Crescita e occupazione.
Nelle
società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, le
industrie non possono non investire sistematicamente in innovazioni
tecnologiche che aumentano la produttività, ovvero la quantità della produzione
in una unità di tempo. Altrimenti la produzione non crescerebbe e non si
raggiungerebbero le finalità poste all’economia. Le tecnologie che aumentano la
produttività aumentano l’apporto delle macchine e riducono l’apporto del lavoro
umano al valore aggiunto. Di qui è nata la convinzione che le innovazioni
tecnologiche riducano i posti di lavoro. Uno dei primi a sostenere questa tesi
è stato John Maynard Keynes, che in un suo breve saggio del 1931,
intitolato Possibilità economiche per i nostri nipoti,
ha scritto: «Noi abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce
ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la
disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare
forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella
forza lavoro altrove».[1]
In realtà
l’illustre economista confondeva due fenomeni, uno di carattere tecnico e uno
di carattere politico, perché la
riduzione dell’apporto del lavoro umano al valore aggiunto causata dallo
sviluppo tecnologico può essere gestita in due maniere. Se si decide di
mantenere intatta la durata dell’orario giornaliero di lavoro si riduce
l’occupazione, ma se si decide di ridurre la durata dell’orario giornaliero di
lavoro si può mantenere intatta l’occupazione. Queste decisioni rispondono a
valutazioni di carattere politico. La concorrenza ha imposto l’adozione della
prima scelta, per cui le innovazioni dei processi produttivi hanno
comportato riduzioni dell’occupazione. In controtendenza con questo processo
agiscono le innovazioni tecnologiche di prodotto, ovvero l’immissione sui
mercati di modelli innovativi dei prodotti in uso, o di prodotti innovativi –
si pensi alla telefonia mobile – che mantengono alta la propensione al consumo
e offrono nuove possibilità di occupazione. Ma, come ha scritto Keynes, le
innovazioni tecnologiche di processo si sono susseguite troppo velocemente,
anche nei settori produttivi innovativi, per consentire alle innovazioni
tecnologiche di prodotto di assorbire tutta la forza lavoro che espellevano. La
riduzione del numero degli occupati fa diminuire il numero delle persone con un
reddito in grado di acquistare merci. Pertanto, se le
innovazioni tecnologiche di processo non vengono accompagnate da riduzioni
dell’orario di lavoro, accrescono l’offerta e contribuiscono a ridurre la
domanda. Per evitare che questo squilibrio venga compensato da una
riduzione della produzione che innescherebbe una crisi – la riduzione
della produzione comporta una diminuzione dell’occupazione che a sua volta
determina una riduzione della domanda, per cui occorre ridurre ulteriormente la
produzione – la domanda viene
sostenuta politicamente aumentando i debiti pubblici e incentivando
i debiti privati con opportune agevolazioni fiscali e monetarie. La finalizzazione dell’economia alla
crescita della produzione di merci implica la crescita dell’indebitamento.
Crescita e debito.
Nel breve
periodo l’indebitamento può essere una scelta risolutiva, sia per i bilanci
pubblici, sia per i bilanci privati. Il finanziamento in deficit di opere
pubbliche o di servizi sociali fa crescere la produzione e l’occupazione, per
cui aumenta il gettito fiscale e gli enti pubblici possono ripagare i debiti
che hanno contratto. La crescita della produzione conseguente all’adozione di
tecnologie più performanti acquistate a debito, fa aumentare la produzione, le
vendite e i profitti, per cui le aziende possono ripagare i debiti sottoscritti
per acquistarle. La crescita della spesa pubblica e degli investimenti
produttivi fanno crescere l’occupazione, per cui le famiglie possono saldare i
mutui e i crediti al consumo. Ma può
succedere che i debiti non possano essere pagati: dalle pubbliche
amministrazioni perché i profitti derivanti dall’incremento della produzione
non sono sufficienti ad accrescere il gettito fiscale in misura tale da
compensare le spese in deficit; dalle aziende perché l’aumento dell’offerta di
merci non è assorbito da un’adeguata crescita della domanda, per cui i profitti
non consentono di ammortizzare le spese d’investimento; dalle famiglie se
s’indebitano più di quanto lo consenta l’aumento dei loro redditi.
Quando si
verificano delle insolvenze, se i creditori sono d’accordo, i debiti possono
essere rateizzati con un aumento degli interessi. In questo caso occorrono
quote maggiori del gettito fiscale, dei profitti delle aziende e dei redditi
familiari per pagare le nuove rate più onerose, per cui diminuisce la domanda.
Se invece i debitori non sono in grado di pagare i creditori nemmeno
ristrutturando i debiti, le aziende falliscono e alle famiglie vengono
pignorati i beni acquistati a credito, mentre lo Stato può risolvere il
problema aumentando la richiesta di prestiti ai privati con l’emissione di
Buoni del Tesoro, a tassi d’interesse tanto più alti quanto più alto è il
livello raggiunto dal debito pubblico e il rischio che i sottoscrittori non
possano essere rimborsati.
Di
conseguenza il debito aumenta e, poiché aumenta anche il peso degli interessi,
si può raggiungere la soglia oltre la quale l’avanzo primario di un bilancio
statale – ovvero il saldo positivo tra le entrate e le spese – non è
sufficiente a pagare le rate del debito pubblico, per cui per coprire la
differenza occorre ridurre le spese o aumentare le tasse, con un effetto
depressivo sulla domanda aggregata. Poiché, generalmente, i governi su cui si
scarica l’onere di affrontare questi problemi non sono quelli che li hanno
creati, i governi che deliberano le spese in deficit usufruiscono del consenso
sociale che ne deriva, mentre i governi successivi ne pagano le rate gravate
dagli interessi e ne subiscono le conseguenze negative senza esserne stati
responsabili. In termini generazionali, le
generazioni presenti non pagano tutti i costi di scelte di cui beneficiano,
lasciandone una parte da pagare alle generazioni future, che non ne ricevono
alcun vantaggio.
