cui tutte vengono gestite.

A Hami, conversando con Liu Xiaobo, presidente della Commissione per lo Sviluppo e le Riforme, ho capito la profondità della transizione. In dieci anni, la capacità installata è più che raddoppiata, superando i 23 GW. Oltre il 40 per cento del mix energetico locale è già rinnovabile. Ma ciò che veramente conta è come stanno risolvendo il problema fondamentale delle rinnovabili: l'intermittenza.

"La tecnologia di accumulo è la chiave", mi spiega Liu. E infatti vedo all'opera sistemi diversificati: batterie a flusso di vanadio nel Parco Industriale Fotovoltaico di Shichengzi, nel deserto Gobi, pompaggio idroelettrico, e soprattutto una riconversione intelligente del termoelettrico, che da fonte primaria diventa "stabilizzatore" di rete.    

La centrale solare termodinamica a torre con sali fusi da 50 MW nel deserto del Gobi è forse la cosa più bella che abbia visto in questo viaggio. Non solo per la sua efficienza - produce energia 24 ore al giorno - ma per la sua estetica. Una distesa immensa di specchi che riflettono il sole verso una torre centrale crea un paesaggio futuristico che sembra uscito da un film di fantascienza.

E poi le batterie. Visitando il parco fotovoltaico di Hami, ho capito che la soluzione all'intermittenza è già qui. La capacità di immagazzinare l'energia rinnovabile cambia tutto e qui ad Hami esiste. Non è più una questione di produzione, ma di gestione dell’energia verde. E in questo, la Cina è anni luce avanti all'Occidente.

All'Istituto Tecnico-Professionale Ferroviario di Hami, che ha appena lanciato il primo corso di laurea in rinnovabili, vedo realizzato ciò che fino a ieri era solo teoria: ogni edificio è una centrale elettrica, una visione futurista che avevo preannunciato in Maonomics e che oggi e’ realta’. Pensiline fotovoltaiche che ricaricano veicoli elettrici, pavimentazioni che producono energia, lampioni ibridi solari-eolici, facciate in perovskite che trasformano gli edifici in generatori.
Tutto cio’ non è solo tecnologia - è una filosofia energetica. L'integrazione tra didattica e industria, tra teoria e pratica, rappresenta l'unica risposta possibile all'avanzare dell'intelligenza artificiale. È la cooperazione "umana" che può prevenire il sopravvento delle macchine e che le può piegare ai bisogni della società.

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Nel mio viaggio a Shanghai ho visto il successo cinese sulle rinnovabili. Noi invece andiamo indietro – Ugo Bardi

Sono di ritorno da un soggiorno a Shanghai, in Cina, per un convegno sull’energia e la sostenibilità. Una cosetta un po’ in grande, organizzata, fra gli altri, dall’Unesco, dal Club di Roma e dall’Università di Scienze Ingegneristiche di Shanghai. Una maratona di presentazioni e discussioni fra ricercatori di 15 paesi diversi che mi hanno permesso di capire parecchie cose.

Nel campo della sostenibilità, la Cina ha fatto passi da gigante con il concetto di “civiltà ecologica” che è oggi una politica ufficiale del governo. L’idea è che la Natura e l’Economia umana devono mantenersi in armonia l’una con l’altra, un concetto anche espresso come “Le Due Montagne.” Solo chiacchiere? Direi di no. Quando i cinesi si mettono in mente di fare qualcosa, di solito la fanno seriamente.

Non che non si faccia greenwashing in Cina, ma una cosa i cinesi l’hanno capita: bisogna liberarsi dai combustibili fossili il prima possibile. La Cina importa quasi tutto il petrolio e il gas che usa, e questo è costoso e rende il paese strategicamente vulnerabile. Hanno ancora carbone come fonte principale di energia elettrica, ma è fortemente inquinante e non può durare per sempre. Quindi, i cinesi hanno capito che l’energia del futuro è rinnovabile e stanno puntando tutto su quello (incidentalmente, non ho sentito parlare di energia nucleare al convegno. Mi sembra di capire che ci lavorano sopra per lasciare aperta la possibilità che un giorno diventi conveniente, ma è una cosa marginale).

