I difficili e faticosi tentativi di creazione di forme di impresa e di
economie diverse da quelle dominanti possono incorrere in due opposte
possibilità di fallimento: non
riuscire a raggiungere una redditività minima vitale, oppure essere catturati
dai meccanismi e dalle logiche usuali del mercato. Camminare lungo questo crinale senza scivolare
in uno o nell’altro precipizio è la vera arte dell’operatore dell’impresa
eco-solidale. Non un mero gioco di equilibrio, di compromessi e di
compensazioni, ma un talento particolare, frutto di
motivazioni soggettive profonde e di intenzioni che travalicano la stessa
intrapresa. Un
desiderio di lavoro liberato e utile per sé stessi e per gli altri.
Alcune notizie di
questi giorni confermano la vita incerta dell’economia ecosolidale. Il colosso francese
della grande distribuzione Carrefour ha aperto nei suoi supermercati un
banco di varietà agricole autocertificate, prodotte da associazioni di
piccoli contadini biologici, chiamato “Marché interdit” (vedi l’articolo di Teodoro Margarita, Caso Carrefour, semi “velenosi” per il mondo bio,sul supplemento
“il Gambero Verde” del quotidiano «il manifesto»). Come se da noi
Esselunga facesse un accordo per commercializzare i prodotti dei contadini di
Genuino clandestino!
Sempre in questi giorni,
proprio il quotidiano il manifesto, autogestito dai giornalisti in forma cooperativa e appena uscito da
una crisi finanziaria gravissima, è
stato subissato da proteste dei suoi lettori per aver pubblicato una pagina a
pagamento di pubblicità delle associazioni venatorie a favore della caccia. La direzione del giornale ha rivendicato la scelta affermando che
quel che conta è non essere influenzati dagli inserzionisti. Produttori di
armi, in questo caso. Ci mancherebbe!
Altro caso che fa
discutere. Il marchio Fair Trade è da tempo sugli scaffali dei supermercati di
tutto il mondo, ma ora il consorzio
CTM-AltroMercato ha fatto un nuovo passo stipulando un contratto diretto con
Amazon per la distribuzione domiciliare dei suoi prodotti. Nel comunicato con cui il Consiglio di
Amministrazione di CTM informa della decisione i suoi soci e la rete dei
negozi affiliatiammette che
Amazon “non è un canale ‘neutro’ nella percezione di molti di noi”,ma aggiunge che la politica commerciale impone “una
strategia tesa a raggiungere il numero maggiore possibile di
consumatori con i propri prodotti”. In tal modo CTM raggiunge gli obiettivi di “un miglioramento
sia della marginalità derivante da questo cliente [Amazon] (particolarmente
preziosa in questa fase), sia della possibilità di utilizzare le pagine
prodotto [pubblicate sulla piattaforma markerplace] per spiegare in maniera completa ed esauriente i valori dei nostri prodotti”. Da qui il via libera all’uso dei canali di distribuzione
non propriamente allineati ai principi etici del commercio equo e solidale.
Potremmo continuare a lungo
citando vari casi di ruzzoloni sul pendio scosceso del mercato. Basti pensare a taluni “sistemi di scambio non monetari” (le
cosiddette monete alternative), nati come strumenti di difesa delle economie
locali dal giogo finanziario ed oggi partecipati da banche commerciali. Basti
pensare al biologico. Trent’anni fa i primi contadini pionieri del settore
erano considerati trogloditi anarcoidi che rifiutavano le meraviglie
della chimica in agricoltura. Oggi il biologico è
prodotto industrialmente e venduto dalla grande distribuzione. Attenzione, quindi, si può morire anche
di troppo successo! Tra
l’insignificanza e la cooptazione c’è un grande spazio d’azione.