A questa iniquità sociale, si aggiunge un aumento
dell’impronta ecologica della specie umana sulla biosfera, perché in
conseguenza delle spese in deficit aumenta la domanda di merci, aumenta il
fabbisogno di risorse naturali da trasformare in merci e da utilizzare nei
processi produttivi, aumentano i rifiuti e le sostanze di scarto emesse dai
cicli produttivi in qualche matrice della biosfera. E aumentano le
diseguaglianze tra i popoli, perché un incremento dei consumi di risorse da parte dei Paesi
industrializzati riduce le quantità di risorse disponibili per i Paesi in cui è
ancora significativa l’economia di sussistenza. Chi si propone di promuovere
una maggiore equità sociale e una maggiore compatibilità ambientale non può non
impegnarsi contro l’aumento dei debiti pubblici e per l’adozione di stili di
vita che escludano il ricorso ai debiti per comprare più di quanto non consenta
il proprio reddito.
I debiti sono l’altra faccia della medaglia della
crescita. L’irresponsabilità politica negli anni del boom economico.
La settimana
Incom 30 novembre 1962: Tutti contenti a Firenze.[2]
La nuova
libreria Feltrinelli a Firenze e il deficit dell’amministrazione comunale
Tutti
contenti a Firenze. Il boom della cultura non poteva trovare impreparata la
città di Dante e i fiorentini tra tanti supermercati hanno ora anche il
supermarket della letteratura. Nella nuova libreria Feltrinelli il cliente si
serve da sé, come nei grandi magazzini. Il miracolo economico e le riviste di
arredamento hanno portato i libri sullo stesso piano dei soprammobili e ne
hanno fatto un elemento decorativo. Una macchia di colore per il soggiorno.
Molti si lasciano sedurre dall’etichetta e comprano un libro per la sua
copertina, come se si trattasse di una scatola di pomidoro pelati. I libri
ormai servono a tutto, tranne che ad essere letti. Tra i clienti ce n’è uno
particolarmente soddisfatto: il sindaco La Pira. Forse pensa che qualcuno prima
o poi dovrà risanare il deficit del Comune e questo pensiero lo diverte.
L’assessore alle finanze Mayer ha rivelato che il deficit ammonta a 44 miliardi.
La notizia ha suscitato grande scalpore. L’unico tranquillo e imperturbabile è
il sindaco.
Intervistatore «Come sta la faccenda dei debiti del Comune?»
La Pira «Debiti? Ma guardi l’unica responsabilità che io
ho è di non aver fatto i debiti adeguati per la mia città. Ne vuole una prova?
Milano: al primo gennaio 59 sa quanti debiti aveva? 149 miliardi 350 milioni.
Ne vuole ancora? Torino, al primo gennaio 62, sa quanti ne aveva? 164 miliardi
(negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici, in seguito
inutilizzati, e le infrastrutture, subito smantellate, di Italia 61 per
celebrare il centenario dell’unità d’Italia ndr.)».
Intervistatore «Allora 44 miliardi…».
La Pira «Aspetta, aspè… aspè… Roma, al primo 62, sa quanti ne
aveva? 357 miliardi (negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici,
le infrastrutture viarie e gli impianti per le Olimpiadi del 1960, ndr.). Napoli. Sa quanto? 203 miliardi. Palermo, sempre
al primo, 62 miliardi, e così via.».
Intervistatore «Certo che lei è molto informato sui debiti degli
altri.»
La Pira «Ma io, io sono ragioniere, sa?»
Intervistatore «Come si può rimediare?»
La Pira «A che cosa?»
Intervistatore «Ai debiti.»
La Pira «Ai debiti? Come ai debiti? Rimediare a che cosa?
Scusi i debiti, non è che noi facciamo debiti per feste da ballo, eh?»
Intervistatore «Allora i debiti, ci sono o non ci sono?»
La Pira «Ci sono. Purtroppo sono pochi. Perché noi ne abbiamo
soltanto 39 miliardi».
Intervistatore «Ah, soltanto…».
La Pira «Se fa il confronto con Milano 149, Torino…».
Intervistatore «E allora sono una sciocchezza».
La Pira «Una sciocchezza. Io sono responsabile di una sola
cosa. Di non aver fatto per la mia città i debiti che le altre città hanno
fatto per il loro incremento».
Intervistatore «Grazie».
La Pira «Sono un imbecille».
Ossia è
imbecille chi risparmia (commento del
giornalista che, in realtà, avrebbe dovuto dire: è imbecille chi non fa
debiti).
La crescita progressiva dell’indebitamento pubblico e
privato.
Il divario tra la crescita dell’offerta e una
crescita inferiore della domanda determinato dagli incrementi della
produttività senza riduzioni dell’orario di lavoro, è aumentato
progressivamente con l’introduzione dell’informatica e della robotica nelle
attività produttive. Per cui è aumentata la tendenza dei governi dei Paesi
industrializzati a spendere in deficit per far crescere la domanda, è aumentata
la necessità delle industrie di accendere mutui per acquistare le innovazioni
tecnologiche che si susseguono a ritmo sempre più serrato, è aumentata la
propensione delle famiglie ad acquistare a debito, anche in conseguenza degli
incentivi offerti dal sistema bancario: carte di credito, mutui facili,
rateizzazioni dei pagamenti.
