mercoledì 28 marzo 2018

L’Eni nell’Artico, i petrolieri texani e l’Europa a tutto gas - Mario Agostinelli



Non è solo Trump a non voler attuare una politica che rallenti il riscaldamento climatico. Il 2018 sarà un anno di svolta per il consumo di petrolio mentre l’Europa punta a diventare un rigassificatore globale e l’Eni inizierà a perforare l’Artico.
Molti di noi mostravano scetticismo sulle conclusioni della Cop21, di Parigi, il summit internazionale contro i cambiamenti climatici provocati dalle massicce emissioni in atmosfera di anidride carbonica. Non solo l’arrivo di Trump, ma il malcelato appoggio allo scapigliato presidente sparso in giro per il mondo da tutte le multinazionali e dagli interessi che assecondano il modello di sviluppo alimentato dai fossili e dal nucleare, ha già fatto dimenticare il fiato sul collo messo ai governanti dalle convenzioni internazionali sul clima. Tra una Cop e l’altra vengono vanificati o posposti tutti gli impegni più cogenti scritti sulla carta e così un testo senza sanzioni certe mostra tutta la sua debolezza e inefficacia. Così, provo subito ad elencare i punti più qualificanti dell’accordo di Parigi compromessi o beffati senza che si crei un minimo di inquietudine nell’opinione pubblica mondiale.
L’articolo 2 dell’accordo fissa l’obiettivo di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”. L’articolo 3 prevede che i Paesi “puntino a raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile”, e proseguano “rapide riduzioni dopo quel momento” per arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra già nella seconda metà di questo secolo”. In base all’articolo 4, tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere” degli impegni definiti a livello nazionale, con revisioni regolari che “rappresentino un progresso” rispetto agli impegni precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile” di decarbonizzazione. I paragrafi 23 e 24 della decisione intergovernativa sollecitano i Paesi che hanno presentato impegni al 2025 “a comunicare entro il 2020 un nuovo impegno, e a farlo poi regolarmente ogni 5 anni”, e chiedono a quelli che già hanno un impegno al 2030 di “comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020”. La prima verifica dell’applicazione degli impegni è fissata al 2023.
DI fatto, come documentato sotto, si cerca di aumentare la produzione e di tagliare i costi di un’attività
L’articolo 9 chiede ai Paesi sviluppati di “fornire risorse finanziarie per assistere” quelli in via di sviluppo. Più in dettaglio, il paragrafo 115 della decisione “sollecita fortemente” questi Paesi a stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020”. Ma, in realtà, viene aumentata la produzione e tagliati i costi con sovvenzioni pubbliche per quello che era il fulcro della vecchia economia: la produzione di petrolio e di gas; e neanche un dollaro è stato infilato in una bussola per la carità posta ad un incrocio qualunque!
SI CERCA DI SPOSTARE IN AVANTI IL PICCO DEL PETROLIO
Nel suo recente ed esauriente report sul futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018, analysis and forecasts to 2023, www.iea.org ) induce a riflessioni tutt’altro che scontate sull’avvenuto raggiungimento del picco delle fonti fossili. Ormai si perfora e si spara acqua compressa nei luoghi più inimmaginabili e pericolosi. Anzi, caparbiamente, le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti esplorano ogni possibilità di rilancio anche dei combustibili più sporchi. Accelerando perfino, come proverò qui sotto, i più assurdi tentativi di estrazione sotto il profilo climatico-ambientale e azzardando le operazioni più rischiose dal punto di vista finanziario e delle probabili bolle in borsa. Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una esasperata combustione dei fossili recuperati ovunque, dopo averla dichiarata incompatibile con il riscaldamento del pianeta ad ogni superfluo appuntamento Cop (ormai, con quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23, https://www.lifegate.it/persone/news/cop-23-fiji-bonn-finale ).
Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare con sorpresa una espansione notevole di immissione “sporca”, dovuta soprattutto all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) e il contemporaneo irrobustimento dell’esportazione di shale gas comporta un cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.
Previsioni di produzione di LTO in USA a seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/ )
La spina nel fianco della tecnologia di fracking consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve in figura indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve notare che la modalità di fracking delle rocce, estremamente dannosa sul piano ambientale, andrà comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023. Di conseguenza, quindi, l’inevitabile picco previsto cinque anni fa ancora non è raggiunto, consentendo agli USA di solidificarsi come il principale produttore di petrolio al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori di oro nero.
Il Fondo Monetario Internazionale vede una crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili / giorno. Dove sta allora la decarbonizzazione, parola d’ordine della Cop di Parigi e della SEN di Calenda? Eppure, ci sono segnali di possibile e vantaggiosa sostituzione del petrolio con altre fonti energetiche in vari paesi. Ma non è assolutamente pari agli obiettivi di sostituzione necessari, se si escludono sforzi locali in Asia e parziali in Germania. Un esempio di riferimento sta diventando la Cina, che, partendo da una situazione disastrosa in particolare nelle città, ha introdotto alcune delle più severe normative mondiali in materia di efficienza dei consumi e di emissioni. La produzione e le vendite di veicoli elettrici stanno aumentando e c’è una forte aumento nello spiegamento di veicoli a gas naturale, in particolare nelle flotte di camion e autobus. Un numero crescente di autobus elettrici e autocarri alimentati a GNL in Cina rallenterà in modo significativo la crescita della domanda di gasolio. Le flotte di oltre 16.000 bus elettrici di Shenzhen sono un punto di riferimento mondiale.
Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove risorse petrolifere tradizionali sono scese ad un altro minimo storico nel 2017. Messico e Venezuela sono campi ambiti di intervento, ma anche fonte di enormi tensioni (Il muro di Trump, l’attacco asfissiante al governo di Caracas), mentre l’instabilità in Iraq, Libia e Nigeria e l’isolamento del Qatar comporta che ormai i Paesi non OPEC diventino i protagonisti sulla scena, con in testa gli Stati Uniti, almeno nei prossimi quattro-cinque anni. Spinta dall’LTO, che non ha ancora raggiunto il suo picco (v. figura), nel 2023 la produzione degli Stati Uniti sarà cresciuta di 3,7 milioni di barili al giorno, cioè, più della metà della crescita totale della capacità produttiva globale, di 6.4 mb / d prevista per allora. Gli Stati Uniti sono pertanto in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei mercati globali. Per di più, sotto la presidenza Trump viene favorita nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL, osteggiati da Obama e il gasdotto EPIC 550 kb / d di TexStar Logistics, che sarà operativo nel 2019 in Texas. Dieci impianti di esportazione di petrolio greggio sono in corso di aggiornamento o di costruzione, facendo di Corpus Christi il principale hub di esportazione nella costa del Golfo. Anche l’attale eccesso di capacità di raffinazione globale è destinato ad esaurirsi a causa del rallentamento della crescita della domanda di prodotti raffinati, in particolare dall’Asia, che richiede sempre più greggio per la propria industria petrolchimica.
La domanda petrolifera europea, nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine. La maggior parte della crescita verrà dal GPL e dall’etano. Buoni guadagni si vedranno anche nel consumo di kerosene, dato che i viaggi aerei diventano più accessibili nei paesi non OCSE. La crescita della domanda di benzina rallenta nel periodo da qui al 2023 con standard più rigidi in materia di risparmio di carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7% all’anno.
ESTRARRE E IMPIEGARE E PAGARE AD OGNI COSTO SHALE GAS
Segnalo alcuni temi destinati a essere considerati decisivi nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del GNL (gas naturale liquefatto) se si prendono in considerazione prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono elaborate da informazioni della Banca Mondiale http://www.worldbank.org/ ).
