Solo trecento metri separano le
ultime case di Portoscuso e i primi impianti della zona industriale. La strada passa sotto un ponte di nastri trasportatori, costeggia un
deposito scoperto di minerali, supera la centrale termica dell’Enel e prosegue per cinque o sei
chilometri tra giganteschi serbatoi, capannoni, un deposito di carbone a cielo
aperto. Portoscuso è un comune di cinquemila abitanti sulla costa
della Sardegna sud-occidentale, nella regione del Sulcis. La sua zona industriale, chiamata Portovesme, è una delle più grandi dell’isola. Nata a fine anni ’60, èun insieme di
impianti in cui si svolgeva l’intero ciclo di produzione dell’alluminio, dalla
polvere di bauxite fino ai prodotti finali, oltre a una fabbrica di zinco,
piombo e acido solforico. Quando lavorava a pieno ritmo qui il panorama era
dominato dal nero del carbone scaricato nel porto e dal rosso della bauxite che
volava dal nastro trasportatore, dal via vai di camion, e da un impressionante
bacino rossastro: 125 ettari di scarti della lavorazione della bauxite,
depositati a partire dal 1978 e separati dal mare solo da una lingua di sabbia
finissima.
Oggi le ciminiere continuano a
dominare la costa. Anche il bacino dei fanghi rossi resta là, ma le tracce di
attività sono rare. I capannoni mostrano la ruggine.
Resta in funzione la centrale Enel a carbone: ma per giorni non produce neppure
un chilowattora perché non avrebbe a chi venderlo, tanto più che la stessa Enel
ha disseminato la zona di pale eoliche per il fabbisogno locale. È attiva anche
l’ex fabbrica di zinco e piombo, la Portovesme Srl, ma lavora solo rottame e
“fumi d’acciaieria”, cioè scarti della lavorazione dell’acciaio da cui trae una
(piccola) parte di metalli e una parte consistente di reflui. Il ciclo
dell’alluminio invece è fermo dal 2012; solo pochi addetti accudiscono gli
impianti nell’attesa di un rilancio.
Le istituzioni regionali e il
governo promettono da anni di rilanciare l’area di Portovesme: trovare un
acquirente per la ex Alcoa è stato il primo passo. Secondo il ministro dello
sviluppo economico Carlo Calenda, l’obiettivo è «rimettere il Sulcis in
condizione di fare il ciclo completo dell’alluminio». L’Italia oggi importa
alluminio, ha sottolineato il ministro; l’impianto acquisito da Sider Alloys
potrà produrre a regime 150 mila tonnellate l’anno, circa il 15 % del
fabbisogno nazionale. Anche la vecchia Eurallumina, oggi di proprietà del
gruppo russo Rusal, promette di investire 200 milioni di euro per riprendere le
attività, con un piano che prevede però di ampliare il famigerato bacino dei fanghi rossi e costruire un
proprio impianto a carbone per generare vapore.
È questo il paradosso di
Portovesme. Rilanciare il polo industriale porterebbe lavoro in una zona
depressa: il Sulcis conta 38mila disoccupati su 130 mila
abitanti. Ma porterà anche altro carbone e nuove discariche industriali in una zona ad “alto rischio di
crisi ambientale”.
Il piombo nel sangue
La crisi ambientale a
Portoscuso scoppiò quando uno studio dell’università di Cagliari rivelò che gli
scolari della prima media avevano quantità allarmanti di piombo nel sangue. Era
il 1988: «Ci parlarono di “danno biologico accertato”» ricorda Angelo Cremone,
allora operaio specializzato alla Alsar (poi divenuta Alcoa) e padre di uno di
quei bambini. La zona industriale a quel tempo occupava oltre diecimila
persone, era il primo datore di lavoro nel Sulcis. Ma scoprire che le fabbriche
stavano avvelenando i propri figli fu uno shock. «Capimmo che ci nascondevano i
fatti» spiega Cremone.
È nato allora un comitato di
cittadini. Furono anni di proteste, denunce, ordinanze comunali. Cittadini e
lavoratori erano egualmente coinvolti: un caso raro nell’Italia di allora, dove
si moltiplicavano i conflitti tra il nascente movimento ambientalista e le
organizzazioni dei lavoratori.
«Gli abitanti di Portoscuso
cominciarono a capire cosa volesse dire un’area industriale così vicina alle
case» ricorda il dottor Ignazio Atzori, allora ufficiale sanitario e assessore
all’ambiente. Oggi Atzori è vicesindaco di Portoscuso e ha di nuovo la delega
all’ambiente (nei primi anni Duemila è stato anche sindaco); lo incontro negli
studi dell’Azienda sanitaria locale. Spiega che in quei lontani anni ’80 erano
già comparsi segnali di allarme, nel vino e nei formaggi locali erano stati
trovati piombo e fluoro: «Allora però se ne parlava più che altro in termini di
risarcimenti».
