Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di
recente fatto con mio figlio.
È notte. Mentre spedisco questo racconto di viaggio, leggo online i primi
risultati delle elezioni a Hong Kong: una consultazione di carattere locale che
ha assunto rilievo mondiale, e il cui esito esprime con nettezza il sentimento
dell’intera città.
In questi giorni, le immagini e le storie di Hong Kong che ho trovato
online, in tv e sui giornali mi hanno spezzato il cuore. Per questo ho fatto
fatica – davvero tanta – a scrivere della città così come l’ho vista meno di
due mesi fa, quando molte cose terribili dovevano ancora succedere. E quando
molte cose forse sarebbero potute ancora andare in modo diverso.
Proprio per questo, credo, ha senso ricordare com’era la situazione, e
com’è il contesto. Ho cercato di essere equilibrata e onesta nella narrazione.
È solo un minuscolo tassello di una storia che è ancora in pieno sviluppo, e di
cui è difficile prevedere la conclusione.
Esercizio di memoria
Il treno corre da Guilin verso Hong Kong sotto un cielo plumbeo, attraverso una distesa di risaie altrettanto plumbee, separate da argini erbosi e filari d’alberi. Quello che vedo è suggestivo, ma faccio fatica a prestargli attenzione.
Il treno corre da Guilin verso Hong Kong sotto un cielo plumbeo, attraverso una distesa di risaie altrettanto plumbee, separate da argini erbosi e filari d’alberi. Quello che vedo è suggestivo, ma faccio fatica a prestargli attenzione.
Sto tornando a Hong Kong dopo 42 anni. Ci sono stata nel 1977, al termine
del mio primo, squattrinato, inconsapevole, avventuroso viaggio
intercontinentale tra la Thailandia e le Filippine. È passato un sacco di tempo
e mi sento piuttosto strana: mio figlio, che viaggia con me, ha più o meno
l’età che avevo allora. Potrei perdermi in una contorta fantasticheria sul
tempo che passa, e su quanto, invecchiando, si resta, o meno, riconoscibili a
se stessi. Mi sembra però più sano dirottare l’esercizio di memoria da me alla
mia meta, così come mi è apparsa tanti anni fa, rinnovando una pratica che, in
questo viaggio, ho preso l’abitudine di compiere a ogni ritorno in un posto già
conosciuto.
Fuori dal finestrino, intanto: risaie, risaie, risaie.
Il primo ricordo che recupero di Hong Kong è l’assoluta, impressionante
verticalità della città: a parte il Pirellone di Milano, fino ad allora non
avevo mai visto un grattacielo – un vero grattacielo – da vicino. Il secondo
ricordo è una grande via molto illuminata e piena di negozi, gelidi d’aria
condizionata, zeppi di quelle che mi erano sembrate merci meravigliose ed
esotiche: lacche, giade, abiti e camicie di seta ricamate di peonie e draghi.
E poi: la sensazione che ci fossero, a partire dalla grande via illuminata,
tre diverse città, una innestata nell’altra. La prima, opulenta e luccicante:
quella che mi si parava davanti. La seconda, trasversale, mi si rivelava non
appena provavo ad avventurarmi nel groviglio delle vie retrostanti: ressa,
venditori di cibo da strada e di amuleti, fumo, odori pungenti, straniamento e
un vago senso di allarme. La terza, verticale, si dispiegava non appena alzavo
lo sguardo dalle luci e dal caos delle strade verso i piani superiori degli
edifici, per la maggior parte cupi e sgangherati, con teli di plastica laceri e
grappoli di condizionatori altrettanto sgangherati appesi fuori delle finestre
buie.
E ancora: la baia di Kowloon, brulicante di barche gremite di persone e di
pentole, fornelli, ceste, fagotti e bambini. E il fatto di aver mangiato
serpente (l’ho capito dopo, al primo sguardo sembrava anguilla) in un
ristorante abbastanza sordido, dove al primo piano di un edificio in una delle
sale, in una densissima nuvola di fumo di tabacco e con gran baccano di tessere
sbattute sul tavolo, un gruppo di uomini giocava a mah
jong.