Dal 2000 al
2016 il rapporto tra debito e prodotto interno lordo nei Paesi dell’Unione Europea è salito dal
60,2 all’83,5 per cento. Dal 1995 al 2016, in Italia è salito dal 116 al 132
per cento, in Francia dal 55,8 al 96 per cento, nel Regno Unito dal 45,2
all’89,3 per cento, in Germania dal 54,8 al 68,3 per cento, in Spagna dal 61,7
al 99,4 per cento, in Grecia dal 99 al 179 per cento. Più forti gli aumenti in
Giappone, dove ha raggiunto il 228 per cento, e negli Stati Uniti, dove alla
fine degli anni settanta si attestava intorno al 30 per cento e nel 2016 aveva
raggiunto il 104 per cento del prodotto interno lordo, pari a 20.000 miliardi di
dollari, a cui vanno aggiunti altri 3.125 miliardi di debiti contratti da
singoli Stati e municipalità. Secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale alla
fine del 2015 il debito globale ha raggiunto il valore di 152.000 miliardi di
dollari, pari al 225 per cento del valore monetario della produzione di merci a
livello mondiale, che si è attestato a 77.302 miliardi di dollari. Circa i due
terzi del debito complessivo, pari a 100 miliardi di dollari, sono costituiti
da debiti privati: delle famiglie, per accrescere i loro consumi, e delle
aziende, per effettuare investimenti finalizzati ad aumentare la produttività.
I dati differenti forniti dall’Institute for International
Finance, riportati dal quotidiano della Confindustria, Il Sole 24
ore, oltre a confermare la scarsa attendibilità dei dati su cui si fondano le
scelte economiche, sono ancora più impressionanti: a gennaio 2017 il debito
mondiale avrebbe raggiunto 215.000 miliardi di dollari, pari al 325 per cento
del valore della produzione di merci, di cui 70 – un terzo – accumulato negli
ultimi 10 anni.[3]
In Italia il debito pubblico
eccede i valori degli altri Paesi europei ed è secondo solo alla Grecia, in
conseguenza della decisione, presa nel 1981 dall’allora ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio
Ciampi, di vietare alla Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito
pubblico rimasti invenduti, per evitare il rischio d’inflazione. Il risultato
fu un forte innalzamento degli interessi. In dieci anni il debito pubblico
raddoppiò, salendo dal 60 per cento del Pil nel 1982 al 120 per cento nel 1993.
Nel 2015 il valore del prodotto interno lordo italiano è stato di 1.645 miliardi
di euro, il valore del debito pubblico di 2.173 miliardi di euro, pari al 132,3
per cento del Pil; la somma degli interessi pagati sul debito pubblico è stata
di 70 miliardi di euro, pari al 4,3 per cento del Pil (dati della Banca
d’Italia).
La globalizzazione.
Il divario
tra l’aumento dell’offerta di merci e un più contenuto aumento della domanda è
stato accentuato dalla globalizzazione, ovvero dall’estensione dell’economia di
mercato a livello planetario, in particolare alla Cina e all’India, dove vivono 2,6
miliardi di persone – il 37 per cento della popolazione mondiale – alla Russia,
al Brasile e al Sud Africa. L’apertura
di quei mercati vastissimi era indispensabile per ridare slancio alla crescita
economica dei Paesi di più antica industrializzazione – Stati Uniti, Unione
Europea, Canada e Giappone – e ha consentito alle società multinazionali di
trasferire i loro impianti in Paesi dove i costi della manodopera e le tutele
sindacali sono molto inferiori, gli orari di lavoro più lunghi, le legislazioni
ambientali molto più permissive. I costi di produzione più bassi e il
più intenso sfruttamento dei lavoratori hanno fatto crescere la produzione e i
loro profitti, ma l’occupazione nei Paesi di più antica industrializzazione è
diminuita, facendo diminuire la domanda, che è aumentata nei Paesi in cui sono
state delocalizzate le aziende, ma non in misura tale da assorbire gli
incrementi dell’offerta, a causa dei livelli retributivi più bassi.
L’aumento
della disoccupazione, soprattutto giovanile, nei Paesi europei e la concorrenza
esercitata dai costi e dalle tutele sindacali inferiori in Cina e in India,
hanno ridotto la forza contrattuale dei lavoratori. Di conseguenza le loro
retribuzioni sono diminuite costantemente. Il sociologo del lavoro Luciano Gallino
ha scritto che «tra il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei
paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal
68 a 58 per cento», accentuando la diminuzione della domanda e aumentando le
differenze tra una minoranza sempre più ricca e una percentuale sempre più
ampia di popolazione sempre più povera.[4]
La crisi dei mutui subprime.
La dinamica
costituita da una crescita della produzione di merci che comporta una crescita
dell’offerta sistematicamente superiore alla crescita della domanda, creando un
divario che si cerca di ridurre aumentando progressivamente l’indebitamento
pubblico e privato per sostenere la domanda, prima o poi è destinata a innescare
una crisi da sovrapproduzione. Così è avvenuto con i mutui subprime, a febbraio del 2007 negli Stati Uniti. Le
banche americane concedevano mutui per l’acquisto di case a clienti che esse
stesse avevano classificato nella categoria dei subprime,
i meno affidabili, perché erano falliti, o erano stati pignorati, o non
pagavano con regolarità bollette e rate di prestiti. Per il fatto di essere ad
alto rischio, i mutui subprime erano
gravati da tassi d’interesse superiori a quelli di mercato. Con quei finanziamenti
le banche contribuivano a tenere alti i prezzi e la domanda nel settore
dell’edilizia, evitando che entrasse in crisi. A metà degli anni novanta il 25
per cento dei mutui fondiari erano subprime.