Sulle rinnovabili, il successo cinese è stato a dir poco strabiliante. L’industria cinese è oggi in grado di produrre impianti fotovoltaici per tutto il mondo a costi bassi che stracciano ogni altra fonte. Per non parlare delle batterie, delle auto elettriche, dell’automazione e dell’elettrificazione del sistema economico in generale. Tutte aree dove la Cina sta guadagnando un vantaggio tecnologico sull’Occidente che potrebbe presto diventare incolmabile.

E non è tanto questione che loro vanno più veloci di noi: mentre loro vanno avanti, noi andiamo indietro. Invece di investire nel futuro, ci stiamo affannando a puntare su tecnologie obsolete ancora basate sui fossili. C’è poco da dire, avremo quello che ci meritiamo.

Così, la crescita della produzione di energia rinnovabile in Cina è esponenziale, mentre il carbone è in stallo e se ne prevede un rapido declino nei prossimi anni. Il piano governativo presentato al convegno prevede di arrivare al “Net Zero” entro il 2060. Potrebbe essere troppo tardi per evitare grossi danni a tutto l’ecosistema terrestre, ma ci sono buone possibilità di accelerare la transizione. I cinesi sono noti per eccedere le aspettative quando ci si mettono.

Già ora, i risultati si vedono. Una volta, le città cinesi erano note per essere orribilmente inquinate ma oggi, se passeggiate per Shanghai sui grandi viali trafficati, potete sentire il profumo delle piante aromatiche che crescono sui bordi (a parte le zone dove l’odore principale è quello dei ristoranti cinesi!). I motorini sono tutti elettrici. Le auto private lo sono in gran parte, mentre il traffico pesante non è ancora elettrificato, ma ci stanno lavorando.

Non me la sono sentita di raccontare ai colleghi cinesi che in Italia sono tutti convinti che le macchine elettriche sono un imbroglio e prendono fuoco come fiammiferi. Prima o poi, certe cose le capiremo anche noi.

Come impressione dopo dieci giorni in Cina, a parte le bandiere rosse che sventolano agli angoli delle strade, la vita dei cittadini cinesi non è diversa da quella dei cittadini di tutte le grandi città del mondo. Shanghai è molto grande e affollata, ma è sicura, pulita, vivace e bene organizzata. Nelle zone centrali, l’aggettivo “mozzafiato” si applica bene all’architettura che ci trovate. Fra le tante cose, vi potete facilmente imbattere in una danza pubblica in una piazza, il guǎngchǎng wǔ, dove qualche centinaio di persone si impegnano tutte insieme per mantenersi in forma e socializzare. È un’atmosfera piacevole di comunità locale.

Se poi vi piace il cibo cinese, Shanghai è il posto giusto e i ristoranti non sono per niente cari. Insomma, se avete qualche ragione per andare in Cina, o semplicemente volete fare un po’ di turismo diverso dal solito, è un viaggio che vi consiglio caldamente.

Per concludere, al convegno ho presentato i miei risultati sugli effetti del CO2 come sostanza dannosa per la salute umana: un’altra buona ragione per liberarsi dei combustibili fossili. Trovate una breve discussione in un post precedente.

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mercoledì 26 novembre 2025

Black Friday, uno studio del Journal of Macromarketing rivela: “L’acquisto compulsivo è un comportamento patologico” - Elisabetta Ambrosi

Ansia, stress, "devianza" sociale e inquinamento: le ricerche della Cornell University e dello Yale Center for Customer Insight dimostrano gli impatti negativi della corsa sfrenata al consumismo

Spinge le persone ad acquistare ciò che non avevano programmato, intensificando il desiderio di avere prodotti in sconto e a tempo limitato e così intaccando i loro risparmi. Può provocare emozioni intense e negative come rabbia e frustrazione, sia per la paura di perdere una presunta opportunità, sia per la realizzazione di aver comprato una cosa inutile e sbagliata. Infine, rischia di impattare sulle persone psicologicamente fragili e con meno autocontrollo e al tempo stesso può persino indurre le persone a mettere in atto comportamenti socialmente “devianti” pur di raggiungere lo sconto.