C’è un altro fatto che distoglie la mia attenzione dalle risaie che
scorrono oltre il finestrino.
Nei giorni passati e durante l’intera nostra permanenza in Cina, da tutti i
televisori negli spazi comuni degli alberghi, costantemente accesi sui canali
cinesi in inglese, mio figlio e io abbiamo visto servizi volti a denunciare le
proteste che da mesi agitano Hong Kong (qui la cronologia del South China Morning Post,
qui Amnesty international). “Sono pochi teppisti
facinorosi, pilotati da potenze straniere”, ripetevano le fonti governative. E
sostenevano la loro tesi contrapponendo ai manifestanti mascherati le accorate
testimonianze di bravi cittadini, indignati per il disturbo della quiete
pubblica e il caos. Abbiamo ritrovato gli stessi identici contenuti sui
giornali cinesi in lingua inglese distribuiti gratuitamente sui treni o negli
aeroporti. È chiaro che il governo cinese trova intollerabili le proteste, e
che sui giornali cinesi la propaganda è con ogni probabilità ancora più
intensa. È altrettanto chiaro che la situazione è complicata.
Regioni amministrative speciali
Appena arriviamo in stazione dobbiamo superare nuovamente i controlli doganali e procurarci un po’ di dollari di Hong Kong per accedere alla metropolitana. Come Macao, Hong Kong è una regione amministrativa speciale: rispetto alla Cina, sono diversi i passaporti e la moneta, il sistema economico, le leggi e le regole. Alla fine dell’ottocento, la Cina ancora governata dalla dinastia Qing, aveva ceduto Hong Kong al Regno Unito con un contratto di affitto (concessione) della durata di 99 anni. Alla scadenza della concessione, nel 1997, l’isola sarebbe tornata sotto la sovranità cinese. E così è successo. La transizione, delicatissima, è stata preceduta da un’interminabile serie di trattative, che hanno trovato un punto di svolta, e poi di accordo, nella logica “un paese, due sistemi” ideata e proposta da Deng Xiaoping, e negoziata con Margaret Thatcher. Si è trattato di un’invenzione politica che ha reso gestibile, almeno per un po’ di tempo, un problema in apparenza irresolubile.
Appena arriviamo in stazione dobbiamo superare nuovamente i controlli doganali e procurarci un po’ di dollari di Hong Kong per accedere alla metropolitana. Come Macao, Hong Kong è una regione amministrativa speciale: rispetto alla Cina, sono diversi i passaporti e la moneta, il sistema economico, le leggi e le regole. Alla fine dell’ottocento, la Cina ancora governata dalla dinastia Qing, aveva ceduto Hong Kong al Regno Unito con un contratto di affitto (concessione) della durata di 99 anni. Alla scadenza della concessione, nel 1997, l’isola sarebbe tornata sotto la sovranità cinese. E così è successo. La transizione, delicatissima, è stata preceduta da un’interminabile serie di trattative, che hanno trovato un punto di svolta, e poi di accordo, nella logica “un paese, due sistemi” ideata e proposta da Deng Xiaoping, e negoziata con Margaret Thatcher. Si è trattato di un’invenzione politica che ha reso gestibile, almeno per un po’ di tempo, un problema in apparenza irresolubile.
Hong Kong e Macao sono entrambe ex insediamenti europei in territorio
cinese e si trovano a un’ora circa di traghetto di distanza una dall’altra, sul
delta del Zhu jiang, il fiume delle Perle. Dal 2018 sono anche collegate dal
ponte più lungo del mondo, esteso complessivamente per 55 chilometri (la parte
centrale del ponte, lunga quasi 23 chilometri, è composta da un tunnel
sottomarino di sei chilometri e due isole artificiali. Costruita in soli nove
anni su un difficilissimo fondo fangoso, è costata circa sette miliardi e mezzo
di dollari: meno del Mose a Venezia).