Oggi sembra una follia mettere
discariche in riva al mare e depositi di carbone accanto alle case. «Ma allora
queste considerazioni non si facevano», osserva Atzori. «Le miniere
dell’Iglesiente avevano appena chiuso, la zona era segnata dalla crisi. Su
tutto prevaleva la necessità del lavoro, ai giovani non restava che emigrare.
Così, nei primi anni ’70 tutti accolsero con grande favore la decisione di
ubicare qui una nuova zona industriale».
Nel 1993 il governo dichiarò
Portoscuso zona “ad alto rischio di crisi ambientale”. Arrivò il primo piano di
disinquinamento, finanziato con 200 miliardi di lire. Più tardi (nel 2001) il
ministero dell’Ambiente incluse Portoscuso-Portovesme nel più ampio “Sito di
interesse nazionale” del Sulcis-Iglesiente-Guspinese, con più di 200mila
abitanti in 29 Comuni, una superficie di 620 kmq a terra e 900 kmq di mare, e
una gran quantità di vecchie miniere, fabbriche e discariche.
Da allora l’aria a Portoscuso è
migliorata: crollata la produzione industriale, sono venute meno anche le
emissioni. La bonifica però non è mai stata completata. Nei terreni e nelle
falde idriche un inquinamento profondo continua a contaminare la catena
alimentare, con grave danno per gli abitanti (vedi “Una crisi sanitaria poco studiata”). A Portoscuso non si può consumare il latte delle pecore e capre che
brucano nei dintorni, né mangiarne la carne, né raccogliere mitili e crostacei
o vendere frutta e verdura: la Asl locale raccomanda soprattutto di non farli
mangiare ai bambini. Nelle polveri sottili ci sono piombo e cadmio. Il terreno
è impregnato di metalli pesanti. La falda sotto Portovesme è un concentrato di
veleni, secondo l’ultima relazione dell’Agenzia regionale per l’ambiente
diffusa nel giugno 2017: i campioni prelevati nell’area industriale rivelano
arsenico, cadmio, fluoro piombo, mercurio, tallio, zinco e idrocarburi
policiclici aromatici, tutto in quantità centinaia migliaia di volte oltre i
limiti. Sostanze tossiche, neurotossiche, cancerogene.
«Il problema è che i soldi
stanziati negli anni ’90 sono quasi finiti, ma gli interventi di bonifica non
sono affatto conclusi» spiega Atzori. Parla delle strade rurali e urbane che
nei primi anni Settanta erano state pavimentate con scorie di piombo e zinco
della Samim (Eni): «Stiamo ripulendo perfino la strada davanti alla scuola
materna».
Quanto all’area industriale, la
Regione Sardegna afferma che sono in corso
interventi di messa in sicurezza e bonifica per oltre 230 milioni di euro tra
investimenti e e costi operativi, a carico delle aziende in base al principio chi inquina paga. Alla fine del 2017, dopo
anni di gestazione, è stato approvato un progetto di “barriera idraulica” per
mettere in sicurezza la falda idrica sotto a Portovesme: si tratta di pompare
l’acqua prima che raggiunga il mare, trasferirla a impianti per depurarla, poi
riutilizzarla nei processi produttivi o rimetterla nelle falde. È un’opera
“consortile”, cioè coinvolge le diverse aziende che vi hanno impegnato 54
milioni di euro. Ma poi bisognerà fermare le fonti della contaminazione.
«Abbiamo assistito a
un’incredibile serie di silenzi e omissioni» dice Angelo Cremone, che oggi rappresenta l’associazione Sardegna Pulita. Licenziato
dall’Alcoa, ha continuato a dare battaglia contro l’inquinamento come
consigliere comunale e ora come attivista. È tra le parti civili nel procedimento in cui la direzione aziendale
dell’Eurallumina è imputata per “disastro ambientale”: ma il processo
cominciato nel 2015 si trascina; il 16 febbraio l’avvio delle udienze è di
nuovo slittato. «L’inquinamento è noto da molto tempo» insiste Cremone «e anche
l’impatto sulla nostra salute: ma chi doveva intervenire non lo ha fatto».
Portovesme è presidiata
Nell’area industriale semi
deserta, i cancelli della ormai ex Alcoa si riconoscono dalle bandiere
sindacali e da uno striscione azzurrino: «Continua la lotta per il lavoro e il
territorio», firmato dai «lavoratori Alcoa e appalti» del Sulcis Iglesiente.