Ciò che dovrebbe
caratterizzare l’economia ecosolidale, infatti, non riguarda solo la
qualità dei valori d’uso dei beni e dei servizi prodotti e offerti ai fruitori
finali, ma l’intero ciclo produttivo e distributivo. In particolare la differenza con il sistema
economico dominato dalle regole della proprietà e del mercato (competizione,
profittabilità, massima redditività dell’investimento) consiste nella natura
dei rapporti sociali che si instaurano tra i diversi attori lungo tutta la
filiera. Si sa, banalmente, che un pomodoro può essere buonissimo e
sanissimo, ma prodotto da lavoro schiavo o provenire da terre così lontane da
provocare impatti ambientali insostenibili. Al contrario, paradossalmente, una cooperativa di lavoratori potrebbe
fabbricare un carro armato Leopard completamente “biologico”, con lamiere di
acciaio riciclato e vernici ad acqua, ma rimarrebbe pur sempre un carro armato.
Il ragionamento non è poi così
strampalato se estendiamo lo sguardo alle politiche per l’ambiente e del
welfare, come fa papa Bergoglio in un suo splendido discorso pronunciato nella
udienza con i rappresentanti del Movimento dell’Economia di comunione: Non si
dirà mai abbastanza: il
capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare (…). Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una
piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte
del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i
giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi
finanzieranno gli ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il
sistema raggiungerà il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”. Pertanto:
“L’Economia di comunione non deve soltanto curare le vittime (…) ma puntare a
cambiare le regole del gioco del sistema economico- sociale” (Vaticano,
4/2/2017). La filantropia ha lo stomaco peloso!
L’economia
ecosolidale in genere (sia quella
produttiva di beni materiali che quella che fornisce servizi di cura,
formazione, svago … ) non va
intesa come un settore economico tra gli altri, sussidiario, complementare, che
copre uno spicchio lasciato libero (spesso solo momentaneamente) dal mercato, ma come
qualche cosa di qualitativamente e strutturalmente diverso, potenzialmente
alternativo. Questa è la grande ambizione dell’economia solidale: essere un
modello alternativo al sistema economico convenzionale. RIPESS, che è la rete
intercontinentale dell’Economia solidale, scrive: “L’economia solidale promuove
un diverso paradigma di sviluppo, persegue la trasformazione del sistema
economico capitalista neoliberista in un altro che pone al centro le persone e il
pianeta”. (RIPESS, Global Vision for a Social and Solidarity Economy:
Convergences and Differences. In “Concepts, Definitions and Frameworks”, 2015).
Dalle ricerche sociologiche
sulle esperienze di imprese ecosolidali emerge che, fondamentalmente, la molla che fa scattare,
in molti giovani e in non pochi adulti maturi, la voglia di intraprendere
pratiche di resistenza e di sopravvivenza con un maggior margine di autonomia è
il bisogno di svolgere un’attività iscritta in una cornice di senso. Attività
attraverso cui le persone cercano di liberarsi dalla oppressione, dalla
subalternità, dalla dipendenza economica del mercato. George Caffentzig e Silvia Federici hanno scritto: «Le iniziative di commoning sono
qualche cosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle
nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di
produzione in divenire»(Creare beni comuni e mondi nuovi).
Per quanto fragili,
minute e spesso isolate le esperienze di economia solidale sono importanti
perché dimostrano che è possibile creare
attività e circuiti economici su presupposti etici diversi: esperienze che cambiano in profondità le persone, che creano
consapevolezza, responsabilità, impegno. La dimensione psico-spirituale è, quindi,
consustanziale dell’attività ecosolidale, decisiva per aumentare le capacità di
autodeterminazione e di autostima degli individui. Solo in questo contesto il
lavoro può liberarsi e assumere un significato di creatività e dono. Così come l’atto del “consumo” diventa una valutazione introspettiva
dei propri bisogni e desideri e partecipazione attiva alla loro soddisfazione. Insomma, tutto un altro modo di rapportarsi a sé, agli
altri, alla biosfera, al cosmo (vedi Ina Praetorius, L’economia è cura).