L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato dalla capacità di liquefazione. Negli ultimi due anni, la crescita dell’approvvigionamento di GNL ha rappresentato meno di due terzi della capacità di crescita di offerta grezza. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e interruzioni di fornitura non pianificabili, spesso dipendenti da conflitti locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Le imprese e la gran parte dei Governi stanno attuando ogni sforzo per invertire questa tendenza nel 2018 e nel 2019, con la crescita dell’offerta mondiale più strettamente in linea con la crescita della capacità di fornitura. Una grande fetta di questa crescita proviene da progetti avviati nel 2017, sia da quelli in fase di pieno utilizzo che da quelli che hanno raggiunto la stabilità. I produttori tutt’ora operano investimenti per un livello relativamente basso di interruzioni rispetto a quanto osservato negli ultimi anni, in gran parte a causa dei maggiori volumi in arrivo da Angola, Egitto e Trinidad e Tobago. Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale. Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento in atto.
La scala di crescita nel 2017 è stata attribuita in gran parte alla Cina, che ha dominato il mercato, rappresentando quasi la metà della crescita globale della domanda. Ma il ritmo di questa crescita si attenuerà. L’aumento del consumo di gas domestico e l’insufficienza delle forniture locali vedranno continuare a crescere le importazioni di GNL, ma con un rallentamento, dovuto all’estensione delle rinnovabili, nonostante il passaggio dal carbone al gas. Più in generale, i mercati emergenti continueranno a sostenere la crescita globale, compreso un gran numero di nuovi entranti. Tuttavia, molti dei più attraenti di essi sono già stati sfruttati e il ritmo dei nuovi entranti inizierà a rallentare. Ciò non significa riduzione effettiva di investimenti e di perforazioni nel settore, ma un maggior rischio , dichiaratamente coperto dalla svolta di Trump rispetto agli impegni di Parigi.
In questo quadro di maggiore tolleranza per lo shale gas, fino a due anni fà messo al bando dall’UE, L‘Europa punta ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale, grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però – secondo i più grandi produttori di gas e i fornitori interni (ENI, Total e BP) – fare un ulteriore salto e diventare il maggior consumatore di gas a livello globale: a questo puntano esplicitamente gli Stati Uniti (con l’esportazione di shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di immissione in rete gassosa del GNL da scisto nordamericano ai nodi degli attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra – per limitare il gas russo – alla Toscana – per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in ​​Europa sarà il prezzo, con i carichi di GNL in competizione sugli hub dei porti per eliminare le forniture da gasdotti. In questo modo, i prezzi del mercato europeo del gas emergeranno come un importante fattore trainante dei prezzi globali del GNL nel medio periodo. E non necessariamente al ribasso, ma in condizioni di maggiore volatilità.
Mentre l’Europa contribuirà a riequilibrare il mercato dal lato della domanda, l’offerta è altamente inelastica rispetto ai prezzi. La maggior parte della capacità di liquefazione è impegnata in contratti a lungo termine e, dati i bassi costi di produzione, la maggior parte delle forniture è incentivata a gestire in loco i propri impianti alla massima capacità e a vendere solo l’eccesso sul mercato spot. Gli Stati Uniti, nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente l’unica fonte di offerta di GNL a livello globale, nonostante i suoi costi di produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati e l’impatto disastroso sui cicli naturali e l’ambiente. Su base annua media, lo spread tra il miglior prezzo statunitense e i benchmark europei ed asiatici sembra favorevole alle esportazioni dall’America per tutto il 2018 e 2019. Tuttavia, i prezzi del gas sono altamente stagionali e durante i mesi estivi, la capacità degli Stati Uniti verrà probabilmente sottoutilizzata e compensata per altra via.
L’espansione del gas è quindi fonte di incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa e risonanza, la decarbonizzazione strombazzata ad ogni lato, paradossalmente rilancia il gas, con l’attenuante della sostituzione del carbone con il mantenimento sotto traccia del suo contributo ai gas climalteranti nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla narrazione di quote di rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura a integrazione anziché a sostituzione dei consumi fossili.