Per gli studiosi di psicologia sociale e del consumo, insomma, il Black Friday – divenuto ormai una Black Week – rischia di produrre una serie di effetti psicologici nefasti. Ai quali si aggiungono quelli più etici ed ecologici sottolineati dal mondo del consumo sostenibile e dell’ambientalismo, dalla svalutazione del lavoro al greenwashing.

La paura di perdere opportunità

La letteratura scientifica degli ultimi dieci anni è puntellata di analisi del Black Friday come uno dei fenomeni che più mette in atto meccanismi di pressione sui consumatori. Pressione addirittura fisica, oltre che psicologica. In un interessante studio della Cornell University, “Social Force Model parameter testing and optimization using a high stress real-life situation”, viene analizzato un video reale di una folla all’apertura di un negozio durante il Black Friday, modellandola con il “Social Force Model”, un modello usato per simulare comportamenti di folla in situazioni di stress o panico. Lo studio mostra che il comportamento dei consumatori in certe situazioni di Black Friday può assomigliare ad una “evacuazione”: molti entrano rapidamente, alta densità di persone, forte “pressione fisica” oltre che psicologica.

Nell’articolo Decoding Black Friday Shopping Behavior, dello Yale Center for Customer Insight, che fa parte dello Yale School of Management, si afferma che solo il 38% dei consumatori compra, durante il Black Friday, secondo i propri piani. Inoltre, un fenomeno che si verifica proprio durante il Black Friday è quello dello “shopping momentum”, per cui un acquisto iniziale innesca una sequenza di decisioni d’acquisto, non correlate alle scelta iniziale. In pratica, una persona che entra per comprare un televisore finisce per essere un acquirente multiprodotto.

Tra gli altri fattori psicologici che inducono stress ci sono la paura di perdere l’occasione (FOMO, Fear of Missing Opportunity), la mentalità della scarsità del bene in vendita e la pressione sociale comparativa. Ne parla in dettaglio lo studio A Review on the Cause of Black Friday Consumerism, pubblicato nel 2024 nel Journal of Education Humanities and Social Sciences. Secondo lo studio, una delle spinte principali è la mentalità della scarsità, un bias cognitivo che aumenta il valore percepito di un bene raro o di un’opportunità limitata. Le offerte a tempo limitato e le promozioni restrittive generano urgenza e intensificando il desiderio di ottenere prodotti prima che scompaiano, ma possono evocare emozioni intense come eccitazione e rabbia.

Una pressione che grava sui più fragili

Mette in luce i rischi per i consumatori più vulnerabili l’articolo Situational Factors of Compulsive Buying and the Well-Being Outcomes: What We Know and What We Need to Know, pubblicato sul Journal of Macromarketing. Eventi come il Black Friday rappresentano un rischio per coloro che hanno scarsa auto-regolazione o tendenza agli acquisti impulsivi. Il comportamento d’acquisto compulsivo (CBC) è un comportamento patologico, ma in pochi lo prendono in considerazione come tale. Infine, nell’articolo, meno recente, What’s Deviance got to do with it? Black Friday Sales, Violence and Hyperconformity, pubblicato dal The British Journal of Criminology, si analizza come alcuni comportamenti durante il Black Friday possano essere visti come “devianza” sociale: combattere per sconti, calpestare le regole di convivenza, rompere le norme sociali.

Il Black Friday viene messo sotto accusa anche dai teorici del consumo responsabile e dal mondo ambientalista. “Noi riteniamo che il Black Friday sia l’apice simbolico di una economia che incentiva l’acquisto compulsivo piuttosto che il bisogno reale, trasformando il risparmio in illusione e generando spreco, per non parlare delle dinamiche di iperproduzione e sfruttamento sottese alla giornata”, afferma Nicholas Bawtree, direttore delle Edizioni Terranuova, da sempre sui temi della sostenibilità. “Inoltre”, continua, “il Black Friday produce una perdita di percezione del valore della produzione di oggetti così come della cultura. Non vogliamo colpevolizzare i singoli e il consumo, vogliamo ridare valore alle cose”.