Ma torniamo a Hong Kong e Macao: le due aree hanno un identico status
giuridico, tuttavia le loro condizioni sono profondamente differenti. Anche se
è diventata anch’essa regione amministrativa speciale solo nel 1999, l’ex area
portoghese di Macao è entrata nell’orbita cinese già alla metà degli anni
sessanta, man mano che diminuiva l’interesse del Portogallo per gli
insediamenti d’oltremare. Oggi Macao è la capitale
mondiale del gioco d’azzardo, ed è l’unico luogo della Cina dove
questa attività è legale. Prospera sulla crescita vertiginosa del turismo dei
giocatori, soprattutto cinesi, e già nel 2007 ha superato Las Vegas per
volume d’affari.
Hong Kong è tutta un’altra storia, molto più complessa. È stata una colonia
britannica e una città-stato per più di 150 anni e conserva una profonda
impronta linguistica e culturale anglosassone. A partire dagli anni cinquanta
si è sviluppata grazie all’industria manifatturiera e alla finanza, agli
investimenti stranieri incoraggiati dal basso costo del lavoro, a un
consistente miglioramento del livello medio dell’istruzione, al libero
commercio e alle esportazioni. Così, è diventata la prima della quattro “tigri
asiatiche”, riuscendo a superare il livello medio di reddito del
Regno Unito. Un fatto mai successo in una ex colonia.
Oggi l’isola è governata dalla basic law, modellata
sui princìpi legislativi anglosassoni: è uno dei lasciti più significativi della
colonizzazione britannica. Di fatto, si tratta di un insieme di norme che ha
valore costituzionale, assegna un alto grado di autonomia al sistema
legislativo, esecutivo e giudiziario locale e garantisce, tra le altre cose,
libertà di parola, di stampa e di associazione. La politica estera e la difesa
fanno invece capo al governo cinese centrale. L’interpretazione della basic law
è però controversa. E la condizione di autonomia non è comunque permanente.
L’incognita successiva al 2047
Le controversie riguardano l’essenza stessa del criterio “un paese, due sistemi” istituito da Deng: la Cina pone l’accento su “un paese”, e sostiene che l’interesse nazionale della Cina sia da ritenersi comunque e in ogni caso prevalente. A Hong Kong, invece, si pone l’accento sul fatto che i “due sistemi” vadano tutelati nella sostanza e in tutte le loro implicazioni, libertà individuali comprese. La logica “un paese, due sistemi” dovrebbe, secondo i patti, concludersi nel 2047. In una visione di breve periodo, il 2047 è tra un sacco di tempo. In una visione di lungo periodo – ed è questa la visione cinese – il 2047 è praticamente dopodomani. Nessuno ha ancora detto esplicitamente che cosa succederà dopo quella data.
Le controversie riguardano l’essenza stessa del criterio “un paese, due sistemi” istituito da Deng: la Cina pone l’accento su “un paese”, e sostiene che l’interesse nazionale della Cina sia da ritenersi comunque e in ogni caso prevalente. A Hong Kong, invece, si pone l’accento sul fatto che i “due sistemi” vadano tutelati nella sostanza e in tutte le loro implicazioni, libertà individuali comprese. La logica “un paese, due sistemi” dovrebbe, secondo i patti, concludersi nel 2047. In una visione di breve periodo, il 2047 è tra un sacco di tempo. In una visione di lungo periodo – ed è questa la visione cinese – il 2047 è praticamente dopodomani. Nessuno ha ancora detto esplicitamente che cosa succederà dopo quella data.
I controlli doganali per entrare a Hong Kong sono rapidi e molto
efficienti. Prendiamo la metropolitana e arriviamo in centro trascinando le
valigie su e giù per le scale mobili (come al solito mi tocca trottare dietro a
mio figlio). La ragazza dietro il bancone dell’albergo ci accoglie con un
perfetto inglese dall’accento britannico. Usciamo per cenare. È fine agosto, ha
appena smesso di piovere e la serata è calda e afosa. L’asfalto luccica di
insegne riflesse: sembra di essere sul set di un film di avventure esotiche o
di spie. Del resto, la lista dei film ambientati a Hong Kong è
impressionante.