Negli ultimi due anni, solo due decisioni di investimento finale sono state prese su progetti di liquefazione, a livello globale: Tangguh LNG (Indonesia) e Coral FLNG (Mozambico). Per il 2018 sono invece ben 17 i progetti in lizza, di cui sette con solide prospettive di realizzazione. Perché mai, visto lo scoraggiamento che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei prezzi delle materie primedall’attenuazione dei vincoli di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia dei progetti di liquefazione. Ancora una volta, il modello di sviluppo finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei governanti.
BIG DATA =PIU” EFFICIENZA, PIU’ PROFITTI, MA MINOR DURATADEI POZZI
I grandi cambiamenti in atto nel settore petrolifero e del gas, ora che esso sta iniziando a adottare le ultime innovazioni anche in fatto di informatica, provocano l’illusione di tornare ad essere competitivi economicamente con le fonti “pulite” a dispetto della riduzione dei costi di quest’ultime e dell’insostenibilità ambientale provocata dalla circolazione di gas e petrolio (Il carbone non è affatto marginale, ma ormai le banche lo sfavoriscono). Alcune tecniche – come l’analisi avanzata dei dati che vengono commissionate a Google, Facebook, Amazon ed altri sia per intralciare i contatti diretti con la clientela, sia per “strizzare” al massimo le fonti sotto le superfici più fragili e contaminabili– ormai sono utilizzate sempre più spesso dal settore energetico. Molti dirigenti di società petrolifere credono che i risultati potrebbero essere altrettanto sbalorditivi e rivoluzionari che per la manifattura. (v. Il sole 24 ore http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-02-14/cosi-big-data-salveranno-gas-e-petrolio-nell-era-rinnovabili–150458.shtml?uuid=AEkoZxzD&refresh_ce=1 )
L’aumento della produzione reso possibile dalle innovazioni digitale dovrebbe esercitare pressioni verso il basso per i prezzi petroliferi, “creando venti contrari per le tecnologie concorrenti, comprese quelle applicate alle automobili elettriche”. Entro i prossimi dieci “Nei giacimenti petroliferi di scisto degli Stati Uniti il nuovo sistema potrebbe incidere sui costi di produzione nella misura del 40 per cento” ha osservato il CEO di Chevron, Occorre tener effettivamente conto che nella classifica Top 500 dei supercomputer più potenti al mondo oggi, i maggiori proprietari del settore fossile risultano essere Total ed Eni – le società petrolifere a compartecipazione governativa rispettivamente di Francia e Italia, e Petroleum Geo Services, un’azienda che effettua rilevamenti di giacimenti di petrolio e relativa produzione di immagini di resa e simulazione. “Le operazioni legate alle trivellazioni sono in buona parte gestite da esseri umani. Crediamo che in futuro saranno sempre più automatizzate e delegate a un computer”(Chevron). Il basso costo dei sensori e la disponibilità di servizi nel cloud rendono senz’altro maggiore la resa, ma petrolio e gas restano produttori di climalteranti alla combustione e il principio dell’entropia ha un carattere di irreversibilità e una dipendenza dalla velocità delle trasformazioni in natura che nessuna elaborazione di dati può sostanzialmente invertire, se i parametri e le intensità termiche inseguite rimangono invariati.