In concreto: chi sono i protagonisti delle
economie trasformative, i nostri beniamini che hanno il coraggio di sfidare le
regole del mercato? Contadini
biologici, permacultori, agricoltori sociali, gasisti e cittadini che si
organizzano a sostegno dell’agricoltura contadina transizionisti (gruppi che si
riferiscono alle esperienze inglesi delle Transition Town), recuperatori,
riciclatori e riparatori (ciclofficine, sartorie ecc.), installatori di
generatori di energia rinnovabile (pannelli solari, pale minieoliche ecc.),
bioarchitetti, biourbanisti, paseologi, informatici dei software open source,
produttori “p2p” (peer-to-peer, rete paritaria), scambisti di tempo e
competenze (Banche del tempo), inventori di circuiti e di strumenti di scambio
non monetari, editori e librai indipendenti, educatori libertari, animatori di
palestre popolari, di scuole di danza, di yoga, operatori delle medicine
alternative, operatori del turismo di visitazione (cicloturismo, cammini,
alberghi diffusi ecc.), cuoche e cuochi delle cucine di strada, teatranti e
artisti di strada, pubblicitari e professionisti pentiti, decrescenti,
obiettori della crescita e del consumismo. Altro ancora, alla rinfusa. Nel loro fare danno vita a imprese autogestite (fattorie,
fabbriche recuperate, laboratori artigiani, cooperative, coworking), servizi
tecnologici (piattaforme digitali, consorzi tra professionisti), strumenti
finanziari (microcredito, crowdfounding, assicurazioni mutualistiche), sistemi
di approvvigionamento (piccola distribuzione organizzata, logistica), sistemi
di mutuo aiuto (welfare di prossimità, ambulatori, cucine e palestre popolari),
gestioni partecipate di beni comuni (immobili in autogestione), abitazioni
condivise (proprietà collettive, cohousing, ecovillaggi, social street),
cooperative e fondazioni di comunità, ecomusei, forme di cooperazione
internazionale decentrata (accoglienza diffusa, commercio solidale legato alla
cooperazione internazionale). Molto altro ancora. Ciò che più conta non è la
forma giuridica di impresa che viene scelta (impresa sociale non profit,
cooperativa, cooperativa di comunità, società semplice o di capitale,
associazione di promozione sociale o culturale, ecc.), ma le motivazioni
intrinseche che legano i promotori. Certo si tratta
di germogli che spuntano qua e là tra le macerie lasciate sul terreno dal
susseguirsi delle crisi del capitalismo. Attività spesso microscopiche, a
cavallo tra la resistenza e la sopravvivenza, non tutte pienamente consapevoli
della loro straordinaria importanza.
Raul Zibechi dal suo
osservatorio latinoamericano le definisce “comunità pionieristiche” che creano
“piccole arche di autonomia”, ma capaci di indicare alternative replicabili (R. Zibechi, L’arca di Noè, oggi si chiama autonomia, ).
Euclides André Mance, filosofo brasiliano, tra i maggiori pensatori delle
alternative all’economia di mercato, definisce l’economia
solidale come “economia di liberazione”, che “cerca di riorganizzare i flussi economici di materie prime, prodotti, valori economici,
rappresentazioni di valore affinché, con essi, si espandano le libertà
pubbliche e private di tutte e di tutti, in forma economicamente sostenibile;
allo stesso modo, cerca di contribuire a riorganizzare in queste comunità, flussi di potere in modo collaborativo, democratico, autogestito (…). E, ancora,
di contribuire a riorganizzare iflussi di conoscenza, di tecnologia, di sviluppo di capacità attorno alla
trasformazione della realtà, per costruire un nuovo sistema economico che
assicuri a tutte e a tutti i mezzi economici richiesti per il loro bem viver» (E.
