“Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da
Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito tradotto in italiano
da Feltrinelli, una amara e spietata denuncia delle tante cause di morte e di dolore a cui sono
esposti milioni di persone nell’ambiente delle fabbriche, dei cantieri, delle
miniere.Immaginate una guerra che non risparmia donne e bambini,
durante la quale, nel mondo, ogni
anno, 3 milioni di persone muoiono subito e per le ferite, le mutilazioni, le
lesioni e le malattie riportate per cause di lavoro, e in cui350 milioni di persone soffrono per incidenti avvenuti
negli anni precedenti. Solo in
Italia ogni anno i morti per il lavoro sono oltre 1000 e gli incidenti sul
lavoro oltre mezzo milione. Questa guerra è in corso, continuamente, e le
persone di cui parlo sono operai e contadini, guidatori di treni o navi o
camion, fabbricano automobili o edifici o scavano carbone nelle miniere e
pietre nelle cave. Di questi morti e feriti non
esistono neanche statistiche esatte perché molti sono lavoratori non protetti,
non registrati dalle
agenzie delle Nazioni Unite o dai singoli governi. Spesso le morti o le
malattie privano una famiglia dell’unica fonte di reddito.
Nel settembre 1943 nasceva a
Roma l’associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro
(ANMIL) che il 19 settembre di ogni anno ricorda le vittime del lavoro. A
livello mondiale la International Labour Organization ha deciso di dedicare un
giorno, il 28 aprile di ogni anno, al problema dei pericoli e della sicurezza
sul lavoro, quest’anno col tema della vulnerabilità dei giovani lavoratori.
Secondo il pensiero corrente sarebbe finita l’esistenza della
“classe operaia”; si dedica molta attenzione all’ecologia e alla difesa della
natura e dell’ambiente che sono intorno a noi. Si finisce
però per dimenticare che la prima ecologia si ha nell’ambiente di lavoro dove
un enorme numero di persone, alcuni miliardi nel mondo, vengono ogni giorno a
contatto con le mani e col corpo con sostanze tossiche, operano in condizioni
di pericolo, sono esposti a rumori e anche a sempre nuove forme di nocività.
Non
si dovrebbe morire, e neanche ferirsi o ammalarsi per il lavoro, che non è una
cosa astratta, il mezzo per portare a casa un salario o stipendio,ma
è la più importante attività umana, quella che permette a ciascuno di noi, di
muoverci, di scaldarci, di avere ogni giorno nei negozi gli scaffali pieni
delle merci che desideriamo.
Si dimentica, o si fa finta di
non sapere, che in ciascuna merce o sevizio (assistenza medica, mobilità,
turismo, istruzione, eccetera) c’è “dentro” abilità e fatica e dolore — e anche morte —
di qualche persona, donna, uomo, adulti o ragazzi, vicina o lontana. Comunque
le statistiche sulle morti per il lavoro sono ingannevoli perché vengono
contabilizzati solo coloro che muoiono direttamente, cadendo dalle impalcature,
o colpiti da getti di metalli incandescenti, o travolti da un macchinario o da
un trattore, o in breve tempo dopo l’incidente; molti
altri muoiono a mesi o anni di distanza per le conseguenze dell’assorbimento,
durante il lavoro, di polveri o sostanze tossiche o cancerogene.
Il
caso più clamoroso è quello dei morti fra gli operai che hanno maneggiato
l’amianto, una delle perverse sostanze cancerogene che da oltre mezzo secolo sono presenti
intorno a noi, un lento veleno che proviene dagli isolamenti termici e
acustici, da tubazioni, recipienti e tettoie di amianto-cemento, dai freni
degli autoveicoli, e che continua a minare la salute di coloro che son ancora
esposti all’amianto nelle operazioni di rimozione, eliminazione e smaltimento
di manufatti contenenti le pericolose fibre.
L’amianto è solo una delle molte nocività presenti nell’ambiente
di lavoro. Da decenni le organizzazioni dei lavoratori si
battono per eliminarle; nei paesi europei solo dopo lunghe e dure lotte, dopo
varie inchieste parlamentari, sono state ottenute delle leggi che migliorano
(che dovrebbero migliorare) le condizioni di lavoro e diminuire i pericoli e
per informare i lavoratori sui pericoli da cui sono circondati e a cui sono
esposti, spesso senza saperlo. Ci
sono voluti anni per eliminare i più tossici fra i solventi clorurati impiegati
nelle lavanderie “a secco”, o il benzene nelle
colle impiegate nella produzione di scarpe, o per imporre le maschere di
protezione per gli addetti alla verniciatura a spruzzo.
Spesso
le norme non sono osservate perché rallentano il lavoro o
impongono maggiori costi e minori profitti “ai padroni”; purtroppo
spesso il pericolo “non si vede” e non si sente e i tumori o le malattie si
fanno sentire a molti anni di distanza, come si è visto nel caso
dell’intossicazione da cloruro di vinile o dai fumi delle cokerie o dagli altri
silenziosi veleni, tanto che è difficile, anche a fini di assicurazioni e
risarcimenti e responsabilità dei datori di lavoro, riconoscerli come la vera
causa di molte morti. Nocività, pericoli e veleni mutevoli nel tempo in seguito
a “innovazioni” tecniche, all’uso di nuove materie prime, alla diffusione di
nuove attività, come quelle che hanno a che fare con lo smaltimento dei rifiuti
urbani e industriali, anch’essi di composizione mutevole a seconda della
provenienza. Nelle stesse università e nei centri di ricerca ci sarebbe moltissimo
da fare, per chimici, ingegneri, medici, merceologi, per aiutare i lavoratori a
conoscere le sostanze pericolose con cui vengono a contatto.
I
morti per il lavoro meritano al più qualche frettolosa riga nella cronaca dei
giornali. Mi piacerebbe che le
città, per ogni morto per il lavoro, proclamassero il lutto cittadino, dal
momento che si tratta di persone che hanno dato la vita per assicurare una
frazione del benessere di cui ciascuno di noi gode. Ci sono delle città in cui
una via o una piazza è dedicata ai “Caduti sul lavoro”; sarebbe importante che
di loro si parlasse nelle scuole, dal momento che i ragazzi di oggi sono pure i
lavoratori di domani.
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