Qualche sera fa è toccato a John.
Un ragazzo canadese di ventidue anni, presumibilmente felice di essere venuto a
studiare o quel che è in un luogo il cui nome è leggendario nel mondo, ma non
certo per i suoi attuali meriti. Un luogo che dovrebbe invece essere evitato e,
come la Orano de La peste di
Camus, isolata dal resto del mondo per motivi di emergenza sanitaria. Nel
nostro caso mentale. L’epidemia di aggressività stradale è in aumento,
complice sia la cultura generale, sia l’uso smodato di
cocaina, sia la certezza di impunità non dico giuridica ma direttamente dalla
riprovazione sociale, strumento di autocontrollo collettivo ormai fortemente
ridotto se non svanito.
Chi, come me e molti altri in un numero sempre crescente malgrado tutto, ha scelto di
non muoversi con un mezzo a motore, è costantemente a rischio.Ad aggiungere beffa al
sempre più probabile danno – fino al danno definitivo e senza alcun ritorno, la
morte -, noi siamo percepiti come una perdita irrilevante. Quasi scontata,
visto che abbiamo scelto uno stile di vita che io chiamo moderno e che quasi
tutti a Roma giudicano al meglio bislacco. Siamo insomma
tranquillamente sacrificabili, perché “se l’è cercata”: un po’ come chi è
vittima di violenza sessuale perché ha osato questo abbigliamento, quel locale,
quell’altra zona, la notte poi “che giri a fare da sola”.
La scorsa settimana ho partecipato a due convegni legati al “mondo bici”.
Nel secondo, che riguardava le ricadute economiche del mezzo da qualche anno
riscoperto anche qui in Italia -e non certo grazie a quelli che oggi si fanno
belli a tavoli da convegno, ma grazie alle decine di migliaia di attivisti
sparsi per la penisola subalpina- ho sentito con le mie sventuratissime
orecchie il capo della polizia stradale, Roberto Sgalla, stilare la lista delle cose da
fare per salvaguardare la vita di chi si sposta in bici. Nell’ordine: “sistema
di tracciabilità della bicicletta”, leggasi targa, “obbligo di indumenti
riflettenti”, “obbligo di casco (“come a Malta”, ha aggiunto). Ah: ha esordito
chiedendo una persecuzione delle bici elettriche, con la scusa che “lo stanno
facendo a New York”. Transeat.
Fortunatamente ero stato invitato a intervenire dal moderatore del
tavolo, Paolo Gandolfi,
un deputato consapevole e intelligente, del Pd. Paolo, prendendo spunto dalla
mia breve (dis)avventura come bike manager di
Roma, mi ha chiesto quali
fossero a mio avviso gli ostacoli amministrativi allo sviluppo della
ciclabilità in questa intossicata capitale continentale del sud Europa. Ho avuto quindi
l’occasione di ripetere che scontiamo un problema gigantesco di
arretratezza culturale da parte degli amministratori, come anche evidenziato
dall’intervento della capo della polizia stradale. Ora non ricordo
le esatte parole ma il concetto era quello. Poco prima era intervenuta con
concetti simili anche la presidente della Fiab, Giulietta Pagliaccio.
Un po’ tutto, ad andare sul più ampio, è arretrato in Italia e ostacola il
cambiamento. La percezione collettiva dell’uso della strada è a nostro sfavore,
e -oltre alle pubblicità tossiche come quella cartacea qui sotto
– persino gli algoritmi
dei siti di informazione piazzano la pubblicità di auto con regolarità sotto ai
pezzi in cui si parla di ciclisti morti in strada. L’ultimo esempio lo
posto qui, ed è dovuto all’uccisione di John:
Convegni a pioggia per parlare di bike sharing, bike economy, ciclovie
turistiche, alti guaiti per le vittime della strada (che dovrebbero essere definite
in realtà vittime
della motorizzazione, visto che la strada è solo un supporto aperto al pubblico e per sua
natura è inerte) da parte di gente che chiede per favore, per pietà, di non
essere uccisa: sono una realtà virtuale. Quella concrete, tangibile, è quella delle
morti dovute alla motorizzazione, persino in città dove da decenni il limite di
velocità, già abbastanza elevato, sembra ormai essere una banale parte del
paesaggio, come una pietra o un cactus.
Se ne esce? Non lo so. Avendo imparato da Noam Chomsky ho una certa sfiducia
nei governi ma sono convinto che la pressione di massa è l’unica, esclusiva via
d’uscita da una situazione di estremo pericolo generalizzato. Nel nostro caso,
un pericolo che non
costa nulla mettere in atto. Solo qualche funerale e amen, chi vive
si dà pace.
da qui
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