Come nel caso della manifattura 4.0, la sostituzione dell’azione umana con Intelligenza Artificiale, nonchè l’estrema velocità di elaborazione in tempo di dati non sempre correlati giustamente tra loro distraggono dalla qualità e dalla finalità che si produce a fini di profitto e dall’intero ciclo di vita dei prodotti. I quali evidentemente non si esauriscono nel consumo, ma rimangono scarto degradato e, di fatto, nel caso dei fossili e ancor più per il nucleare, scarto ineliminabile in tempi storici. La fase di accelerazione dellìimpiego tecnologie digitali, ormai pervasive e sorrette da notevoli investimenti nelle infrastrutture, sta creando illusorie aspettative tra gli operatori economici e affanni di competizione tra i sistemi nazionali. Anche se in complesso viene riconosciuto che l’attuale crisi sia generale, a carattere epocale e strutturale e pertanto richieda soluzioni in profonda discontinuità con le ricette che l’hanno provocata, perfino riguardo alle fonti fossili ci si limita alla pura efficienza, alla maggior velocità delle connessioni tra siti e spezzoni di ciclo, di elaborazioni e esecuzioni materiali, che prescindono dall’utilità sociale dei prodotti, lasciano inalterata la divisione del lavoro, ne incorporano nel macchinario la residua autonomia, estendono la loro potenza organizzativa all’intero tempo dell’esistenza umana. Continua cioè a prevalere in ambito economico e politico la speranza di superare – ostinatamente in un orizzonte rischiarato da una improbabile crescita – il duro avvitamento di una società in cui degrado di natura, limiti alla democrazia, perdita di diritti sono ormai emergenze irrisolvibili, ma, nello stesso tempo, il frutto di scelte maturate nel modo di produzione e di consumo, che rimane la sostanza da mettere in discussione.
MULTINAZIONALI, ROTTE ARTICHE, PETROLIO E GAS POLARE
Mentre la domanda globale di combustibili fossili aumenta e il ghiaccio del mare artico continua a sciogliersi, le multinazionali e i governi prevedono di espandere le esplorazioni petrolifere e le rotte commerciali nella regione. Un’altra incredibile contraddizione rispetto alle decisioni sbandierate ai summit sul clima.
Il 26 gennaio 2018, Pechino ha annunciato l’apertura di rotte marittime nell’Artico per un tipo di strada della seta polare. La Cina sta mettendo sotto osservazione le possibilità di estrarre petrolio, gas, risorse minerarie, nonché di favorire la pesca e il turismo nella regione. Il gigante asiatico ha una quota importante nel progetto russo di gas naturale liquefatto (GNL) di Yamal, che dovrebbe fornire alla Cina 4 milioni di tonnellate di GNL all’anno.
Nell’aprile dello scorso anno, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un ordine esecutivo che inverte le restrizioni dell’ex presidente Barack Obama sulle trivellazioni nell’Artico, offrendo all’ENI la concessione di perforazioni esplorative nell’Artico a partire dal 2018.
Affrontare sversamenti di fossili in questo tipo di ambiente richiede conoscenze, capacità tecniche e capacità di risposta che semplicemente non abbiamo: oltre 25 anni dopo Exxon Valdez, non ci sono ancora tecnologie note per la pulizia di olio in zone ghiacciate.
Nonostante i probabili disastri naturali che potrebbero introdurre, le nazioni e i Governi interessati (compreso quello italiano!) stanno predisponendo piani per trarre profitto dalle risorse dell’Artico e dalle possibili rotte commerciali. Attualmente, due importanti rotte artiche sono sempre più navigabili in estate. The Northwest Passage (Canada), che farebbe risparmiare due settimane di viaggio rispetto al Canale di Panama e la rotta del Mare del Nord (Russia), che è già in uso per navi commerciali. Sebbene le rotte non siano aperte tutto l’anno, le compagnie investono già miliardi di dollari in petroliere in grado di rompere e superare il ghiaccio invernale.
Il Worldwatch Institute di Washington ( http://www.worldwatch.org/node/5664 ) ha riferito che più della metà dell’Oceano Artico era coperto di ghiaccio tutto l’anno a metà degli anni ’80. Oggi, la calotta polare è molto più piccola, come ha dimostrato la NASA con le prove satellitari: la copertura ghiacciata artica, a partire da febbraio, poggia su meno del 30 percento dell’oceano.