Lo stabilimento è presidiato da
quasi quattro anni. Alla fine del 2012 infatti Alcoa ha sospeso l’attività e
messo tutti in cassa integrazione; finita questa, dal 2014 è tutto fermo:
d’improvviso ottocento persone (di cui circa metà dipendenti di ditte in
appalto) sono rimaste senza lavoro né cassa integrazione, affidate agli
“ammortizzatori sociali”. Però non si sono rassegnate, e dal maggio del 2014
presidiano la fabbrica. «All’inizio ci siamo organizzati in squadre e abbiamo
presidiato i cancelli 24 ore su 24, tutti i giorni» spiega Gianmarco Zucca,
delegato di fabbrica della Fiom, la Federazione dei lavoratori metalmeccanici
della Cgil. Poi è passato un anno, due, tre, «chi ha trovato dei lavoretti, chi
ha perso la speranza. Ora siamo qui due giorni alla settimana».
È un venerdì di dicembre,
giorno di presidio. «Quando sono entrato in fabbrica, nel 1989, era un vero
inferno. Da allora però le cose sono cambiate. L’abbiamo visto sulla nostra
pelle» continua Zucca. Anni fa «la fabbrica scaricava in modo selvaggio: ma poi
hanno messo filtri, chiuso alcuni impianti. Oggi ci sono regole e controlli».
Saliamo in macchina per perlustrare la zona. Ecco il capannone con le celle
elettrolitiche per l’alluminio: uno dei lavori più pericolosi era preparare le
vasche con la polvere di allumina in un bagno di fluoruro e sodio, e poi gli
anodi in grafite. Gli addetti erano esposti a polveri e sbalzi di temperatura.
File di carrelli poi portavano l’alluminio fuso in fonderia, per farne pani,
bille o placche in leghe diverse secondo le ordinazioni: «Era alluminio di
grande qualità, anche per le Ferrari». Vicino c’era la Metallotecnica, la
«fabbrica-scuola» da cui uscivano ottimi carpentieri, tubisti, lavoratori
specializzati.
Il presidio dell’Alcoa è retto
da un centinaio di persone, più altre che passano in modo occasionale: «È anche
un modo per tenersi in contatto» osserva Milena Masia, anche lei dipendente
Alcoa. L’età media dei lavoratori qui è 38/40 anni, spiega, «tutti hanno figli
a scuola o all’università, e mutui da pagare». Pochi hanno trovato un altro
lavoro.
Si capisce che qui aspettassero
con ansia la vendita dello stabilimento. Nel 1996, quando Alcoa acquistò lo
stabilimento di Portovesme, il corso dell’alluminio sul mercato mondiale era
alto e il governo italiano garantiva energia a prezzo agevolato (l’energia è
quasi il 40% del costo di produzione dell’alluminio primario, cioè ottenuto
dalla materia prima). Così Alcoa trovò conveniente produrre anche quando nel
2009, chiusa la Eurallumina, dovette importare la polvere d’allumina da fuori.
Poi però l’Unione europea ha stabilito che quell’energia a prezzo di favore era
un aiuto pubblico illegittimo, e nel 2011 la Corte di giustizia europea ha
ordinato all’azienda di restituire allo stato italiano circa 300 milioni di
euro di sovvenzioni. Il governo ha esteso allora le agevolazioni a tutte le
imprese “energivore” delle isole, (è stato chiamato “decreto salva-Alcoa”). Ma
ormai Alcoa aveva deciso di lasciare l’Italia – anche se nel solo 2012 ha fatto
600 milioni di euro di utile netto, fanno notare qui. «Hanno chiuso una
fabbrica in perfetta efficienza, che sulle emissioni rispettava parametri più
severi di quelli dell’Unione europea, aveva mercato e faceva profitti» si
indigna Francesco Bardi, della segreteria della Camera del lavoro di Carbonia,
che incontro davanti allo stabilimento presidiato. Quando infine nel 2016 Alcoa
ha annunciato l’intenzione di smantellare gli impianti si è fatta avanti
Invitalia, con il compito di cercare nuovi acquirenti per la fabbrica di
Portovesme.
Oggi il presidio dei lavoratori
continua. «Speravamo di conoscere i piani della nuova azienda, ma non abbiamo
avuto comunicazioni ufficiali» spiega al telefono Roberto Forresu. Già: il
piano industriale presentato dal gruppo ticinese al governo italiano non è
stato diffuso, e neppure i termini dell’accordo tra Sider Alloys e Invitalia. È
noto però che dei 135 milioni di investimento annunciato, ben 84 saranno
anticipati da Invitalia a tasso agevolato, 20 saranno messi da Alcoa come
contributo alla bonifica e 8 a fondo perduto dalla regione Sardegna.
L’investimento di Sider Alloys si riduce a una ventina di milioni di euro.
Una dismissione rinviata?
