La “grande bellezza” di Cagliari non è un sufficiente metro di misura per
valutare il suo sistema di protezione sociale per le persone più deboli ed
emarginate. Basta leggere la cronaca degli ultimi mesi per comprendere come la
vita poveri di Cagliari stia peggiorando, in maniera progressiva e in assenza
di politiche sociali adeguate.
Esperienze positive di accoglienza vengono compromesse come quella
del centro di
solidarietà di viale Sant’Ignazio che subirà una chiusura per
lavori urgenti, producendo l’allontanamento di un centinaio di persone fragili
tra ex detenuti, ex tossicodipendenti e persone con sofferenza mentale che
abitavano il centro da più di dieci anni. Oppure come quella dell’unica comunità
alloggio per minori che forniva il servizio di accoglienza in
emergenza che chiuderà con il conseguente licenziamento degli operatori e il
trasloco di dieci minori privi di famiglia.
Delle dichiarazioni dell’assessore alle politiche sociali della giunta
Zedda mi terrorizza la mostruosa freddezza burocratica con cui vengono
riportate sugli organi di informazione. Si parla solo della difficoltà dei
bandi e di trasferimenti in nuovi luoghi, ma non di cosa fare dei percorsi di
reinserimento sociale che accompagnano la vita di queste persone, come se
fossero solo dei pacchetti numerati da spostare da un luogo ad un altro e non esseri
umani. Una freddezza che svela l’assenza di anticorpi del sistema delle
politiche sociali cagliaritano nei confronti del virus delle vecchie e delle
nuove povertà urbane che avanzano a macchia d’olio e che ricorda quella degli
ultimi anni del governo del PD che ha inseguito la strada del consenso della
peggiore destra populista favorendo una guerra sociale degli ultimi contro i
penultimi.
I dati periodici dell’Eurostat sul numero di persone a rischio di povertà
e di esclusione sociale ci rivelano come le nuove piazzette e i nuovi
giardinetti della nostra città nei prossimi anni non riusciranno a nascondere
più il disastro sociale delle periferie: I poveri aumenteranno insieme a nuove
forme di povertà, talvolta impercettibili. La filosofa spagnola Adela Cortina
ha coniato una nuova ed efficace parola per apostrofare questa tendenza
disumana sempre più presente nei grandi centri urbani: aporofobia,
cioè l’odio e il rifiuto verso i poveri. C’è infatti qualcosa di patologico
quando il pezzo di società delle persone che funzionano disprezza l’altro pezzo
di società delle persone che non funzionano più.
Rispetto a questo quadro poco incoraggiante l’unico modo di garantire il
diritto all’uguaglianza nelle città è quello di mandare meno comunicati stampa
trionfalistici e favorire di più il dinamismo dal basso insieme ai soggetti che
vivono condizioni di povertà e disagio. Solo così si potrà costruire una città
aperta e accogliente. Non basta contrastare l’esclusione sociale con
provvedimenti assistenziali ma è necessario promuovere la crescita di tutte le
dimensioni territoriali della città, comprese le fasce più deboli che abitano
le nostre periferie, rendendole protagoniste dei processi di trasformazione
sociale degli spazi pubblici delle loro comunità. Ma se gli orientamenti delle
politiche sociali della giunta Zedda rimarranno fermi a vecchie modalità verticali
e istituzionalizzanti questa città imploderà presto su se stessa.
Nessun commento:
Posta un commento