È stata
Juliet Schor, sociologa al Boston College, ad accorgersi del fenomeno. Stava
studiando le famiglie che negli Usa praticano il cosiddetto downshifting, vale a dire la
riduzione dei consumi, la decelerazione nella vita quotidiana,
l’attitudine alla sobrietà e alla semplicità dei rapporti umani. E si accorse
ben presto di una stranezza: nessuna delle famiglie che aveva fatto quella scelta aveva bambini in
casa.
Da quella
scoperta fu indotta a occuparsi del consumismo fra i bambini statunitensi e
scoprì un continente sommerso. In alcuni mesi di ricerca fu in grado di
constatare una
frattura storica sconvolgente: per la prima volta nella storia l’influenza
formativa sui bambini dalle mani delle famiglie e degli insegnanti era passata
alle imprese. Queste avevano lavorato alacremente per allargare
un mercato ancora vergine e pressoché illimitato. Dal 1980 al 2004 gli
investimenti in pubblicità destinata all’infanzia erano passati da 15 milioni
di dollari l’anno a 15 miliardi.
Non è naturalmente un
fenomeno statunitense. La Psicologa Susan Linn in un saggio del
2010 del Worldwatch Institute dedicato alla «commercializzazione nella vita dei
bambini», ha rilevato che le sole industrie alimentari spendono circa 1,9
miliardi di dollari l’anno in campagne di marketing mirate ai bambini di tutto
il mondo. Non è una pratica senza conseguenze: «L’organizzazione mondiale della
sanità e altre istituzioni per la salute pubblica identificano nel marketing
rivolto all’infanzia un fattore rilevante dell’epidemia globale di obesità
infantile».
Non è solo la
pubblicità, ovviamente. Tutta la cultura capitalistica dei nostri anni cerca
con feroce determinazione in ogni angolo del vivente materia da cui estrarre
profitto. E trova sempre solerti figure intellettuali pronti a fornire
motivazioni di utilità generale. Negli Usa è esplosa la questione
dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione è stata
quella di rendere more productive, più produttivi i
bambini, che devono impiegare tutto il tempo scolastico ad apprendere.
Eppure è noto, e non da oggi, che proprio il gioco, tra i bambini, è una
esperienza formativa decisiva per il loro futuro e per il futuro di tutti noi.
«La spiritualità – ricorda ancora la Linn – e i progressi scientifici e
artistici si fondano tutti sul gioco. Il gioco promuove attributi essenziali a
una popolazione democratica, quali la curiosità, il ragionamento, l’empatia, la
condivisione, la cooperazione e un senso di competenza, cioè la convinzione che
un individuo possa cambiare le cose in questo mondo». E il gioco sta sparendo
nel XXI secolo, sostituito da attività istituzionalizzate e disciplinate
(scuole, palestre), dalla fruizione passiva della tv, dagli intrattenimenti
digitali sempre più pervasivi, al punto da creare ormai patologie di massa.
Ma ora è
l’Europa che entra più esplicitamente in campo per forgiare esemplarmente la
nostra infanzia. Non per creare zelanti e totalitari consumatori, ma
addirittura volitivi e vincenti imprenditori. In un documento di quaranta
pagine elaborato dal Joint Research Centre dell’Unione europea, e varato nel
2016, il cosiddetto Entrecomp: the entrepreneurship competence,
framework più importante delle otto competenze europee, che il Miur esorta ad
assumere come riferimento teorico anche per la scuola italiana, è la capacità
di fare impresa.
Per
intenderci e per usare le espressioni dei nuovi manager che si stanno
impossessando della scuola europea, occorre fare apprendere
come si diventa capitalisti di successo «attraverso metodi di insegnamento e
apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare».
Già i
bambini di cinque o sei anni dovrebbero apprendere ad «assumersi rischi»,
«prendere iniziative», imparare a «mobilitare gli altri», ecc. Si tratta, per
chi stenta a credere – ma si leggano in rete gli articoli di Rossella Latempa
sulla rivista Roars – di un passo
in avanti, rispetto alle esortazioni degli anni scorsi, da parte del ministero
dell’Istruzione, a fornirsi di «competenze trasferibili», soprattutto quelle
digitali, «che i datori di lavoro esigono sempre di più». Dalla a scuola a servizio
delle imprese, alla scuola che ha per fine ultimo quello di
creare imprese.
Non ci sono dubbi.
Siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento
totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni
dell’economia capitalistica. Il pensiero unico vuol crearsi le
basi antropologiche della propria infinita riproduzione. Ma che società sarà
quella popolata da un uniforme esercito di imprenditori? Quanto può durare un
mondo di uomini che vogliono, tutti, competere e vincere? E che fine fa
l’infanzia, chi protegge i nostri bambini contro tali progetti di pedofilia
economicistica? Quando reagiremo, di fronte a queste forme ormai dispiegate di
criminalità intellettuale?
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