Nei primi anni 2000 l’area
industriale di Portovesme dava ancora lavoro a cinquemila persone tra
dipendenti diretti, imprese in appalto e indotto. Oggi restano 1.300 addetti
alla Portovesme Srl e 380 alla centrale Enel. Le imprese di servizio fanno
altri trecento dipendenti; poche decine lavorano al porto industriale. Poi ci
sono 120 persone che timbrano il cartellino alla Eurallumina, ora Rusal: anche
loro sperano nel rilancio.
Il “piano di ammodernamento”
dell’azienda russa però ha suscitato numerose obiezioni (pubblicate sul sito della regione Sardegna). Una riguarda il carbone:
perché mai un nuovo impianto? Infatti quello Enel è sottoutilizzato (e l’Italia
si è impegnata a “uscire” dal carbone entro il 2025). Intanto anche la
Portovesme Srl promette nuovi investimenti, ma chiede per i suoi reflui una
nuova discarica: l’attuale è esaurita e l’azienda di proprietà Glencore
minaccia di chiudere se non sarà autorizzata a raddoppiarla. Il solito, vecchio
“ricatto del lavoro”.
«La situazione del lavoro è
drammatica» riconosce il vicesindaco Atzori, e però sarebbe meglio ragionare
sulla dismissione: «Stiamo parlando di produzioni non competitive, le materie
prime e l’energia vengono da fuori. Erano poco sostenibili già in passato, se
non per le sovvenzioni pubbliche. Regge solo la Portovesme Srl perché è
diventata una piattaforma di smaltimento di rottame».
«Quella di Portovesme non è
un’industria che possa reggere» è il tassativo commento di Stefano Deliperi,
presidente di un gruppo di giuristi e ambientalisti, il Gruppo di intervento giuridico, che ho raggiunto al telefono. «Quelle aziende vivono di cassa
integrazione e ammortizzatori sociali. Non ha senso continuare a buttare via
soldi pubblici per iniziative industriali fuori mercato» continua: «Sotto il
profilo ambientale e della salute pubblica è un disastro, e se non si cambia
rotta non potrà che peggiorare». Difendere il lavoro non significa quel lavoro: «Perché non trasformare Portovesme in un polo di
produzione di alluminio riciclato, secondo il principio del riutilizzo?».
Sarebbe un considerevole risparmio di energia, osserva Deliperi; si
salverebbero posti di lavoro e sarebbe un’alternativa sostenibile. Ma finora è prevalsa «una logica clientelare: si tiene in piedi una
parvenza di lavoro, corsi formazione, riqualificazione, cassa integrazione».
Deliperi dice che la classe politica «usa il Sulcis come un serbatoio di voti».
Per il vicesindaco Atzori, il
sospetto peggiore è che il rilancio nasconda l’ennesima beffa: «Si rinvia la
dismissione degli impianti per evitare di spendere le centinaia di milioni di
euro necessarie a smontare le fabbriche e bonificare questo sito industriale».
BOX. Una crisi sanitaria poco studiata
La situazione sanitaria intorno
all’insediamento industriale di Portovesme è allarmante, anche se ancora troppo
poco indagata. L’indagine più completa finora realizzata è lo studio
epidemiologico sulle aree industriali, minerarie e militari della Sardegna
coordinato nei primi anni ‘2000 dal professor Annibale Biggeri. Commissionato dalla Regione Sardegna grazie a fondi europei, lo studio
è stato pubblicato nel gennaio 2006 dalla rivista
dell’Associazione italiana di epidemiologia (Epidemiologia
& Prevenzione).
Il primo rapporto Sentieri
(l’indagine epidemiologica nelle zone esposte a inquinamento industriale in
Italia, pubblicato dall’Istituto superiore di sanità nel 2011) segnala nella popolazione sia maschile che femminile
un eccesso di mortalità per le malattie dell’apparato respiratorio, oltre che
per il tumore alla pleura e per le malattie perinatali. Conferma inoltre che
nel 1998 la piombemia nei ragazzi di Portoscuso era superiore al livello
d’attenzione in vigore negli Usa (cioè 10 microgrammi per decilitro di sangue). Nei lavoratori dell’Alcoa, in
particolare gli addetti alla preparazione degli anodi per l’elettrolisi
dell’alluminio, era in eccesso la mortalità per tumori al pancreas. Lo studio
Sentieri considera anche le vicine zone minerarie, cioè tutto il “Sito di interesse
nazionale” del Sulcis-Iglesiente-Guspinese, e conclude che «la componente
occupazionale svolge un ruolo rilevante nelle malattie dell’apparato
respiratorio (tumorali e non) e nel tumore del polmone».
Da allora non si segnalano
nuovi studi, se non parziali. Non c’è un sistema di monitoraggio continuo né
uno screening periodico della popolazione esposta; in questa zona della Sardegna non è ancora operativo neppure il
Registro dei tumori. Paradossale: c’è una
situazione di rischio ambientale conclamato, ma non c’è il monitoraggio
sanitario che ci si dovrebbe aspettare.
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