Sottolinea un aspetto più drammatico Angelo Miotto, giornalista, saggista e autore di Produci, consuma crepa. Manuale di resistenza e cambiamento (Altreconomia): “Purtroppo siamo dentro un vero e proprio ricatto etico, perché anche se non si decide di comprare per il Black Friday siamo comunque schiavi dello stesso sistema fatto di salari bassi, situazioni abitative precarie e difficoltà ad arrivare a fine mese”.

Lavorare su informazione e consapevolezza

Si dice d’accordo nel non colpevolizzare i singoli anche Bruno Mazzara, docente di Psicologia dei consumi all’Università La Sapienza di Roma. “Il problema è il sistema che presenta l’acquisto come una promessa di felicità, costringendo le persone a una corsa e una competizione continue. Tuttavia, siccome le persone sono il terminale operativo, è fondamentale che sia loro chiaro il meccanismo economico alla base della crescita e dell’accumulo”. Consapevolezza e coerenza sono aspetti fondamentali anche per Angelo Miotto. “Posso anche andare a comprare la mia lavatrice al Black Friday non essendo d’accordo con il Black Friday e sapendo l’impatto che genera, ma appunto devo esserne consapevole e cercare un orizzonte che permetta di cambiare”. “In definitiva, il Black Friday ci allontana dalla vera domanda: ho davvero bisogno di questa cosa? Io proporrei, allora, un Green Friday, o un Giving Friday, un giorno per donare, o uno Slow Friday: prendersi tempo per esperienze e relazioni”, conclude Nicholas Bawtree.

C’è poi, ultimo ma non per importanza, l’aspetto dell’impatto ambientale. Secondo uno studio di Transport Environment, l’inquinamento da camion, principale mezzo di trasporto in Europa, aumenta del 94% nella settimana del Black Friday, con un aumento di emissioni pari a quelle di 3500 voli da Parigi a New York. Anche il WWF sottolinea l’impennata di emissioni legate alle consegna da Black Friday, e al tempo stesso mette in luce anche un altro problema: l’impatto generato dai resi. “Ogni reso aumenta del 30% le emissioni legate alla logistica, e oltre il 25% dei prodotti viene scartato dai rivenditori, aggravando il problema dei rifiuti”. Ma, proprio a causa della pressione ad comprare, i resi degli acquisti on line sfiorano il 40%, contro il 10% dell’acquisto a negozio. Comprare fisicamente potrebbe essere, intanto, una scelta di sostenibilità.

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martedì 25 novembre 2025

Allarme di Confcommercio: 140mila attività scomparse in 12 anni

 

In dodici anni si sono abbassate definitivamente 118mila serrande di negozi italiani e sono scomparse circa 23mila bancarelle di vendita ambulante. Un’emorragia che rischia di precipitare nel prossimo decennio e che già ora presenta cali particolarmente accentuati in centri storici e piccoli comuni. Sotto il profilo della tipologia di attività, ad avere la peggio sono stati finora i distributori di carburante, articoli culturali e ricreativi, mobili e ferramenta nonché abbigliamento e calzature.

È quanto emerge da un’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio in vista dell’iniziativa nazionale “inCittà-Spazi che cambiano, economie urbane che crescono”, dedicata al futuro delle città e delle economie urbane, organizzato dalla Confederazione che si terrà a Bologna, a Palazzo Re Enzo, il 20 e 21 novembre prossimi. Un trend che, senza nuove ed efficaci politiche di rigenerazione urbana e senza interventi per riutilizzare gli oltre 105mila negozi sfitti (un quarto dei quali da oltre un anno), è destinato ad aggravarsi ulteriormente con il rischio di perdere, da qui al 2035, altre 114mila imprese al dettaglio. In pratica, oltre un quinto delle attività oggi esistenti sparirebbe con gravi conseguenze per l’economia urbana, la qualità della vita e la coesione sociale.

In particolare, analizza l’Ufficio Studi di Confcommercio, dal 2012 al 2024 hanno chiuso quasi 118mila imprese del commercio al dettaglio in sede fissa e circa 23mila attività ambulanti, per una riduzione totale di oltre 140mila unità, risultato di un eccesso di chiusure rispetto alle aperture. Le cause – ad avviso di Confcommercio – sono riconducibili a una crescita insufficiente dei consumi interni, al cambiamento dei comportamenti di spesa dei consumatori e alla diffusione delle tecnologie digitali che hanno favorito gli acquisti online. Non a caso, nello stesso periodo le imprese attive operanti prevalentemente su internet o nella vendita per corrispondenza sono aumentate di oltre 16mila unità (+114,9%).