Quando ha
iniziato a crescere il numero dei mutui
non pagati, le case che le banche pignoravano e mettevano in vendita
hanno fatto crescere l’offerta più della domanda, per cui i prezzi del settore
edile sono crollati. Sapendo che questo sarebbe stato l’esito inevitabile della
vicenda, gli istituti di credito si erano tutelati trasformando i loro crediti
nei confronti dei clienti subprime in
obbligazioni subordinate, che avevano rendimenti molto elevati proprio perché
quei mutui erano stati concessi a tassi d’interesse superiori a quelli di
mercato, ma erano molto rischiose perché garantite – si fa per dire – dai mutui
stessi e non dall’istituto di credito. Questi titoli d’investimento, che
vengono definiti derivati, non pagano l’interesse se
le rate del mutuo non vengono pagate e, in caso d’insolvenza, non possono
essere ceduti. La conseguenza è la perdita dei capitali investiti dai risparmiatori
che li hanno acquistati convinti di vederli fruttare senza fare nulla, come
Pinocchio nel Campo dei Miracoli.[5]
Secondo il
Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, la crisi scoppiata nei primi mesi
del 2007 e culminata a settembre del 2008 con la bancarotta di una delle
principali banche del Paese, la Lehman Brothers, è costata quasi 9 milioni di
posti di lavoro e poco meno di 19.200 miliardi alle famiglie. La crisi
dell’edilizia che ne è seguita si è propagata rapidamente a tutti gli altri
comparti produttivi, provocando una recessione più grave, più estesa e più
duratura di quella del 1929. Per fronteggiarla ed evitare il crollo del sistema
creditizio, che avrebbe avuto pesantissime ripercussioni sulle attività
economiche e produttive, gli Stati hanno sostenuto le banche con enormi
contributi di denaro pubblico. Negli
Stati Uniti, in seguito al fallimento della Lehman Brothers il presidente Barak
Obama ha fatto ricorso a un prolungato quantitative easing, che ha
fatto crescere il debito pubblico di 9.300 miliardi di dollari e il
rapporto tra debito e prodotto interno lordo dal 65 per cento a più del 100 per
cento. Una conferma del fatto che la finalizzazione dell’economia alla crescita
richiede un incremento costante dei debiti pubblici.
Distinguere l’austerità dal buongoverno.
A dieci anni dal suo inizio la crisi economica non è
ancora stata superata del tutto, anche se non incide su tutti i Paesi
industrializzati con la stessa intensità. I modi di affrontarla sono stati due,
opposti nelle scelte, ma accomunati dalla stessa finalità di far ripartire la
crescita: l’austerità e l’incremento della spesa pubblica in deficit. L’austerità è stata scelta dalla
destra e si fonda sull’assunto che per far ripartire la crescita occorre prima
di tutto ridurre i debiti pubblici, tagliando le spese e/o aumentando le
entrate, in modo da ridurre l’entità degli interessi da pagare e recuperare
denaro per gli investimenti. In linea di principio non si capisce per quale
ragione una scelta di questo genere debba rientrare nella categoria concettuale
dell’austerità, mentre sembra più attinente a quella del buongoverno. Eliminare
dall’agenda politica la realizzazione di grandi
opere pubbliche che le aziende private, sulla base di accurati
studi di mercato eviterebbero di fare, non è una rinuncia, ma una scelta
ispirata a criteri di saggezza.[6] Risponde
a criteri di saggezza anche la riduzione delle spese
militari, che invece non viene nemmeno presa in considerazione. Basta
pensare che solo il costo del casco
del pilota di un aereo da combattimento F35 costa 2 milioni di dollari, quanto
occorre per ristrutturare energeticamente due grandi edifici scolastici,
riducendo del 70 per cento i loro consumi di combustibili fossili, la spesa di
denaro pubblico necessaria a pagarli e le emissioni di anidride carbonica.
Sempre nella categoria del buongoverno rientra la riduzione degli sprechi che si può ottenere utilizzando tecnologie che
accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse, mentre la riduzione degli
enormi privilegi retributivi di alcune categorie sociali ha anche le
connotazioni dell’equità sociale. Queste scelte non rendono austera la vita a
nessuno.
Si può
definire correttamente austerità la scelta di ridurre il debito pubblico solo
se le spese pubbliche che vengono ridotte comportano peggioramenti nelle
condizioni di vita di categorie sociali che già hanno poco. Sostanzialmente, se
si tagliano le spese dello Stato per i servizi sociali, se ne aumentano i costi
per gli utenti riducendo al contempo le prestazioni, si privatizzano i servizi
pubblici. A maggior ragione se questa austerità mirata va a colpire famiglie in
cui vivono persone che non trovano lavoro, o lo hanno perso a causa della
globalizzazione, o fanno lavori precari, dequalificati e poco pagati.
