Non è solo Trump a non voler attuare una politica che rallenti il riscaldamento climatico. Il 2018 sarà un anno di svolta per il consumo di petrolio mentre l’Europa punta a diventare un rigassificatore globale e l’Eni inizierà a perforare l’Artico.
Molti di noi mostravano scetticismo sulle
conclusioni della Cop21, di Parigi, il summit internazionale contro
i cambiamenti climatici provocati dalle massicce emissioni in atmosfera
di anidride carbonica. Non solo l’arrivo di Trump,
ma il malcelato appoggio allo scapigliato presidente sparso in giro per il
mondo da tutte le multinazionali e dagli interessi che assecondano il modello
di sviluppo alimentato dai fossili e dal nucleare, ha già fatto dimenticare il
fiato sul collo messo ai governanti dalle convenzioni internazionali sul clima.
Tra una Cop e l’altra vengono vanificati o posposti tutti gli impegni più
cogenti scritti sulla carta e così un testo senza sanzioni certe mostra tutta
la sua debolezza e inefficacia. Così, provo subito ad elencare i punti più
qualificanti dell’accordo di Parigi compromessi o beffati senza che si crei un
minimo di inquietudine nell’opinione pubblica mondiale.
L’articolo 2 dell’accordo fissa l’obiettivo di
restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli
pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per limitare l’aumento
di temperatura a 1,5 gradi”. L’articolo 3 prevede che i Paesi “puntino a
raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più
presto possibile”, e proseguano “rapide riduzioni dopo quel momento” per
arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e
le rimozioni di gas serra già nella seconda metà di questo secolo”. In base
all’articolo 4, tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere”
degli impegni definiti a livello nazionale, con
revisioni regolari che “rappresentino un progresso” rispetto agli impegni
precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile” di decarbonizzazione.
I paragrafi 23 e 24 della decisione intergovernativa sollecitano i Paesi che
hanno presentato impegni al 2025 “a comunicare entro il 2020 un nuovo impegno,
e a farlo poi regolarmente ogni 5 anni”, e chiedono a quelli che già hanno un
impegno al 2030 di “comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020”. La prima verifica dell’applicazione degli
impegni è fissata al 2023.
DI fatto, come documentato sotto, si cerca di
aumentare la produzione e di tagliare i costi di un’attività
L’articolo 9 chiede ai Paesi sviluppati di
“fornire risorse finanziarie per assistere” quelli in via di sviluppo. Più
in dettaglio, il paragrafo 115 della decisione “sollecita fortemente” questi
Paesi a stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire
insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020”. Ma, in realtà, viene
aumentata la produzione e tagliati i costi con sovvenzioni pubbliche per quello
che era il fulcro della vecchia economia: la produzione di petrolio e
di gas; e neanche un dollaro è stato infilato in una bussola per la
carità posta ad un incrocio qualunque!
SI CERCA DI SPOSTARE IN AVANTI IL PICCO DEL
PETROLIO
Nel suo recente ed esauriente report sul
futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018,
analysis and forecasts to 2023, www.iea.org ) induce a riflessioni tutt’altro che scontate
sull’avvenuto raggiungimento del picco delle fonti fossili. Ormai si perfora e
si spara acqua compressa nei luoghi più inimmaginabili e pericolosi. Anzi,
caparbiamente, le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti
esplorano ogni possibilità di rilancio anche dei combustibili più sporchi.
Accelerando perfino, come proverò qui sotto, i più assurdi tentativi di
estrazione sotto il profilo climatico-ambientale e azzardando le operazioni più
rischiose dal punto di vista finanziario e delle probabili bolle in borsa.
Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo
sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una esasperata
combustione dei fossili recuperati ovunque, dopo averla dichiarata incompatibile
con il riscaldamento del pianeta ad ogni superfluo appuntamento Cop (ormai, con
quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23, https://www.lifegate.it/persone/news/cop-23-fiji-bonn-finale ).
Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih
Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare con sorpresa una
espansione notevole di immissione “sporca”, dovuta soprattutto
all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli
Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) e il
contemporaneo irrobustimento dell’esportazione di shale gas comporta un
cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.