Nell’ambito del commercio al dettaglio in sede fissa, le contrazioni più rilevanti si registrano tra i distributori di carburante (-42,2%), i negozi di articoli culturali e ricreativi (-34,5%), il commercio non specializzato ( 34,2%), store di mobili e ferramenta (-26,7%) nonché negozi di abbigliamento e calzature ( 25%). Molte città medio-grandi del Centro-Nord sarebbero quelle più esposte a questo fenomeno, mentre per alcuni Comuni del Mezzogiorno il calo sarebbe più contenuto, soprattutto per la riduzione dei residenti e il minor ricorso agli acquisti online. A fronte di questa emergenza Confcommercio, anche attraverso il progetto Cities, propone un’Agenda Urbana Nazionale da definire insieme a Governo, Regioni e Comuni, per rigenerare i centri urbani valorizzando le economie di prossimità e le imprese del terziario di mercato con l’obiettivo di creare un quadro stabile e integrato delle politiche urbane, promuovendo strumenti condivisi contro la desertificazione commerciale e per una logistica urbana sostenibile.

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lunedì 24 novembre 2025

Tornato dal Sahel, ho sentito parlare solo di guerre. Anche qui impera la militarizzazione della società - Mauro Armanino

 

Sono le tre parole che ho sentito più usate dal mio ritorno dal Sahel. In questi pochi mesi mesi, armi, guerra e sicurezza sono proprio quanto credevo aver lasciato partendo dal Niger. Dopo 14 anni di permanenza tra le zone più ‘critiche’ dell’Africa pensavo di trovare ben altra musica tornando a casa. I militari al potere nei tre Stati confederati nel Sahel centrale, i gruppi armati affiliati a Al Quaeda e Stato Islamico, quelli di autodifesa, mercenari di varia provenienza e armi in quantità. Questo sembra essere il sentire e vivere quotidiano nel Mali, Burkina Faso e Niger. Società nelle quali l’ambito militare appare tanto pervasivo da incidere nei ritmi e stagioni politiche di questi Paesi. Mi sbagliavo.

Dall’altra parte del mondo, colui che per convenzione unilaterale si chiama ‘Nord’, si trova lo stesso clima solo declinato in un contesto che definire democratico è altrettanto fuorviante. Bisogna armarsi e riarmarsi, accrescere la potenza per colpire prima dell’eventuale attacco nemico. Occorre prepararsi alla guerra che verrà, probabilmente presto o comunque quando sarà necessario. La propria sicurezza sarà cercata, promessa e garantita, anzitutto e dappertutto. Per la nostra tranquillità ci sono le aree video-controllate nei bus, nei treni, i luoghi pubblici, le chiese, le frontiere e in ogni tipo di entrata che meriti questo nome. Anche in questa porzione del mondo si opera la militarizzazione della società.

Il canale privilegiato per la crescente militarizzazione della società è, naturalmente, il linguaggio che opera attraverso narrazioni pre-confezionate a misura della realtà che si vuole imporre. Da tempo non è il reale che veramente conti ma il tipo di realtà o meglio il consenso che da essa si desidera veicolare. I mezzi di comunicazione sono consapevoli di quanto disse al giornalista Ron Suskind del New York Times nel 2004 un consigliere dell’allora presidente degli Usa George W. Bush: “Non è più in questo modo che il mondo funziona. Adesso siamo un impero e, quando agiamo, noi creiamo la nostra propria realtà. Mentre voi studiate, giudiziosamente come lo desiderate, questa realtà, noi operiamo di nuovo e creiamo altre nuove realtà… che voi potrete debitamente studiare: è così che funziona…Noi siamo gli attori della storia e a voi non rimane che studiare ciò che noi facciamo”.

