Se compilassimo una lista delle prime 100
realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le
multinazionali in base ai loro fatturati, scopriremmo che 66 sono
multinazionali. La prima comparirebbe al 10° posto e sarebbe Wal-Mart con un
fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative
di Paesi come Spagna, Australia, Russia, India. Lo rende noto il Centro Nuovo
Modello di Sviluppo, tramite il dossier Top 200 dedicato alle
prime 200 multinazionali
(http://www.cnms.it/attachments/article/184/top200-2017.pdf.).
In totale, le multinazionali – o meglio i
gruppi multinazionali, visto che si tratta di raggruppamenti di imprese
afferenti a una stessa società capofila – sono 320 mila per un numero
complessivo di oltre un milione di filiali. Tutte insieme fatturano 132 mila
miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in
certi settori (come i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio) sono i
protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia
mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo mondiale e
che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale
i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di
persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionale
qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica,
ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al
pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le
multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di
euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200
gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali.
E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea,
statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese.
Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti
con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo.
Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché
sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una
doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico
ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono
banche e fondi di investimento di ogni Paese del mondo. Tanto per confermare,
ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25
gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi
multinazionali.
Una volta Louis Brandeis, membro della Suprema
Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939, disse che possiamo avere la
democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo
avere entrambe le cose. E la realtà sembra dargli ragione. Democrazia significa
comando di popolo ma indagini più accurate ci dicono che parlamenti e governi
ricevono forti pressioni da parte del mondo delle imprese affinché siano varati
provvedimenti a loro graditi. Spesso con successo. L’attività di pressione è
definita lobby, termine inglese che indica i locali antistanti le sale di
riunione di parlamentari e ministri, spazi di attraversamento che in passato
venivano utilizzati dai difensori di interessi particolari per avvicinare i
politici e convincerli a sostenere le loro cause.
Oggi l’attività di lobby non è più
improvvisata, ma talmente organizzata da essere istituzionalizzata. Sia negli
Stati Uniti che nell’Unione Europea è stato istituito un registro dei lobbisti
nel quale debbono iscriversi tutte quelle realtà che intendono svolgere
attività di lobby, potendo godere di una serie di vantaggi come l’accesso ai
palazzi istituzionali e la possibilità di relazionarsi con parlamentari e
funzionari. Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25 mila lobbisti per una
spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro incanalata in forme di
rappresentanza di varia natura. Le imprese più grandi ovviamente dispongono di
propri apparati come mostrano Exxon e Shell che nel 2016 hanno speso entrambe 5
milioni di euro, senza dimenticare Microsoft, Deutsche Bank, Dow, Google,
Total, tutte sopra i 3 milioni di euro. Ma oltre che tramite i propri uffici,
le imprese svolgono attività di lobby anche tramite associazioni di categoria e
agenzie specializzate. Fra le prime possiamo citare CEFIC, associazione europea
dell’industria della chimica con 48 lobbisti e 12 milioni di spesa nel 2016;
EFPIA, associazione europea dell’industria farmaceutica con 15 lobbisti e 5 milioni
e mezzo di spesa; Business Europe, associazione degli industriali a livello
europeo con 30 lobbisti e 4,25 milioni di spesa; ISDA, associazione
internazionale per i derivati finanziari con 5 lobbisti e 2,7 milioni di spesa.
Fra le agenzie invece possiamo citare studi legali come Fleishman-Hillard,
Burson-Martsteller, Interel European Affairs, tutti con spese per lobby di
livello milionario.
Purtroppo il sistema delle lobby non è l’unica
via che permette alle imprese di esercitare potere sulla politica. L’altro
canale, forse ancora più potente, è quello dei finanziamenti. Da quando la
gente si è allontanata dalla politica, trasformandola in un affare privato di
pochi professionisti che hanno bisogno di una montagna di soldi per farsi
conoscere e convincere gli elettori della bontà del proprio programma come se
fosse un prodotto da vendere, il ruolo delle imprese è diventato cruciale
perché i soldi ce li hanno loro. Il Paese che meglio mette in evidenza
l’avanzare dell’impresacraziasono gli Stati Uniti che almeno hanno il
merito della trasparenza. Dai dati forniti da Open Secrets si apprende che la
somma messa in campo dalle imprese statunitensi per condizionare la politica
nel 2016 ha raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 351 milioni per
contributi diretti ai partiti.
Il comando del popolo sta cedendo terreno al
comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno
della partecipazione.
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