Previsioni di produzione di LTO in USA a
seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/ )
La spina nel fianco della tecnologia di
fracking consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve in
figura indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi
diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve
notare che la modalità di fracking delle rocce, estremamente dannosa sul piano
ambientale, andrà comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte
le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023. Di conseguenza,
quindi, l’inevitabile picco previsto cinque anni fa ancora non è raggiunto,
consentendo agli USA di solidificarsi come il principale produttore di petrolio
al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori
di oro nero.
Il Fondo Monetario Internazionale vede una
crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie
forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un
tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili / giorno. Dove sta allora la decarbonizzazione,
parola d’ordine della Cop di Parigi e della SEN di Calenda? Eppure, ci sono
segnali di possibile e vantaggiosa sostituzione del petrolio con altre fonti
energetiche in vari paesi. Ma non è assolutamente pari agli obiettivi
di sostituzione necessari, se si escludono sforzi locali in Asia e
parziali in Germania. Un esempio di riferimento sta diventando la Cina,
che, partendo da una situazione disastrosa in particolare nelle città, ha
introdotto alcune delle più severe normative mondiali in materia di efficienza
dei consumi e di emissioni. La produzione e le vendite di veicoli elettrici
stanno aumentando e c’è una forte aumento nello spiegamento di veicoli a gas
naturale, in particolare nelle flotte di camion e autobus. Un numero crescente
di autobus elettrici e autocarri alimentati a GNL in Cina rallenterà in modo
significativo la crescita della domanda di gasolio. Le flotte di oltre 16.000
bus elettrici di Shenzhen sono un punto di riferimento mondiale.
Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono
un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al
riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni
canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera
il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per
soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il
mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è
l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove
risorse petrolifere tradizionali sono scese ad un altro minimo storico nel
2017. Messico e Venezuela sono campi ambiti di intervento, ma anche fonte di
enormi tensioni (Il muro di Trump, l’attacco asfissiante al governo di
Caracas), mentre l’instabilità in Iraq, Libia e Nigeria e l’isolamento del
Qatar comporta che ormai i Paesi non OPEC diventino i protagonisti sulla
scena, con in testa gli Stati Uniti, almeno nei prossimi
quattro-cinque anni. Spinta dall’LTO, che non ha ancora raggiunto il suo picco
(v. figura), nel 2023 la produzione degli Stati Uniti sarà cresciuta di 3,7
milioni di barili al giorno, cioè, più della metà della crescita totale della
capacità produttiva globale, di 6.4 mb / d prevista per allora. Gli Stati Uniti
sono pertanto in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei
mercati globali. Per di più, sotto la presidenza Trump viene favorita
nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo
include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL,
osteggiati da Obama e il gasdotto EPIC 550 kb / d di TexStar Logistics, che
sarà operativo nel 2019 in Texas. Dieci impianti di esportazione di petrolio
greggio sono in corso di aggiornamento o di costruzione, facendo di Corpus
Christi il principale hub di esportazione nella costa del Golfo. Anche
l’attale eccesso di capacità di raffinazione globale è destinato ad esaurirsi a
causa del rallentamento della crescita della domanda di prodotti raffinati, in particolare
dall’Asia, che richiede sempre più greggio per la propria industria
petrolchimica.
La domanda petrolifera europea,
nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine.
La maggior parte della crescita verrà dal GPL e dall’etano. Buoni guadagni si
vedranno anche nel consumo di kerosene, dato che i viaggi aerei diventano più
accessibili nei paesi non OCSE. La crescita della domanda di benzina rallenta
nel periodo da qui al 2023 con standard più rigidi in materia di risparmio di
carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7%
all’anno.
ESTRARRE E IMPIEGARE E PAGARE AD OGNI COSTO
SHALE GAS
Segnalo alcuni temi destinati a essere
considerati decisivi nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del
GNL (gas naturale liquefatto) se si prendono in considerazione
prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i
danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono
elaborate da informazioni della Banca Mondiale http://www.worldbank.org/ ).