Per condurre a buon porto l’operazione la costruzione del nemico, vero, presunto, possibile o inverosimile, rimane una tappa primordiale. Da questo punto di vista basterebbe rileggersi Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Il giovane soldato Giovanni Drogo che spende la sua vita in una fortezza di confine e proprio quando il nemico sembra finalmente giungere è lui che scende per l’ultimo e definitivo viaggio. Viviamo come in una fortezza in attesa dei barbari e nel frattempo ci si arma, e si prepara la guerra per dare la sicurezza che, com’è noto, solo il cimitero può garantire. L’Occidente sembra determinato a trasformarsi in un immenso cantiere che organizza il cimitero dei sogni.

Demilitarizzare i pensieri e le parole. Mettersi all’ascolto del reale di cui i poveri sono il volto censurato. E, soprattutto, come disse nel 2002 a Bari la docente di linguaggio Nurith Peled Elanan, il cui figlio di 13 anni è stato ucciso, “termini come libertà e onore, Dio e pace, il bene del Paese e anche democrazia possono essere armi letali… siamo coloro che sanno che non c’è pace o libertà, nessun bene e nessun Dio dopo la morte di un bambino”.

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domenica 23 novembre 2025

Carne scaduta, ricongelata e messa sul mercato. L’inchiesta di Report sul macello leader nell’import - Franz Baraggino

"Non si butta via niente" è il titolo del servizio di Giulia Innocenzi per la nuova puntata del programma di Sigfrido Ranucci, in onda domenica 23 novembre su Rai3

 

Le inchieste di Report, in onda stasera, domenica 23 novembre, su Rai3, tornano a occuparsi di quello che l’industria alimentare porta sulle nostre tavole. Perché, a quanto pare, “Non si butta via niente“. È il titolo del servizio di Giulia Innocenzi, che condurrà lo spettatore all’interno del macello Bervini di Pietole, in provincia di Mantova, tra partite di carne scaduta provenienti da UruguayNuova Zelanda, Ungheria, Ucraina, Romania e persino dalle riserve militari egiziane, che venivano scongelate, lavorate e ricongelate per essere messe sul mercato. Tutto all’interno di un’azienda leader nel settore della lavorazione delle carni estere, che fattura circa 200 milioni l’anno. “Era nera, puzzava, era brutta. Alla vista e all’olfatto era immangiabile”, raccontato le testimonianze raccolte tra gli operai. Peggio: il congelamento non elimina i batteri e lo scongelamento in acqua calda favorisce la loro replicazione, compresi patogeni come salmonella e listeria, spiegano gli esperti intervistati.

Sacchetti di carne caduti a terra e rimessi nei cassoni, piani di lavoro contaminati dal sangue, armadietti infestati da scarafaggi. Pratiche che, chiarisce il servizio, moltiplicano ulteriormente la carica batterica delle carni lavorate. Poco importa: dopo la rimozione dello strato superficiale compromesso, la carne veniva riconfezionata con nuove date di scadenza. Noto per selezionare carni pregiate dall’America Latina e persino specie esotiche come antilopezebra e cammello, il macello nascondeva un sistema di riciclo che avrebbe potuto mettere a rischio la salute dei consumatori. Secondo quanto riferito dalla stessa azienda, “le normative consentono di procedere al congelamento delle carni fresche refrigerate, cioè conservate da -1 a 2 gradi, ma prima che venga raggiunta la data di scadenza”. Ma quanto filmato dal programma di Sigfrido Ranucci mostra che a Pietole le cose andavano in modo decisamente diverso.

Il servizio rilancia interrogativi cruciali sulla trasparenza delle filiere e la tutela dei consumatori. “Due i piani di ragionamento”, spiega Innocenzi a ilfattoquotidiano.it. Il primo riguarda l’industria, che punta a “tagliare i costi e ad aumentare i guadagni: una carne che non può essere consumata e va distrutta in quanto scaduta, rimessa sul mercato ti porta un guadagno doppio”, segnala la giornalista. “Ma inseguire così il profitto significa mettere in pericolo la salute dei cittadini”. Il secondo aspetto riguarda i controlli. “Abbiamo chiesto ai Servizi veterinari come sia possibile la lavorazione di carni scadute, perché non sia stata intercettata”. La criticità sta nel fatto che “i controlli a sorpresa non vengono quasi mai eseguiti”. Al contrario, si opera solitamente “con controlli programmati, dei quali le aziende vengono preventivamente informate”. Un sistema che, aggiunge la giornalista, “va totalmente ripensato: c’è in ballo alla salute dei cittadini”.