Mance, Circuiti economici solidali, tradotto da Solidarius Italia e pubblicato quest’anno da
Pioda imaginp). Le economie solidali, a ben guardare, sono economia
della buona amministrazione dei cicli vitali, dei “beni comuni” sottratti alle
leggi del mercato.
Ma sappiamo
bene che il percorso per realizzare questi spazi di autonomia procede in un
ambiente socio economico ostile. I condizionamenti esterni spesso sono pesanti e le
discriminanti valoriali non sono facili da stabilire. Troppo spesso i tentativi
di misurazione attraverso unità fisiche dei beni naturali, dei servizi
ecosistemici o dei patrimoni cognitivi immateriali o, più in generale ancora,
delle buone relazioni umane, sono funzionali alla loro cattura dentro le logiche di mercato e si traducono nel
“prezzare” risorse non rinnovabili, commerciare permessi di inquinamento,
privatizzare saperi e conoscenze, finanziarizzare beni comuni. Leggo, ad esempio, sul Dossier Investimenti di “Affari e Finanza” (La Repubblica del 5 febbraio 2018): “Gli investitori hanno
manifestato una crescente predilezione per soluzioni di investimento
trasparenti, con performaces exra-finanziarie chiaramente misurabili e con un
alto grado di sofisticazione nella fase di reporting”. Ciò perché il loro
“rendimento si è rivelato addirittura in alcuni casi superiore agli
investimenti tradizionali”. Ecco spiegato il
boom dei green e social bond, delle “obbligazioni emesse con il fine di realizzare progetti di
sviluppo sociale”, vendute
anche in Italia da “palyer primari” come Enel, Hera, Intesa San Paolo, Ferrovie
dello stato, Cassa e Depositi. Ecco da cosa
deriva il boom delle validazioni etiche, delle
certificazioni, dei bollini di
qualità, dei manuali sulle procedure di responsabilità sociale e ambientale
delle imprese. Le crescenti sensibilità sociali e ambientali
in vasti settori di consumatori richiedono alle imprese una specifica
qualificazione non solo funzionale-utilitaristica degli oggetti e dei servizi
immessi sul mercato ma anche attributi di senso, simbolici, valoriali… Così accade che anche l’etica,
considerata come “capitale reputazionale” (brand reputation), viene sussunta nei
cicli economici come “valore aggiunto”.
Di fronte ai rischi
di cattura e integrazione nelle logiche del mercato anche delle imprese
ecosolidali, domandiamoci allora con quali metodi quali-quantitativi sarebbe
possibile stabilire se un’economia è davvero meno estrattivista di altre, se un
modo di produzione è più collaborativo, se un sistema di scambio è realmente
reciproco e paritario, se alla fine del ciclo economico si realizza una
valorizzazione sostanzialmente equa delle dotazioni sociali e ambientali “messe
al lavoro”. La griglia di valutazione messa a punto dalla federazione delle
imprese che aderiscono all’Economia del Bene Comune è sicuramente un buon
tentativo. Altri protocolli e carte dei principi sono state elaborate da
distretti e consorzi dell’Economia solidale. Ma, probabilmente, ciò che più conta
nell’analizzare le esperienze delle economie davvero trasformative sono i
processi “immateriali” di soggettivazione che riescono ad attivare. Pratiche di commoning (per usare il neologismo di Peter Linebaugh) o il comunizar (per usare l’espressione di John Holloway) capaci,
cioè, di mobilitare azioni
collettive, che fanno acquisire alle persone consapevolezza e coscienza, che
creano comunalità, comunanze, collettività, commons… ovvero ambiti
spaziali-sociali autoregolati, autonormati, all’interno dei quali nascono nuove
relazioni intersoggettive, umane, tanto sentimentali quanto istituzionali.Quindi, oltre
agli impatti ecosistemici e alla equa redistribuzione delle ricchezze prodotte
contano anche le componenti psico-spirituali, etiche ed estetiche.