L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas
naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato
dalla capacità di liquefazione. Negli ultimi due anni, la crescita dell’approvvigionamento
di GNL ha rappresentato meno di due terzi della capacità di crescita di offerta
grezza. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e
interruzioni di fornitura non pianificabili, spesso dipendenti da conflitti
locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Le
imprese e la gran parte dei Governi stanno attuando ogni sforzo per invertire
questa tendenza nel 2018 e nel 2019, con la crescita dell’offerta mondiale più
strettamente in linea con la crescita della capacità di fornitura. Una grande
fetta di questa crescita proviene da progetti avviati nel 2017, sia da quelli
in fase di pieno utilizzo che da quelli che hanno raggiunto la stabilità. I
produttori tutt’ora operano investimenti per un livello relativamente basso di
interruzioni rispetto a quanto osservato negli ultimi anni, in gran parte a
causa dei maggiori volumi in arrivo da Angola, Egitto e Trinidad e Tobago.
Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno
passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale.
Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di
liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a
decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento in
atto.
La scala di crescita nel 2017 è stata
attribuita in gran parte alla Cina, che ha dominato il mercato,
rappresentando quasi la metà della crescita globale della domanda. Ma il ritmo
di questa crescita si attenuerà. L’aumento del consumo di gas domestico e
l’insufficienza delle forniture locali vedranno continuare a crescere le
importazioni di GNL, ma con un rallentamento, dovuto all’estensione
delle rinnovabili, nonostante il passaggio dal carbone al gas. Più in
generale, i mercati emergenti continueranno a sostenere la crescita globale,
compreso un gran numero di nuovi entranti. Tuttavia, molti dei più attraenti di
essi sono già stati sfruttati e il ritmo dei nuovi entranti inizierà a
rallentare. Ciò non significa riduzione effettiva di investimenti e di
perforazioni nel settore, ma un maggior rischio , dichiaratamente coperto dalla
svolta di Trump rispetto agli impegni di Parigi.
In questo quadro di maggiore tolleranza per lo
shale gas, fino a due anni fà messo al bando dall’UE, L‘Europa punta
ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche
per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas
americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale,
grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai
significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però – secondo i più
grandi produttori di gas e i fornitori interni (ENI, Total e BP) – fare un
ulteriore salto e diventare il maggior consumatore di gas a livello globale: a
questo puntano esplicitamente gli Stati Uniti (con l’esportazione di
shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione
russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di
immissione in rete gassosa del GNL da scisto nordamericano ai nodi degli
attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra – per limitare il gas
russo – alla Toscana – per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul
piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del
gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in Europa
sarà il prezzo, con i carichi di GNL in competizione sugli hub
dei porti per eliminare le forniture da gasdotti. In questo modo, i prezzi del
mercato europeo del gas emergeranno come un importante fattore trainante dei
prezzi globali del GNL nel medio periodo. E non necessariamente al ribasso, ma
in condizioni di maggiore volatilità.
Mentre l’Europa contribuirà a riequilibrare il
mercato dal lato della domanda, l’offerta è altamente inelastica rispetto ai
prezzi. La maggior parte della capacità di liquefazione è impegnata in
contratti a lungo termine e, dati i bassi costi di produzione, la maggior parte
delle forniture è incentivata a gestire in loco i propri impianti alla massima
capacità e a vendere solo l’eccesso sul mercato spot. Gli Stati Uniti,
nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente
l’unica fonte di offerta di GNL a livello globale, nonostante i suoi costi di
produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati e
l’impatto disastroso sui cicli naturali e l’ambiente. Su base annua media, lo
spread tra il miglior prezzo statunitense e i benchmark europei ed asiatici
sembra favorevole alle esportazioni dall’America per tutto il 2018 e 2019.
Tuttavia, i prezzi del gas sono altamente stagionali e durante i mesi estivi,
la capacità degli Stati Uniti verrà probabilmente sottoutilizzata e compensata
per altra via.
