martedì 27 marzo 2018

Eolico, la rivolta di Bitti - Cosimo Filigheddu



Quando immagino la mia terra picchiettata di pale eoliche penso che forse ci arriviamo presto a questo punto perché siamo i più coglioni del mazzo tricolore. Mi consolo un pochino vedendo le navi da crociera che, siccome ai turisti le cose bisogna fargliele vedere bene, a Venezia sfiorano San Marco a dimostrare che le navi sono più grandi. E l’ “essere più grande” è un principio primordiale di affermazione virile che ha come conseguenze il più noto “avercelo più grande”. Roba da barbari, insomma. O da leghisti. Ma poi penso che questo dei guai dei veneziani è un contentino. Venezia almeno ha un illustre passato imperialista: quando i bizantini hanno rotto i coglioni ai suoi mercanti, ha persino devastato Costantinopoli che era cristiana più di lei. Popolo in gamba, insomma, quello lagunare. Si saprà difendere, alla fine.
Noi sardi, invece, non so quanto ci sapremo riparare da questa schiera di grattacieli rotanti con i quali vogliono liquidare definitivamente l’ultima nostra vera risorsa: la bellezza.
Sandro Roggio l’altro giorno, in articolo molto efficace sulla Nuova Sardegna, si chiedeva se non abbiamo dato già abbastanza, se il nostro contributo alla industrializzazione del Paese da un paio di secoli a oggi non sia sufficiente. Industrie inquinanti, cascate di cemento nelle coste, servitù militari. A cominciare dal taglio dei boschi che ha mutato per sempre la fisionomia della Sardegna. Roggio cita a questo proposito Fiorenzo Caterini, autore di “Colpi di scure e sensi di colpa”, che credo sia il saggio più approfondito mai scritto sulla tragedia economica e ambientale del disboscamento nell’isola.
Quella legna serviva a produrre il petrolio della rivoluzione industriale, cioè il vapore. Ma quando è stato necessario il petrolio vero e proprio si è scelto di raffinarlo in Sardegna con una complessa bolla economico-occupativa privata ma alimentata da soldi pubblici. Un pasticcio che dopo avere provocato un’illusione industriale, ha in breve tempo prodotto una deindustrializzazione selvaggia, una disoccupazione devastante e un’unica eredità duratura: la desolazione ambientale di zone pregiate ora difficilmente recuperabili.
Adesso dunque il contributo che dovremmo dare si ammanta di un verde politically correct perché parla di energie rinnovabili, energie pulite. E mi chiedo però quanto l’eolico, sul quale solo gli investitori grossi si buttano a pesce, sia davvero pulito e davvero conveniente per tutti. Innanzitutto chissà perché l’eolico domestico non decolla come il fotovoltaico (pur con tutte le incertezze) e sembra funzionare soltanto se tappezziamo il paesaggio di queste pale ciascuna delle quali è alta 150 metri, cioè un grattacielo di cinquanta piani. Perché si abbia un’idea di che cosa parliamo, in tutta Italia di edifici di simile altezza ce ne sono al massimo sei o sette. In Sardegna neppure uno. Il “Grattacielo Nuovo” di piazza Castello a Sassari, che credo sia il palazzo più alto dell’isola, misura ottanta metri.
Mi chiedo quindi perché sia necessario un simile impatto affinché la produzione di energia sia conveniente per chi investe. Un vantaggio economico discutibile,sembra. A meno che non funzioni soltanto perché ci sono i contributi europei che lo rendono un buon affare soltanto su grande e impattante scala. E infatti ogni volta che si ventila la minaccia di ridurre questi contributi, la grande industria urla come un porco scannato. Da ciò il malevolo dubbio che questa faccenda delle pale convenga soltanto alle imprese. Che tra l’altro in questo affare producono occupazione soltanto al momento del montaggio.
Non so l’esatto contributo dell’eolico al fabbisogno nazionale. Mi sembra di capire che superi il dieci per cento, che non è poco. Ma è un buon traguardo se rapportato al riempimento di alcuni dei più bei siti del nostro Paese, al dissesto di montagne, al suolo coperto con strade finalizzate solo a quegli impianti? E’ un guadagno di energia o uno spreco di ambiente?
E ora tocca a Bitti, uno dei paesi e delle zone più belle della Barbagia, felicemente equilibrata nell’antica tradizione dell’allevamento, industria dove convivono la fierezza della cultura tradizionale (nel centro storico c’è tra l’altro un bellissimo Museo dalla Civiltà Contadina e Pastorale) e un’avanzata modernizzazione della maggior parte delle aziende.
Se la spunteranno le pale eoliche, il loro rumore, oltre a uccidere e a fare fuggire gli uccelli e a disturbare gli animali allevati, coprirà simbolicamente la musica antica del Canto a Tenore, di cui Bitti è fiera, a testimoniare di questa nuova aggressione di una certa civiltà industriale agli spazi che ancora se ne erano salvati.
Bitti si rivolta. Lo fa da sola. La Regione è stata scavalcata per questioni di “pubblica utilità” e in generale la classe politica regionale, salvo rare eccezioni, non è accorsa ad aiutarla. All’orizzonte si profilano queste tredici enormi torri, dieci nel territorio di Bitti e tre in quello di Orune, oltre alle strade di accesso e quelle interne al complesso, fondazioni in cemento armato per ciascuna torre di una ventina di metri di diametro e tre di profondità, piazzole fisse, scavi per i cavi. Un’occupazione che coinvolge circa settecentomila metri quadri di terra con un complesso di cose che non hanno a che fare con quel paesaggio che di per sé produce da secoli cultura e reddito, tra allevamento e ricchezze paesaggistiche e storiche, tra le quali numerose domus de janas.
Il ministero dell’Ambiente ha dato a Bitti sessanta giorni di tempo per rispondere. La speranza sempre più tenue è ora che a rispondere non sia Bitti ma la Sardegna.

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