In Italia
questo compito è stato affidato a Mario
Monti, un economista accademico inserito con ruoli di alta
responsabilità nelle istituzioni finanziarie internazionali e nelle strutture
associative imprenditoriali, più volte commissario europeo, nominato il 9
novembre 2011 senatore a vita dal Presidente della Repubblica e incaricato il
13 di formare un governo tecnico che il 16 novembre aveva già prestato
giuramento. Impossibile non pensare che non fosse un disegno preordinato. E dal
momento che non ebbe una gestazione istituzionale, è facile immaginare dove
l’abbia avuta.[7]
Presentato
dai mass media come colui che avrebbe salvato il Paese dalla gravissima crisi
economica e finanziaria che lo attanagliava, il 4 dicembre Mario Monti
predispose in un decreto, denominato in coerenza con la sua fama, «Salva
Italia», una manovra finanziaria anticrisi che prevedeva un aumento delle
tasse, una riduzione delle spese statali per i servizi pubblici, una forte
riduzione della spesa pensionistica. Nel decreto venne reintrodotta la tassa
sulla prima casa, con un’aliquota più alta di quella precedente e con un
aumento delle rendite catastali. Fu aumentata la tassa rifiuti confermandone la
parametrazione sulla superficie delle abitazioni, per cui in realtà si
configurava come un’integrazione della tassa sulla casa. Venne aumentata l’IVA
ed eliminata la riduzione dell’aliquota sui generi alimentari. Furono ridotti i
trasferimenti dallo Stato agli Enti locali, che erano autorizzati a introdurre
delle addizionali ad alcune tasse statali per compensare la diminuzione dei
loro introiti.[8]
La misura
che scaricò più pesantemente sulle classi popolari il costo della riduzione del
debito pubblico fu la riforma delle pensioni. Dall’anno successivo sarebbe
stata innalzata progressivamente l’età pensionabile, fino a raggiungere i 67
anni entro il 2022, e riparametrata al ribasso l’entità delle pensioni col
passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo.[9] A
5,5 milioni di titolari di pensioni superiori a 920 euro mensili venne bloccata
l’indicizzazione al costo della vita. Nessuna limitazione fu invece applicata
alle pensioni privilegiate di parlamentari, consiglieri regionali, dirigenti
statali e delle aziende partecipate dallo Stato. Dalle misure finalizzate a
risanare il bilancio pubblico furono escluse le imprese, cui venne ridotto il
carico fiscale diminuendo le tasse sul costo del lavoro e l’imposta regionale
sulle attività produttive. E vennero escluse le grandi opere, per le quali il
governo s’impegnava a trovare 40 miliardi di euro tra risorse pubbliche e
private. Appena le misure di risanamento del bilancio statale a spese delle
classi sociali subordinate furono applicate, le destre tolsero il loro appoggio
al governo e il Presidente della Repubblica sciolse anticipatamente le Camere.
Alle
elezioni politiche che si svolsero nel febbraio del 2013, la percentuale più
alta dei voti – il 25,56 per cento – fu raccolta dal Movimento 5 Stelle, un
raggruppamento politico che si presentava per la prima volta, caratterizzandosi
come alternativo a tutti i partiti esistenti. Il partito fondato
dall’ex-presidente del Consiglio per continuare la sua opera di salvezza del
Paese, ottenne appena il 9,1 per cento dei voti e cominciò subito a
sbriciolarsi. La sua opera di salvezza non portò frutti né in termini di
rilancio dell’economia, né in termini di crescita dell’occupazione, che anzi
continuò a diminuire, né in termini di riduzione del debito pubblico. In
compenso lasciò il retaggio di una diffusa e profonda sofferenza sociale. Nel
2012 il prodotto interno lordo diminuì del 2,4 per cento rispetto al 2011 e nel
2013 di un ulteriore 1 per cento rispetto al 2012. Il tasso di disoccupazione,
che nel 2011 era stato dell’8,4 per cento, nel 2012 salì al 10,7 per cento. Tra
i giovani (15-24 anni) crebbe di 6,2 punti percentuali, arrivando al 35,3%, con
un picco del 49,9% per le giovani donne del Mezzogiorno. Il tasso di
occupazione scese di due decimi di punto rispetto all’anno precedente e ai
minimi dal 2000, attestandosi al 56,8%. Nel 2013 il tasso di
disoccupazione aumentò ulteriormente, raggiungendo il 12,2 per cento. Tra i
giovani arrivò al 42,24 per cento. In valori assoluti il numero dei disoccupati
fu di circa 3,3 milioni di persone.
Nel Regno
Unito il primo ministro conservatore David
Cameron nei cinque anni del suo primo incarico, dal 2010 al 2015,
tagliò la spesa sociale dal 23 al 21 per cento del prodotto interno lordo,
creando uno scontento sociale che pagò nel 2006 con la sconfitta al Referendum
sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Un Referendum che
aveva promosso egli stesso, convinto di vincerlo e di rafforzare col sostegno
del consenso popolare la sua scelta di restare, mentre gli strati sociali
penalizzati dalla riduzione delle spese sociali, dalla disoccupazione e dalla
precarietà sul lavoro, videro nella scelta di restare una continuità con le
scelte di politica economica e sociale che avevano peggiorato le loro
condizioni di vita. Il primo ministro subentrato in seguito alle sue
dimissioni, Theresa May, esponente dello stesso Partito Conservatore, nel
discorso d’insediamento dimostrò di aver capito la lezione impegnandosi a
cambiare strada rispetto al suo predecessore: «Il Referendum ha fatto emergere
una nazione spaccata in due, in cui vi sono i ricchi e i poveri, gli ignoranti
e gli istruiti, gli avvantaggiati e gli svantaggiati dalla globalizzazione […]
Chi nasce povero vive in media nove anni di meno, le donne guadagnano meno
degli uomini, chi frequenta la scuola pubblica ha meno possibilità di chi
studia in una scuola privata. […] Sotto la mia guida il Partito Conservatore si
metterà al servizio della gente comune, dell’ordinary working people». Non deve
essere stata molto persuasiva se undici mesi dopo, alle elezioni politiche
anticipate che aveva voluto nella convinzione di rendere più ampia la
maggioranza risicata del suo partito in Parlamento, invece di rafforzarla l’ha
persa perdendo 12 seggi, mentre il Partito Laburista, tornato a sinistra sotto
la guida di Jeremy Corbyn dopo la svolta a destra di Tony Blair, ne ha
guadagnati 30 presentando un programma politico contrario all’austerità, che ha
fatto presa soprattutto tra i giovani.