L’espansione del gas è quindi fonte di
incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari
notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa e
risonanza, la decarbonizzazione strombazzata ad ogni lato,
paradossalmente rilancia il gas, con l’attenuante della sostituzione del
carbone con il mantenimento sotto traccia del suo contributo ai gas
climalteranti nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla
narrazione di quote di rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura a
integrazione anziché a sostituzione dei consumi fossili.
Negli ultimi due anni, solo due
decisioni di investimento finale sono state prese su progetti di
liquefazione, a livello globale: Tangguh LNG (Indonesia) e Coral FLNG
(Mozambico). Per il 2018 sono invece ben 17 i progetti in lizza, di cui sette
con solide prospettive di realizzazione. Perché mai, visto lo scoraggiamento
che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le
sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei
prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli
di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una
forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia
dei progetti di liquefazione. Ancora una volta, il modello di sviluppo
finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei
governanti.
BIG DATA =PIU” EFFICIENZA, PIU’ PROFITTI, MA
MINOR DURATADEI POZZI
I grandi cambiamenti in atto nel settore
petrolifero e del gas, ora che esso sta iniziando a adottare le ultime
innovazioni anche in fatto di informatica, provocano l’illusione di tornare ad
essere competitivi economicamente con le fonti “pulite” a dispetto della
riduzione dei costi di quest’ultime e dell’insostenibilità ambientale provocata
dalla circolazione di gas e petrolio (Il carbone non è affatto marginale, ma
ormai le banche lo sfavoriscono). Alcune tecniche – come l’analisi avanzata dei
dati che vengono commissionate a Google, Facebook, Amazon ed altri sia per
intralciare i contatti diretti con la clientela, sia per “strizzare” al massimo
le fonti sotto le superfici più fragili e contaminabili– ormai sono utilizzate
sempre più spesso dal settore energetico. Molti dirigenti di società
petrolifere credono che i risultati potrebbero essere altrettanto sbalorditivi
e rivoluzionari che per la manifattura. (v. Il sole 24 ore http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-02-14/cosi-big-data-salveranno-gas-e-petrolio-nell-era-rinnovabili–150458.shtml?uuid=AEkoZxzD&refresh_ce=1 )
L’aumento della produzione reso possibile
dalle innovazioni digitale dovrebbe esercitare pressioni verso il basso
per i prezzi petroliferi, “creando venti contrari per le tecnologie
concorrenti, comprese quelle applicate alle automobili elettriche”. Entro i
prossimi dieci “Nei giacimenti petroliferi di scisto degli Stati Uniti il nuovo
sistema potrebbe incidere sui costi di produzione nella misura del 40 per
cento” ha osservato il CEO di Chevron, Occorre tener effettivamente conto che
nella classifica Top 500 dei supercomputer più potenti al mondo oggi, i
maggiori proprietari del settore fossile risultano essere Total ed Eni –
le società petrolifere a compartecipazione governativa rispettivamente di
Francia e Italia, e Petroleum Geo Services, un’azienda che effettua
rilevamenti di giacimenti di petrolio e relativa produzione di immagini di resa
e simulazione. “Le operazioni legate alle trivellazioni sono in buona
parte gestite da esseri umani. Crediamo che in futuro saranno sempre più
automatizzate e delegate a un computer”(Chevron). Il basso costo dei
sensori e la disponibilità di servizi nel cloud rendono senz’altro maggiore la
resa, ma petrolio e gas restano produttori di climalteranti alla combustione e
il principio dell’entropia ha un carattere di irreversibilità e una dipendenza
dalla velocità delle trasformazioni in natura che nessuna elaborazione di dati può
sostanzialmente invertire, se i parametri e le intensità termiche inseguite
rimangono invariati.
Come nel caso della manifattura 4.0, la
sostituzione dell’azione umana con Intelligenza Artificiale, nonchè l’estrema
velocità di elaborazione in tempo di dati non sempre correlati giustamente tra
loro distraggono dalla qualità e dalla finalità che si produce a fini di
profitto e dall’intero ciclo di vita dei prodotti. I quali evidentemente non si
esauriscono nel consumo, ma rimangono scarto degradato e, di fatto, nel caso
dei fossili e ancor più per il nucleare, scarto ineliminabile in tempi storici.