Svoltiamo per un paio di strade secondarie e mi trovo di fronte a una
perfetta epifania. Ovvio: quella che ricordo così bene è Nathan road, la via
principale di Kowloon, e non è così cambiata, se si esclude il fatto
che i negozi non vendono più pregiate merci cinesi, ma i grandi marchi globali
della moda. A essere sostanzialmente cambiate sono le vie circostanti: le
bancarelle sono state sostituite da boutique e ristoranti di tendenza. A essere
cambiata solo parzialmente è la città verticale: se alzo lo sguardo, posso a
tratti rivedere i grappoli di condizionatori e le finestrine sgangherate che
ricordavo.
Mentre procediamo per Nathan road mi accorgo che un numero notevole di
gioiellerie espone altrettanto notevoli collane di maiali (anzi: di scrofe, con
i loro piccoli appesi) d’oro. Ce ne sono con una, due, tre, cinque scrofe: vere
cascate di suini. Sono gioielli beneauguranti, e un tradizionale dono di nozze
perché in Cina il maiale simboleggia felicità, fertilità e abbondanza.
Vorrei tanto fotografare una di quelle collane. Mi metto a cercare la più
esagerata passando di vetrina in vetrina, mentre mio figlio mi segue
rassegnato.
Un film al rallentatore
Finirò per scattare quella foto solo qualche giorno dopo, perché quando arriviamo all’incrocio su cui si apre la stazione della metropolitana di Tsim Sha Tsui ci imbattiamo in qualcosa di molto più rilevante.
Finirò per scattare quella foto solo qualche giorno dopo, perché quando arriviamo all’incrocio su cui si apre la stazione della metropolitana di Tsim Sha Tsui ci imbattiamo in qualcosa di molto più rilevante.
È come guardare un film girato al rallentatore. Un piccolo gruppo di
ragazze e ragazzi, con impermeabili di plastica trasparente e mascherine
azzurre di carta o nere di tessuto sta allineando cesti della spazzatura al
centro della strada per bloccare il traffico. Sono calmi, meticolosi e
determinati. Sono esili e giovanissimi. “Fermiamoci”, dico a mio figlio. Alzo
il telefonino e comincio a riprendere. Nathan road ormai è bloccata. So che è
strano scriverlo, ma c’è una componente astratta e solenne, devota e struggente
nei gesti di quei ragazzi. Un senso di fatalità. Ho assistito e preso parte a
molte manifestazioni nella mia vita, ma non ho mai visto niente del genere.
Nessuno dà ordini. Sembra che tutti si muovano come un unico insieme fluido.
Ci spostiamo sui gradini all’ingresso della metropolitana. Tengo il
telefonino in una mano e il tesserino-stampa nell’altra. Mi tocca mostrarlo più
di una volta. Sento che mio figlio si è messo alle mie spalle. Qualcuno sta
oscurando le telecamere della metropolitana, da cui emerge un flusso denso e
ininterrotto di ragazzi e ragazze che gridano “fight for freedom, stand with
Hong Kong” e si dispongono in corteo. Sono centinaia, e centinaia, e centinaia.
Ci spostiamo ancora, risalendo i percorsi di altri ragazzi che dalle vie
circostanti convergono verso l’incrocio. Vediamo che anche quelle strade sono
bloccate nello stesso modo meticoloso, calmo e determinato. Vorrei seguire il
corteo. “Lascia perdere, per favore”, dice mio
figlio. Mi rendo conto che teme (e probabilmente sovrastima) la mia propensione
a mettermi nei guai, cosa che molto mi intenerisce e un po’ mi irrita.
Guardiamo i ragazzi allontanarsi e l’incrocio tornare deserto.
Scopriremo la mattina dopo che poco più oltre in Nathan road, davanti alla
sede della polizia, si sono verificati scontri molto violenti.
Ho raccolto più di mezz’ora di riprese. Vorrei solo testimoniare quello che
ho visto, e la sua peculiarità. Mi faccio aiutare da mio figlio a montare qualche minuto di video (non l’ho mai
fatto prima, e pazienza se non sarà un capolavoro) e lo spediamo in Italia.