Le iniquità sociali e l’incompatibilità ambientale dei
debiti pubblici.
Per superare
la crisi, la sinistra non geneticamente modificata ha scelto di seguire la
strada indicata da John Maynard Keynes,
il più importante economista del novecento, che non era di sinistra, ma un liberale scettico sulle capacità autoregolatrici del mercato
nelle fasi in cui il suo normale funzionamento s’inceppa. Nelle società
pre-industriali le crisi erano causate dalla scarsità della
produzione agricola che poteva verificarsi di tanto in tanto in conseguenza di
eventi meteorologici eccezionali. Nelle società industriali sono causate invece
dalla sovrabbondanza dell’offerta di merci. Se l’offerta
di merci eccede la domanda espressa dal mercato e rimane in parte invenduta, le
aziende devono ridurre la produzione e licenziare una parte dei loro
dipendenti. I dipendenti licenziati rimangono senza reddito, per cui la domanda
diminuisce, le aziende devono ridurre ulteriormente la produzione e licenziare
altri dipendenti. Per arrestare questa spirale, Keynes, infrangendo il
caposaldo del liberismo, sostenne che gli Stati dovevano aumentare la spesa
pubblica indebitandosi. Non sarebbe bastato che spendessero di più aumentando
il prelievo fiscale, perché in questo modo sarebbe aumentata la domanda
pubblica, ma sarebbe diminuita quella privata. Per far crescere la domanda
aggregata occorreva che gli Stati commissionassero opere pubbliche e
potenziassero i servizi sociali oltre le capacità di spesa consentite dalle
loro entrate. L’aumento della domanda statale in deficit avrebbe rimesso in moto
le attività produttive e avrebbe fatto crescere il numero degli occupati, che
con i loro redditi avrebbero fatto crescere ulteriormente la domanda, le
attività produttive e gli occupati. L’aumento dei profitti e dei redditi
avrebbe aumentato il gettito fiscale e gli Stati avrebbero potuto pagare le
rate dei prestiti contratti per rimettere in moto l’economia. Perché aspettare
la riduzione dei debiti pubblici per recuperare il denaro necessario a
effettuare gli investimenti, come sostiene la destra, mentre l’aumento dei
debiti pubblici consente non solo di riavviare molto più in fretta il ciclo
economico, ma anche di ridurre la sofferenza sociale invece di acuirla, di
migliorare le condizioni di vita degli strati sociali più poveri invece di
peggiorarle? Anche da un punto di vista economico è più vantaggioso ridurre il
rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo aumentando il
prodotto interno lordo invece di ridurre il debito.
La maggiore
equità di questa strategia sostenuta dalla sinistra rispetto a quella
dell’austerità sostenuta dalla destra è comunque finalizzata, come quella della
destra, a rilanciare la crescita economica e i suoi effetti si limitano alle
generazioni attuali dei Paesi sviluppati e di
quelli che si stanno sviluppando sul
loro modello. Ma se aumenta la
produzione di merci grazie alla spinta che il sistema produttivo riceve dai
debiti pubblici e privati, aumenta il fabbisogno di risorse e di energia,
aumentano le emissioni di anidride carbonica e l’effetto serra, aumentano le
sostanze di scarto che si accumulano nella biosfera, aumenta il consumo di
concimi di sintesi che riducono la fertilità dei suoli, si accelera la
diminuzione della fauna ittica negli oceani. Si aggravano tutti i
fattori della crisi ambientale, si lascia alle generazioni future un mondo
impoverito di risorse e inquinato, aumentano le sofferenze che la specie umana
infligge alle altre specie viventi e che, in conseguenza dei legami che
connettono tra loro tutte le forme di vita, ritornano come sofferenze sulla
specie umana. Specialmente sui popoli poveri e sulle classi sociali più povere
dei popoli ricchi. La ricerca di una maggiore equità limitata alle generazioni
attuali della specie umana, a scapito delle generazioni future e delle altre
specie viventi finisce paradossalmente con aumentare le iniquità che si propone
di ridurre.
Ciò di cui i keynesiani di oggi sembra non si
rendano conto è che rispetto agli anni trenta del secolo scorso il rapporto tra
tecnosfera e biosfera è completamente cambiato: la concentrazione di anidride
carbonica nell’atmosfera è passata dal valore di 270 parti per milione, in cui
si era stabilizzata da 800 mila anni fino all’inizio del secolo scorso, alle
410 parti per milione registrate all’inizio di questo secolo, innescando una
mutazione climatica di cui si stanno appena sperimentando le prime conseguenze; l’overshoot day, il giorno in cui
l’umanità arriva a consumare tutte le risorse rinnovabili che la biosfera
genera in un anno, è sceso al 2 di agosto; negli oceani galleggiano masse di
poltiglia di plastica vaste come continenti; i ghiacci dell’Artico si sono
ridotti del 38 per cento dal 1979 a oggi, la popolazione mondiale è passata da
2 a 7 miliardi; la fertilità dei suoli agricoli è diminuita; la fauna ittica è
stata dimezzata. I margini di espansione dell’economia che c’erano negli anni
in cui Keynes ha elaborato la sua teoria non ci sono più. E non ci sono nemmeno
i margini per una stabilizzazione nella situazione attuale. Per non andare incontro al collasso,
l’umanità deve ridurre la sua impronta ecologica.
Per una riconversione economica dell’ecologia.