La fase di accelerazione dellìimpiego tecnologie digitali, ormai pervasive e
sorrette da notevoli investimenti nelle infrastrutture, sta creando illusorie
aspettative tra gli operatori economici e affanni di competizione tra i sistemi
nazionali. Anche se in complesso viene riconosciuto che l’attuale crisi sia
generale, a carattere epocale e strutturale e pertanto richieda soluzioni in
profonda discontinuità con le ricette che l’hanno provocata, perfino riguardo
alle fonti fossili ci si limita alla pura efficienza, alla maggior velocità
delle connessioni tra siti e spezzoni di ciclo, di elaborazioni e esecuzioni
materiali, che prescindono dall’utilità sociale dei prodotti, lasciano
inalterata la divisione del lavoro, ne incorporano nel macchinario la residua
autonomia, estendono la loro potenza organizzativa all’intero tempo
dell’esistenza umana. Continua cioè a prevalere in ambito economico e politico
la speranza di superare – ostinatamente in un orizzonte rischiarato da una
improbabile crescita – il duro avvitamento di una società in cui degrado di
natura, limiti alla democrazia, perdita di diritti sono ormai emergenze
irrisolvibili, ma, nello stesso tempo, il frutto di scelte maturate nel modo di
produzione e di consumo, che rimane la sostanza da mettere in discussione.
MULTINAZIONALI, ROTTE ARTICHE, PETROLIO E GAS
POLARE
Mentre la domanda globale di combustibili
fossili aumenta e il ghiaccio del mare artico continua a sciogliersi, le
multinazionali e i governi prevedono di espandere le esplorazioni
petrolifere e le rotte commerciali nella regione. Un’altra incredibile
contraddizione rispetto alle decisioni sbandierate ai summit sul clima.
Il 26 gennaio 2018, Pechino ha annunciato
l’apertura di rotte marittime nell’Artico per un tipo di strada della seta
polare. La Cina sta mettendo sotto osservazione le possibilità di estrarre
petrolio, gas, risorse minerarie, nonché di favorire la pesca e il turismo
nella regione. Il gigante asiatico ha una quota importante nel progetto russo
di gas naturale liquefatto (GNL) di Yamal, che dovrebbe fornire alla Cina 4
milioni di tonnellate di GNL all’anno.
Nell’aprile dello scorso anno, il presidente
degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un ordine
esecutivo che inverte le restrizioni dell’ex presidente Barack Obama sulle
trivellazioni nell’Artico, offrendo all’ENI la concessione di perforazioni
esplorative nell’Artico a partire dal 2018.
Affrontare sversamenti di fossili in questo
tipo di ambiente richiede conoscenze, capacità tecniche e capacità di risposta
che semplicemente non abbiamo: oltre 25 anni dopo Exxon Valdez, non ci sono
ancora tecnologie note per la pulizia di olio in zone ghiacciate.
Nonostante i probabili disastri naturali che
potrebbero introdurre, le nazioni e i Governi interessati (compreso quello
italiano!) stanno predisponendo piani per trarre profitto dalle risorse
dell’Artico e dalle possibili rotte commerciali. Attualmente, due importanti
rotte artiche sono sempre più navigabili in estate. The Northwest
Passage (Canada), che farebbe risparmiare due settimane di viaggio rispetto al
Canale di Panama e la rotta del Mare del Nord (Russia), che è già in uso per
navi commerciali. Sebbene le rotte non siano aperte tutto l’anno, le compagnie
investono già miliardi di dollari in petroliere in grado di rompere e superare
il ghiaccio invernale.
Il Worldwatch Institute di Washington ( http://www.worldwatch.org/node/5664 ) ha riferito che più della metà dell’Oceano Artico
era coperto di ghiaccio tutto l’anno a metà degli anni ’80. Oggi, la calotta
polare è molto più piccola, come ha dimostrato la NASA con le prove
satellitari: la copertura ghiacciata artica, a partire da febbraio, poggia su
meno del 30 percento dell’oceano.