Il mio nuovo ricordo indelebile di Hong Kong, ne sono certa, sono i ragazzi
che ho visto a quell’incrocio. Il loro essere così determinati, così solenni,
così giovani.
So come funzionano i conflitti: nascono quando c’è un contrasto insanabile tra gli interessi,
gli obiettivi e i valori di due soggetti uniti da legami di interdipendenza. So
che i conflitti non si spengono mai da soli: o si risolvono negoziando, o
peggiorano. Se una parte resta sorda alle rivendicazioni e alle ragioni
dell’altra, ciò non può che condurre quest’ultima dall’insoddisfazione alla
frustrazione, dalla frustrazione al risentimento, e poi alla rivolta. Che dà
origine a una repressione più violenta, che genera ulteriore frustrazione e
rabbia e rivolta, in una spirale distruttiva senza scampo: è l’escalation conflittuale, le cui logiche, se si
arriva a un punto di non ritorno, sfuggono a ogni controllo.
Nei giorni successivi a quella prima sera, giriamo per la città portandoci
dietro un senso di fatalità e cattivi presagi. Gli indizi delle proteste sono
dappertutto: nelle innumerevoli scritte lungo Nathan road. Nella miriade di
messaggi e fogli di denuncia, incollati ai muri delle case o nei sovrappassi
pedonali (sono i Lennon wall) di Hong Kong. (Qui una mappa). Nelle prime insegne rotte.
Il paesaggio urbano mi appare verticale e vertiginoso esattamente come lo
ricordavo: del resto, un terzo dei cento edifici più alti al mondo si trova a
Hong Kong. Dappertutto sono ancora compresenti i tetri palazzoni dell’edilizia
popolare degli anni cinquanta e sessanta, la nuova edilizia residenziale
costruita a partire dagli anni ottanta, i grattacieli. Nell’intera città se ne
trovano circa 1.300: è la maggior concentrazione di grattacieli al mondo.
Tanti grattacieli vogliono dire poco spazio a disposizione: nell’isola di
Hong Kong, luogo del primo insediamento inglese e dell’attuale centro
finanziario della città, tra l’acqua e le ripidissime colline ci sono solo
poche centinaia di metri di prezioso terreno pianeggiante. Anche lì c’è lo
stesso miscuglio inestricabile di vecchio e nuovo.
So che uno dei motivi di disagio dei giovani di Hong Kong è l’impossibilità
di trovare una casa decente a prezzi ragionevoli. Il suolo urbano è di proprietà
governativa, e viene ceduto in affitto ai costruttori che devono ricavarne più
denaro possibile, il più in fretta possibile. Hong Kong è il mercato
immobiliare più esoso del mondo. Tra il 2003 e il 2017 i
prezzi delle case sono cresciuti del 430 per cento (cioè, si sono più che quintuplicati), e oggi i costruttori
offrono sul mercato nano-appartamenti di meno di 14 metri quadrati. Il
costosissimo progetto di recuperare più spazio costruendo un’isola artificiale
tra l’isola di Lantau e l’isola di Hong Kong non sembra offrire una soluzione
accettabile nel breve periodo, e da più parti lo guardano con sospetto: un modo
per connettere ulteriormente Hong Kong alla Cina.
Andiamo verso il centro finanziario percorrendo Lockhart road,
interminabile e trafficata, dove si affacciano bar dall’aspetto vagamente
equivoco e decine e decine di (incomprensibili, per numerosità) negozi che
vendono sanitari e accessori da bagno: siamo nell’ex quartiere a luci rosse,
dove è ambientato il film Il mondo di Suzie Wong.
Arriviamo in Statue square: l’imponente sede della potentissima Hsbc
(Hongkong and Shanghai banking corporation), progettata da Norman Foster negli
anni ottanta, svetta contro il cielo grigio. Ai suoi tempi è stata la
costruzione più costosa del mondo. Sul tetto ci sono due gru che sembrano
cannoni, e accrescono l’aria minacciosa dell’edificio: sono state aggiunte in
ottemperanza ai princìpi del feng shui, l’arte
geomantica cinese di strutturare gli spazi in modo da accrescerne l’energia
positiva, e quindi da incrementare la prosperità dei residenti.