Chi pone
come obbiettivi al suo impegno politico la compatibilità ambientale e un’equità
sociale estesa alle generazioni future e alle altre specie viventi, non può non
valutare positivamente la scelta dell’Unione europea di porre dei limiti ai
debiti e ai deficit pubblici degli Stati aderenti, deliberata a
Maastricht nel 1992. Senza entrare in una valutazione di merito sui valori
stabiliti, rispettivamente il 60 e il 3 per cento dei prodotti interni lordi,
né sulle successive misure adottate per renderli vincolanti, perché
richiederebbero una trattazione specialistica che esula da queste riflessioni,
la riduzione dei debiti pubblici, che alcuni economisti ritengono controproducente
per superare la crisi economica, è indispensabile per contrastare
l’aggravamento della crisi ecologica.[10] Può
darsi che i valori fissati a Maastricht non siano stati calcolati col dovuto
rigore scientifico, può darsi che le procedure d’infrazione per gli Stati che
non li rispettano implichino un cedimento di parte della sovranità nazionale,
può darsi che l’inserimento in Costituzione del pareggio in bilancio sia
inopportuno, ma se gli Stati spendono ogni anno più di quanto incassano
col prelievo fiscale attivano un surplus di domanda che consente al sistema
produttivo di continuare a produrre quantità crescenti di merci, per cui tutti
i fattori della crisi ecologica continueranno ad aggravarsi: le emissioni di
anidride carbonica e le loro concentrazioni in atmosfera continueranno a
crescere, il consumo delle risorse rinnovabili continuerà ad eccedere la
capacità di rigenerazione annua della biosfera e l’overshoot day ad anticipare
progressivamente, la fertilità dei suoli e la biodiversità continueranno a
ridursi, le masse di poltiglie di plastica che fluttuano in tutti gli oceani
continueranno ad estendersi e le popolazioni ittiche continueranno a diminuire,
le quantità di rifiuti e le malattie mortali causate dall’inquinamento
continueranno ad aumentare, l’acqua scarseggerà sempre di più, le tensioni
internazionali e le guerre per il controllo delle materie prime necessarie alla
crescita si accentueranno.
Nell’attuale
epoca storica il problema fondamentale che i Paesi industrializzati devono
risolvere è l’elaborazione di una politica economica e industriale in grado di
conciliare due esigenze apparentemente antitetiche: la riduzione dell’impronta
ecologica dell’umanità e l’aumento dell’occupazione in attività utili, non
finalizzate alla crescita economica. La strada da percorrere è lo sviluppo di
innovazioni tecnologiche che riducono gli sprechi e aumentano l’efficienza nei
processi di trasformazione delle risorse in beni, perché, se si riduce il
consumo di risorse per unità di prodotto, non solo si riduce l’impatto
ambientale, ma si risparmia del denaro con cui si possono pagare i costi
d’investimento di queste tecnologie. Si mette in moto un circolo virtuoso che
fa crescere la domanda e l’occupazione senza aggravare i debiti pubblici e i
debiti privati delle aziende e delle famiglie. L’occupazione che si crea in
questo modo non solo aumenta l’equità tra gli esseri umani viventi, ma riduce
l’impatto ambientale delle loro attività e rende il mondo più bello e ospitale
anche per le generazioni a venire. Le potenzialità di queste tecnologie sono
molto più ampie di quanto generalmente si crede. Per svilupparle appieno
occorre uno slancio progettuale di portata non inferiore a quello che ha dato avvio
alla prima rivoluzione industriale.
L’impegno principale deve essere rivolto alla
riduzione degli sprechi e all’aumento dell’efficienza dei processi di
trasformazione energetica, che nei Paesi tecnologicamente avanzati può
consentire di ridurre del 70 per cento i consumi di energia alla fonte senza
comportare una diminuzione dei servizi finali. Ne deriverebbero: una drastica
riduzione delle emissioni di anidride carbonica e dell’effetto serra; una
drastica riduzione delle tensioni internazionali e delle guerre per il
controllo delle fonti energetiche fossili; una drastica riduzione delle spese
energetiche dei consumatori finali – famiglie, aziende, pubbliche
amministrazioni.[11] E se
si spende di meno per avere gli stessi servizi energetici, si può lavorare di
meno e dedicare più tempo alle relazioni umane, alla creatività, allo studio
disinteressato, alla contemplazione della bellezza.
In Svizzera sono stati
realizzati i primi quartieri di abitazioni e servizi in cui le tecniche
costruttive e l’efficienza degli impianti consentono di soddisfare i consumi
energetici degli abitanti con una potenza continua pro-capite di 2.000 watt,
che corrisponde, grosso modo, alla media degli anni sessanta. Attualmente si
superano i 5.000 watt, meno della metà della potenza pro-capite negli Stati
Uniti, ma ben più della media africana, che è di 500 watt. L’obbiettivo di una
società a 2.000 watt, elaborato da alcuni ricercatori del Politecnico di
Zurigo, è stato assunto dall’Ufficio federale dell’energia. 2.000 watt
corrispondono a un consumo annuo di circa 17.500 kilowattora di elettricità o
di 1.700 litri di petrolio. Oggi, la media mondiale è
di circa 2.500 watt.
In Italia per riscaldare gli edifici nei mesi invernali
si consumano mediamente 200 kilowattora al metro quadrato all’anno (circa 20
litri di gasolio o 20 metri cubi di metano). In Germania non è consentito
superare un consumo di 70 chilowattora al metro quadrato all’anno, un terzo della media italiana, ma
gli edifici più efficienti, quelli che rientrano nello standard delle «case
passive» non devono superare i 15 chilowattora al metro quadrato all’anno e
devono essere coibentati in modo così efficiente da non avere bisogno di un
impianto di riscaldamento. Se al centro della politica economica e industriale
del nostro Paese si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio
edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze
al livello dei peggiori edifici tedeschi, i consumi per il riscaldamento si
ridurrebbero dei due terzi. Poiché gli edifici assorbono per il solo
riscaldamento invernale un terzo dei consumi totali di energia alla fonte,
quanta ne brucia tutto l’autotrasporto nel corso di un anno, si ridurrebbero
del 20 per cento sia le importazioni di fonti fossili, sia le emissioni di
anidride carbonica. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa
decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi
d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.