I diritti allo sviluppo nell’Oceano Artico
sono fortemente contestati tra Stati Uniti, Russia, Canada e Norvegia. Tutti e
quattro i paesi stanno discutendo fino a che punto la loro piattaforma
continentale si estende nell’oceano e quindi concede loro diritti di
perforazione. Ma il rapporto 2016 dell’Istituto per l’ambiente di Stoccolma (
v. https://issuu.com/mcarta/docs/stockholm_re-silient_2015 ) avverte che “l’integrità degli ecosistemi artici
è sempre più sfidata, con importanti implicazioni per le comunità artiche e per
il mondo nel suo complesso. I cambiamenti climatici minacciano una vita polare
varia e abbondante che dipende dallo spessore del ghiaccio, dagli orsi polari e
dai trichechi, fono al al minuscolo krill. Lo scioglimento delle calotte
glaciali e dei ghiacciai sta causando l’innalzamento dei livelli del mare. Le
modifiche ai climi polari rappresentano una doppia minaccia: influiscono
direttamente sulla vita polare, ma hanno anche importanti effetti a catena per
i sistemi climatici di tutto il mondo. ”
In conclusione, chi guida il mondo continua a
ritenere reversibile e riparabile l’impronta che in particolare le attuali
generazioni lasciano sulla Terra.
E PER FINIRE….LA BREXIT
Per rappresentare lo stato di involuzione dl
sistema mondiale fondato su grandi centrali e migliaia di miglia di reti di
distribuzione carenti di accumulo, riprendo da ultima una notizia tanto
imbarazzante quanto segno di imprevidenza. Questione senz’altro non messa in
conto dagli Inglesi quando son stati consultati nel referendum popolare per la
Brexit. Il Regno Unito non ha ancora nemeno abbozzato le regole di sostituzione
necessarie Ma il tempo stringe per elaborare nuovi accordi prima di marzo. La
francese EDF impegnata alla costruzione dei reattori nucleari di Hinkley
Point, nel sud-ovest dell’Inghilterra – tre enormi gruppi da 1600 MW l’uno
per un esborso di 19,6 miliardi di sterline (26,2 miliardi di dollari) – ha
sollevato il problema dell’uscita dell’Inghilterra dall’Euratom e dei rapporti
che in particolare i francesi tengono oltre Manica per la standardizzazione
delle centrali da loro progettate e per l’accesso e il ritrattamento del
carburante nucleare. L’adesione all’Euratom ha per tutti questi anni aiutato la
Gran Bretagna a diventare un produttore leader di combustibile per reattori e
un partecipante chiave nei progetti di ricerca nucleare a guida UE. Il governo
del primo ministro Theresa May ha sottovalutato la decisione di lasciare con
l’UE anche l’Euratom. Ma dal momento che l’organizzazione del nucleare europeo
governa tutto, dal trasporto di materiali radioattivi, dal combustibile per
reattori agli isotopi medici e alla tecnologia atomica commerciale, in attesa
di complicati accordi tutti da riscrivere il Regno Unito non avrebbe accesso al
carburante. Se i benefici chiave previsti dal trattato Euratom soprattutto per
la sicurezza non venissero mantenuti, non si sarebbe in grado di spostare il
combustibile nucleare o le merci dentro e fuori il paese. E EDF dovrebbe
sospendere le operazioni, mentre la Gran Bretagna dovrebbe reperire 5.000 posti
di lavoro per costruire la stazione ed essere in grado di accedere a dipendenti
qualificati provenienti da altri paesi europei. Intanto il combustibile nucleare
giacerebbe incustodito e non ritrattato per migliaia di anni o almeno finchè
non si ripristinino gli accordi per una loro conservazione il meno pericolosa
possibile per tempi storici
A valle delle constatazioni qui prese in
considerazione solo per il “rilancio” clandestino dei fossili, considerare
Parigi 2015 una tappa storica è davvero un abbaglio in attesa di una sola
possibile scossa: quella dei cittadini -uomini e donne – che pongono la
rigenerazione, la biosfera, la cura della Terra sopra la ricerca di un profitto
illusoriamente a termine
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