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sabato 22 novembre 2025

Ancora ci sono consiglieri regionali che vogliono un nuovo Editto delle Chiudende in Sardegna - Grig

 

Passano gli anni, ma l’appetito sulle terre collettive in Sardegna non svanisce.

Come nel recente passato, in parte della classe politica isolana c’è sempre il famelico desiderio di un nuovo Editto delle Chiudende.

Lo scorso 19 novembre 2025 le due Commissioni permanenti IV (Territorio) e I (Autonomia) hanno approvato all’unanimità una proposta di risoluzione perché si giunga a una norma di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna che consenta di fare il bello e il cattivo tempo sui terreni a uso civico.

La proposta sarà portata alla votazione dell’Aula assembleare il prossimo 26 novembre 2025.

Al di là della politicamente corretta necessità di “attribuire ai componenti di nomina regionale della Commissione paritetica Stato-Regione di cui all’articolo 56 dello Statuto speciale per la Sardegna, l’incarico di elaborazione di una norma di attuazione da portare all’attenzione della Commissione medesima, che permetta di definire una procedura condivisa con lo Stato, che contemperi l’esigenza regionale di dare certezza giuridica a situazioni consolidate e legittime con l’irrinunciabile principio statale di tutela dei valori paesaggistici e che possa offrire una soluzione alle problematiche descritte nelle premesse”, l’obiettivo reale è “avviare un nuovo processo di mappatura dei terreni regionali gravati da uso civico sulla base di un’interlocuzione diretta con le comunità, affiancando alle risultanze meramente cartolari la valorizzazione della conoscenza consuetudinaria come elemento interpretativo essenziale per la ricostruzione giuridica e cartografica del demanio civico”.

In parole povere, strafregarsene di decenni di provvedimenti commissariali e regionali che sono giunti quasi a conclusione degli accertamenti dei demani civici delle comunità locali per arraffare quanti più terreni possibile, magari già occupati illegittimamente da complessi turistico-edilizi (come nel Sarrabus), da centrali eoliche (come nel Goceano, sul Montiferru, nel Villacidrese, nel Parteolla), da discariche gestite da aziende private (come a Serdiana) e così via sottraendo ai diritti delle collettività locali.

Magari svolgendo quella “interlocuzione diretta con le comunità” attraverso qualche consuetamente dispendiosa indagine di ricerca da svolgersi con il non disinteressato supporto di esponenti universitari.

Se soldi pubblici devono esser spesi, lo devono essere per rafforzare, formare, rendere più efficiente strutture regionali competenti in materia di usi civici.

Attualmente in Sardegna, secondo quanto oggetto di provvedimenti di accertamento, risultano terreni a uso civico in 340 Comuni sui 369 su cui sono state condotte le operazioni.

I criteri per l’accertamento degli usi civici sono chiari e sono uguali in tutta Italia: sono i terreni di origine “feudale o ademprivile”e quelli di “antico possesso” o “originaria pertinenza” e si verificano fondamentalmente attraverso l’esame degli archivi dello Stato e degli altri Enti Pubblici Territoriali, degli Archivi notarili, degli archivi commissariali (per la Sardegna vds. la deliberazione del 10 dicembre 2021, n. 48/15 con cui la Giunta regionale sarda ha approvato lo specifico “Atto di indirizzo interpretativo e applicativo per la gestione dei procedimenti amministrativi relativi agli usi civici di cui alla L.R. n. 12/1994, alla L. n. 1766/1927 e alla L. n. 168/2017” anche in attuazione delle disposizioni nazionali in materia di usi civici, comprese quelle sul trasferimento dei diritti di uso civico).

I Comuni sardi sono 377: mancano ancora le attività di accertamento su 7 Comuni, nei quali si stima, comunque, la presenza di terre collettive.

In 30 Comuni, al termine delle operazioni, non sono risultati terreni a uso civico.