Ciò detto, non è però pensabile
pretendere che ogni attività che ambisce a svilupparsi nell’alveo
dell’ecosolidale sia tutta e sempre esente da contraddizioni e priva di
contaminazioni dal mondo circostante. Molto
spesso si tratta di pratiche
promiscue, ibride e ambigue; per una parte inevitabilmente interne ai processi di
valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di diverse modalità
di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del
patrimonio naturale comune. Vanno quindi valutate le diverse forme di interrelazione
tra le economie solidali e dei commons e l’economia di mercato dominante. Va preso atto con realismo
che si tratta di una condizione strutturale destinata a permanere fino a quando
l’economia eco-solidale non riuscirà a conquistare più consistenti ambiti
vitali e forse anche dispositivi istituzionali favorevoli, “protezioni”
legislative. Un’economia organica fondata sui beni comuni ha bisogno di
regolamentazioni e di controlli indipendenti che tengano conto delle
esternalizzazioni, del consumo delle risorse non rinnovabili, della
distribuzione del carico fiscale e di mille altre cose regolate dallo stato. In
alcuni paesi europei si è cominciato a legiferare sull’Economia Solidale e
Sociale con intenti ed esiti diversi. Anche in alcune regioni italiane,
di particolare interesse la legge del Friuli Venezia Giulia del 2017.
In un fondamentale lavoro teorico desunto dall’analisi di alcuni casi
studio, Michel
Bauwens e Vasilis Niaros (Value in the Commons Economy: Developments in Open and
Contributory Value Accounting, pubblicata dalla Heinrich Böll Stiftung, 2015) formulano
un’ipotesi sorprendente e provocatoria. Piuttosto
che discutere sul rischio che il capitalismo catturi i valori creati
dalle nuove modalità di produzione della commons economy chiediamoci,
al contrario, cosa può accadere se i beni comuni riuscissero ad essere la base
di “una nuova economia che nasce all’interno del vecchio sistema”. Si potrebbe allora “pensare a una
‘cooptazione inversa’ (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Può
l’emergente economia basata sui commons, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale del
sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?”. Si possono, cioè, ipotizzare
“all’interno dei confini dell’economia già esistente, flussi di valore più ampi
sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e
le sue distinte specie di creazione di valore?”. I casi di studio analizzati dagli autori
dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tracommons e mercato:
nessun rapporto; un doppio sistema di contabilità aperto e compresente; un uso
del mercato per valorizzare i commons.
Molte esperienze di casa nostra
possono essere lette all’interno di questo stesso schema. Prendiamo il caso già
molto analizzato del nuovo
pastificio Astra Bio a Casteldidone creato dalla storica cooperativa di contadini biologici
Iris che raggruppa 14 aziende agricole. Un progetto da 7 milioni di euro in gran parte raccolti in
un paio d’anni grazie alla emissione di azioni mutualistiche da mille euro
cadauna già sottoscritte da 450 soci. Le azioni hanno
un rendimento fisso dell’1 o del 2 per cento annuo e danno diritto ad una
certa quantità di prodotti del pastificio. Presto, attraverso la creazione di una Fondazione
patrimoniale, gli edifici del nuovo pastificio (che comprendono un ristorante,
un museo e una scuola per l’infanzia) diventerannopatrimonio comune non divisibile e non alienabile. In questo caso la raccolta di flussi finanziari
realizzata all’esterno (ma in grande parte mobilitati da fornitori e
consumatori abituali) serve a patrimonializzare il common, il pastificio
bene comune.
Come si vede le strade per trasformare
i modi di produzione, le relazioni economiche, i comportamenti e gli stili di
vita individuali sono davvero infinite. É
possibile immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di
autonomia, attività attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore
d’uso, comunità intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche… che possono preparare
e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi
e cunei, resistenze e diserzioni… comunque utili a formare un bagaglio di
esperienze per non farci trovare impreparati al momento buono. Il collasso del
loro sistema possa diventare la nostra festosa liberazione!
Nessun commento:
Posta un commento