I diritti allo sviluppo nell’Oceano Artico sono fortemente contestati tra Stati Uniti, Russia, Canada e Norvegia. Tutti e quattro i paesi stanno discutendo fino a che punto la loro piattaforma continentale si estende nell’oceano e quindi concede loro diritti di perforazione. Ma il rapporto 2016 dell’Istituto per l’ambiente di Stoccolma ( v. https://issuu.com/mcarta/docs/stockholm_re-silient_2015 ) avverte che “l’integrità degli ecosistemi artici è sempre più sfidata, con importanti implicazioni per le comunità artiche e per il mondo nel suo complesso. I cambiamenti climatici minacciano una vita polare varia e abbondante che dipende dallo spessore del ghiaccio, dagli orsi polari e dai trichechi, fono al al minuscolo krill. Lo scioglimento delle calotte glaciali e dei ghiacciai sta causando l’innalzamento dei livelli del mare. Le modifiche ai climi polari rappresentano una doppia minaccia: influiscono direttamente sulla vita polare, ma hanno anche importanti effetti a catena per i sistemi climatici di tutto il mondo. ”
In conclusione, chi guida il mondo continua a ritenere reversibile e riparabile l’impronta che in particolare le attuali generazioni lasciano sulla Terra.
E PER FINIRE….LA BREXIT
Per rappresentare lo stato di involuzione dl sistema mondiale fondato su grandi centrali e migliaia di miglia di reti di distribuzione carenti di accumulo, riprendo da ultima una notizia tanto imbarazzante quanto segno di imprevidenza. Questione senz’altro non messa in conto dagli Inglesi quando son stati consultati nel referendum popolare per la Brexit. Il Regno Unito non ha ancora nemeno abbozzato le regole di sostituzione necessarie Ma il tempo stringe per elaborare nuovi accordi prima di marzo. La francese EDF impegnata alla costruzione dei reattori nucleari di Hinkley Point, nel sud-ovest dell’Inghilterra – tre enormi gruppi da 1600 MW l’uno per un esborso di 19,6 miliardi di sterline (26,2 miliardi di dollari) – ha sollevato il problema dell’uscita dell’Inghilterra dall’Euratom e dei rapporti che in particolare i francesi tengono oltre Manica per la standardizzazione delle centrali da loro progettate e per l’accesso e il ritrattamento del carburante nucleare. L’adesione all’Euratom ha per tutti questi anni aiutato la Gran Bretagna a diventare un produttore leader di combustibile per reattori e un partecipante chiave nei progetti di ricerca nucleare a guida UE. Il governo del primo ministro Theresa May ha sottovalutato la decisione di lasciare con l’UE anche l’Euratom. Ma dal momento che l’organizzazione del nucleare europeo governa tutto, dal trasporto di materiali radioattivi, dal combustibile per reattori agli isotopi medici e alla tecnologia atomica commerciale, in attesa di complicati accordi tutti da riscrivere il Regno Unito non avrebbe accesso al carburante. Se i benefici chiave previsti dal trattato Euratom soprattutto per la sicurezza non venissero mantenuti, non si sarebbe in grado di spostare il combustibile nucleare o le merci dentro e fuori il paese. E EDF dovrebbe sospendere le operazioni, mentre la Gran Bretagna dovrebbe reperire 5.000 posti di lavoro per costruire la stazione ed essere in grado di accedere a dipendenti qualificati provenienti da altri paesi europei. Intanto il combustibile nucleare giacerebbe incustodito e non ritrattato per migliaia di anni o almeno finchè non si ripristinino gli accordi per una loro conservazione il meno pericolosa possibile per tempi storici
A valle delle constatazioni qui prese in considerazione solo per il “rilancio” clandestino dei fossili, considerare Parigi 2015 una tappa storica è davvero un abbaglio in attesa di una sola possibile scossa: quella dei cittadini -uomini e donne – che pongono la rigenerazione, la biosfera, la cura della Terra sopra la ricerca di un profitto illusoriamente a termine


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