Un incentivo
all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza contributi di denaro pubblico, può essere
costituito dall’uso delle forme contrattuali che dovrebbero caratterizzare
le energy service companies – esco : società
energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi
di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli
impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici e degli
impianti ristrutturati si impegnano a pagare per i loro consumi energetici la
stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione, per un numero di anni
fissato al momento del contratto. Per la durata del contratto le esco incassano i risparmi economici conseguenti ai
risparmi energetici che riescono a ottenere. Al termine del contratto il
risparmio economico va a beneficio del cliente. La durata degli anni necessari
a recuperare gli investimenti è inversamente proporzionale all’efficienza
ottenuta. La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto
l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché,
essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se
la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici
inferiore a quella che ha calcolato, incassa meno denaro di quello che ha
previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.
Il circolo
economico virtuoso descritto può trovare un volano decisivo in una sorta di
patrimoniale energetica sugli immobili, che può essere gestita in due modi. O
il proprietario dell’immobile paga la patrimoniale e lo Stato la utilizza per
ristrutturarlo energeticamente, restituendo ogni anno al proprietario
l’equivalente del risparmio economico conseguente al risparmio energetico fino
all’estinzione della tassa pagata, oppure il proprietario dell’immobile, invece
di pagare la tassa fa eseguire in proprio la ristrutturazione energetica e
incassa direttamente i risparmi, fornendo allo Stato la documentazione delle
spese sostenute e dei risparmi annuali ottenuti.
Un altro settore strategico dove l’ammortamento
degli investimenti necessari a ridurre gli sprechi si può pagare con i risparmi
economici che ne conseguono, senza contributi di denaro pubblico, è
la gestione dell’acqua potabile. In Italia le reti idriche perdono mediamente il 65 per cento dell’acqua
pompata dal sottosuolo e depurata. I cambiamenti climatici in corso sono
caratterizzati dall’alternanza di periodi sempre più lunghi di siccità in
estate e di piogge torrenziali in autunno. Di conseguenza, nei periodi estivi
di siccità le perdite degli acquedotti stanno creando problemi alla fornitura
di acqua nelle aree urbane. La sostituzione delle tubazioni delle reti idriche
costituisce pertanto una misura indispensabile non solo per ridurre uno spreco
di energia e denaro senza senso, ma anche per continuare a fornire un servizio
indispensabile per il benessere e l’igiene di decine di milioni di persone.
Invece, pur essendo conosciuta da anni la gravità di questo problema, non si è
fatto nulla per risolverlo, mentre si è preferito, incomprensibilmente,
finanziare opere di utilità quanto meno dubbia e certamente dannose per gli
ambienti, che non consentiranno mai di recuperare gli investimenti effettuati
per realizzarle: dal treno ad alta velocità in Valdisusa,
agli inceneritori, a strade e autostrade su cui transita un numero irrisorio di
autoveicoli, ai gasdotti per aumentare la fornitura di energia che si spreca
invece di realizzare le opere edili necessarie a ridurre gli sprechi di
energia, alle spese per sistemi d’arma che non hanno una funzione difensiva, ma
chiaramente offensiva, sebbene la nostra costituzione ripudi le guerre di
aggressione, al pretesto ricorrente di manifestazioni sportive internazionali
per realizzare grandi opere che non verranno più utilizzate in seguito. Se si
pensa alle spese aggiuntive che si sostengono per occupare militarmente la
Valle di Susa allo scopo di imporre la realizzazione di una linea ferroviaria
ad alta velocità non giustificata dalle analisi dei flussi di traffico nei
prossimi decenni, anche la persona più razionale non può non pensare a
un’influenza di forze oscure che incombono sul futuro dell’umanità.
Le stesse dinamiche si verificano nella gestione
degli oggetti dismessi. Il
recupero e la riutilizzazione dei materiali che contengono è certamente più
conveniente economicamente e meno dannosa ambientalmente delle metodologie che
vengono utilizzate per renderli definitivamente inutilizzabili: l’interramento
e l’incenerimento. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso
degli oggetti conferiti alle discariche o agli inceneritori, meno se ne portano
e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime
secondarie contenute negli oggetti dismessi occorre venderle. Più se ne vendono
e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri occorre effettuarne una raccolta
differenziata molto accurata che ne consenta il riciclaggio e il riutilizzo. La
vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi
consente pertanto di creare un’occupazione utile; di pagarne i costi con i
risparmi conseguiti nello smaltimento e con i guadagni ottenuti dalla
vendita, senza contributi di denaro pubblico; per non parlare
della riduzione dell’impatto ambientale dei rifiuti, attraverso la riduzione di
uno spreco inammissibile tecnologicamente.
La decrescita selettiva degli sprechi è
l’unica via d’uscita da una crisi che da troppo tempo genera problemi al
sistema economico e sofferenze umane gravissime. L’assurdità della situazione
che stiamo vivendo è dimostrata dal fatto che, mentre il numero dei disoccupati
ha raggiunto livelli inaccettabili, non si fanno una serie di lavori che
sarebbe indispensabile fare per ridurre la crisi economica, ridurre la crisi
ambientale e migliorare la qualità della vita. Una società che non fa lavorare
chi vorrebbe farlo e contemporaneamente non commissiona i lavori più necessari,
che pagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è
profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo
scopo dell’economia sia la crescita del prodotto interno lordo. Prima ce
ne libereremo e meglio sarà.
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