Complessivamente (considerando anche gli ultimi 7 Comuni dove devono esser svolte le operazioni di accertamento, ma dove se ne stima la presenza), dovrebbero essere 348 su 377 i Comuni dove sono presenti i demani civici, ben il 92% dei Comuni sardi.

Sono stati, inoltre, verificati e aggiornati i dati (estensione, catasto, ecc.) relativi ai 340 demani civici accertati (luglio 2021), grazie a un buon lavoro condotto dalle strutture regionali competenti.

L’estensione complessiva delle terre collettive finora accertate è di circa 303.676 ettari, pari al 12,62% dell’Isola, riportati nell’Inventario regionale delle Terre civiche, il documento fondamentale, di natura ricognitiva, per la conoscibilità dei terreni appartenenti ai demani civici in Sardegna.

L’Istituto Nazionale di Economia Agraria stimava (1947) la presenza di 314.814 ettari di terreni a uso civico in Sardegna.

In Italia si stima che le terre collettive siano il 7-10% del territorio nazionale e il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha recentemente avviato una indagine conoscitiva in proposito.

I domini collettivi, i terreni a uso civico e i demani civici (legge n. 1766/1927 e s.m.i.legge n. 168/2017regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.) costituiscono un patrimonio di grandissimo rilievo per le Collettività locali, sia sotto il profilo economico-sociale che per gli aspetti di salvaguardia ambientale, valore riconosciuto sistematicamente in sede giurisprudenziale.

I diritti di uso civico sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili e imprescrittibili (artt. 3, comma 3°, della legge n. 168/2017 e 2, 9, 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.). I domini collettivi sono tutelati ex lege con il vincolo paesaggistico (art. 142, comma 1°, lettera h, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).  Ogni atto di disposizione che comporti ablazione o che comunque incida su diritti di uso civico può essere adottato dalla pubblica amministrazione competente soltanto a particolari condizioni, previa autorizzazione regionale e verso corrispettivo di un indennizzo da corrispondere alla collettività titolare del diritto medesimo e destinato a opere permanenti di interesse pubblico generale (artt. 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.).

I cittadini appartenenti alle collettività locali sono gli unici titolari dei diritti di uso civico nei rispettivi demani civici (artt. 2, commi 3° e 4°, e 3, commi 1° e 2°, della legge n. 168/2017 e s.m.i.).  Inoltre, il regime giuridico dei demani civici prevede la “perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” (art. 3, comma 3°, della legge n. 168/2017), nonché “l’utilizzazione del demanio civico … in conformità alla sua destinazione e secondo le regole d’uso stabilite dal dominio collettivo” (art. 3, comma 5°, della legge n. 168/2017).

Quindi, i beni in proprietà collettiva sono soggetti per legge a vincolo di destinazione e a vincolo ambientale: non possono essere oggetto di una concessione amministrativa che ne importi la trasformazione.

E quando si verifica l’avvenuta irreversibile trasformazione di terreni dei demani civici si può avviare il procedimento di trasferimento dei diritti di uso civico: la legge n. 168/2017 in materia di usi civici è stata integrata con le disposizioni poste dall’art. 63 bis della legge n. 108 del 29 luglio 2021 di conversione con modificazioni e integrazioni del decreto-legge n. 77/2021, il c.d. decreto governance PNRR) che consente il trasferimento dei diritti di uso civico da terreni ormai irrimediabilmente compromessi (es. perché edificati) ad aree provenienti dal patrimonio comunale o regionale di valore ambientale (es. boschi, coste, zone umide, ecc.). In Sardegna vi sono già stati diversi procedimenti in proposito (per esempio, a Monti, ad Abbasanta, a San Vero Milis, a Oristano, a Lanusei, a Sindia, ecc.) che hanno consentito un recupero ai demani civici di terreni di valore ambientale e contemporaneamente han risolto le problematiche di tanti cittadini.

Un grande patrimonio ambientale collettivo che dobbiamo conservare e custodire per le generazioni future.

E il GrIG, che da decenni agisce concretamente per la salvaguardia delle terre collettive sarde, come già avvenuto negli anni scorsi, farà di tutto per evitare qualsiasi nuovo sciagurato Editto delle Chiudende sotto qualsiasi forma.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

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