Obiettivo delle gru-cannoni: contrastare la possibile cattiva influenza dell’edificio
della Bank of China costruito lì vicino, e dotato di spigoli troppo affilati,
che creerebbero “killer energy”, energia mortale. Del resto,
nella città che è una delle economie più brillanti al mondo e la meno indebitata del mondo, pensiero magico
e pragmatismo si intrecciano anche in altri casi: a molti edifici cittadini
mancano il 14º piano (la pronuncia fonetica cantonese del numero suona come
“morirai certamente”) e il 24º (“facile che tu muoia”). Amatissimi invece il
numero 18 (“diventerai ricco”), il 28 (“facile diventare ricchi”) e il 168
(“diventare ricchi per sempre”).
Anche questo è Hong Kong.
Ma Hong Kong è anche la vista inconfondibile da Victoria Peak
(nell’immagine che apre questo articolo). La Avenue of Stars, il lungomare di
Kowloon da cui alle otto di ogni sera si può vedere uno spettacolo di suoni e
luci che coinvolge un’impressionante infilata di grattacieli. La paccottiglia
affastellata nel Ladies’ market, in una parallela di Nathan road. I memorabilia impolverati della Cina di Mao Zedong
in Cat street, poco distante dal distretto finanziario, e le statue
assurdamente colorate del tempio di Tin Hau, affacciato sulla spiaggia
milionaria di Repulse bay.
Hong Kong è la baia di Kowloon incoronata di grattacieli, anche se non
somiglia più a come la ricordavo e le non molte barche rimaste se ne stanno
ormeggiate e, in apparenza, abbandonate. È la pioggia torrenziale che scroscia
all’improvviso, ti infradicia e poi all’improvviso smette, e allora si capisce
perché tutti girano con l’ombrello. È la hall dell’hotel Peninsula, con una
sala da tè così britannica da credere di essere a Londra, ma com’era Londra una
volta. Ed è la collana scaramantica e beneaugurante con cinque aurei suini che
finalmente riesco a fotografare.
Se posso, a partire da quanto ho letto, visto e intuito, tentare una
sintesi molto sbrigativa, oggi a Hong Kong la situazione sta in questi termini:
il governo cinese ha l’imperativo di non fare concessioni che incoraggerebbero
questa e altre spinte centrifughe. Inoltre deve tutelare l’economia dell’area e
gli investimenti cospicui, già pianificati, che dovrebbero fare di Hong Kong il
cuore di una rete cinese di undici città ad altissima densità
tecnologica.
I ragazzi di Hong Kong hanno l’imperativo di difendere la propria identità
e il diritto di poter vivere decentemente e pacificamente nel posto dove sono
nati, di contrastare le crescenti disuguaglianze sociali, di presidiare l’autonomia
della città, e con questa le proprie libertà individuali e la propria speranza
di futuro.
Le istanze sono con ogni evidenza difficili da conciliare.
Dunque oggi Hong Kong è anche incertezza, pericolo, rischio economico,
politico e sociale. In una parola: crisi, la peggiore da quando la città è
tornata alla Cina nel 1997.
Mentre gli scontri si facevano via via più duri e la repressione diventava
più violenta e brutale, la fiorente economia cittadina è entrata ufficialmente
in recessione. Le vendite nei negozi sono crollate, i turisti hanno disdetto le
prenotazioni e, secondo un’indagine recente dell’Hong Kong Institute of
Asia-Pacifc studies, il 43 per cento degli abitanti sarebbe felice di emigrare
se solo ne avesse la possibilità.
Ma se la città si svuota, la preziosa unicità di Hong Kong svanisce, e con
questa il suo valore. La repressione è una strategia in cui tutti perdono: non
una via d’uscita, ma un acceleratore di crisi ulteriori. I risultati elettorali
hanno ora lanciato un segnale netto. C’è da sperare che venga colto, e nel modo
giusto.
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