domenica 23 febbraio 2020

Abbracciarsi - Lorenzo Pedrazzi



Una volta ho abbracciato una mia amica per sette minuti consecutivi. Eravamo a Pordenone per un festival letterario, in un tiepido week-end di fine settembre, e ci siamo stretti l’uno all’altra sul prato del nostro bed and breakfast, scalzi. Stavamo facendo un esperimento: volevamo verificare se il corpo riceva davvero del benessere fisico da un abbraccio di almeno venti secondi, attraverso il rilascio di ossitocina e la diminuzione della pressione sanguigna. Invece di tenere il conto, però, siamo rimasti immobili sull’erba fresca, separandoci solo quando entrambi lo abbiamo ritenuto opportuno. È durato per circa sette minuti, che nella percezione soggettiva del tempo sono un’infinità.

Esiste tutto un rituale, nell’abbraccio, che replichiamo ogni volta senza rendercene conto: è un linguaggio che sperimentiamo fin da piccoli, lasciandoci guidare dagli automatismi del nostro corpo e dalle regole dell’ordinamento sociale in cui viviamo. Basta trascorrere qualche momento fra gli spettri boccioniani di una stazione ferroviaria – o all’ingresso di un aeroporto – per osservarne le coreografie. Di recente, in largo anticipo per un volo che da Boston mi avrebbe riportato a Milano, ho sostato alcuni minuti sulla banchina delle partenze internazionali, dove taxi, pullman e auto private scaricavano passeggeri ingombri di bagagli. La diversa gradazione dei rapporti sentimentali influenzava la danza degli addii: due giovani amiche si salutavano con un abbraccio colmo di risate, oscillando a destra e sinistra come l’asta di un metronomo, simili a ballerine intente a darsi il ritmo; un ragazzo e una ragazza tenevano le mani posate sui rispettivi avambracci, parlando a brevissima distanza, poi si sono congiunti in una stretta fugace, accompagnata da leggere pacche sulla schiena; un bambino sfuggiva all’abbraccio di una signora canuta, forse troppo acerbo per suggellare il commiato con una dimostrazione d’affetto; un uomo e una donna si avvicinavano cautamente l’uno all’altra, reggendosi per i gomiti e poi sfiorandosi le guance con le labbra, segno di un rapporto cortese ma non intimo; una coppia, all’opposto, si abbracciava forte prima di baciarsi con passione, mentre le mani di entrambi scivolavano sulla schiena dell’altro fino al principio delle natiche, vezzeggiandole con le dita.

Per tutti loro – come ci insegna quel romanticone di Prévert – l’abbraccio è valso un “minuscolo secondo d’eternità” la cui vera estensione non si potrebbe comunicare nemmeno in “migliaia e migliaia di anni”, secondo un paradosso che si ricollega alla nostra percezione del tempo. L’intensità dell’abbraccio rivela la natura dei legami affettivi, rallentando di conseguenza il flusso dei secondi: quante volte, durante un abbraccio, abbiamo rivisto davanti ai nostri occhi tutti i momenti appena passati in compagnia di quella persona? E quante volte ci siamo stretti a lei come se i nostri corpi volessero compenetrarsi, fondersi, fino a diventare una singola entità? Non a caso, l’abbraccio più memorabile è sempre un’eufonia di tepori che si scambiano, odori che si mescolano e respiri che dialogano fra loro. Durante il mio soggiorno americano mi è capitato di riceverne alcuni di tal genere, e sono quelli che restano più a lungo sulla pelle. Mentre i due corpi si amalgamano l’uno con l’altro, le mani si incontrano sulla schiena e prendono ad accarezzarla lievemente, come per dare conforto nell’istante dei saluti; le teste rimangono affiancate, le narici respirano gli umori del collo e dei capelli, le labbra sono piegate teneramente all’insù. Come una creatura bicefala, viviamo quel momento eterno in assoluta sincronia, sperando che le nostre menti vaghino nella stessa direzione.

Di nuovo, le parole dei grandi vengono in nostro soccorso per chiarirci le idee. Roland Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, cita proprio questo tipo di abbraccio, “una stretta immobile” nella quale restiamo “ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell'addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (…). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati”. Se riusciamo a cogliere questo barlume di quiete, scopriamo di aver sottratto un frammento della persona abbracciata, e di averlo barattato con una piccola parte di noi stessi: la speranza è che sia lì ad aspettarci, quando finalmente la rivedremo.

A tal proposito, l’assenza del desiderio resta circoscritta all’istante perpetuo dell’abbraccio, quando l’unione fisica ed emotiva con la persona amata (non necessariamente in senso romantico, ma anche familiare o amicale) è pienamente realizzata. In quel momento non c’è nient’altro che potremmo desiderare, poiché l’idea di prolungare l’unione all’infinito – vero cruccio di ogni addio – si manifesta solo dopo, con la separazione forzata dei corpi. È lì che sorge la malinconia, la sensazione di vuoto che accompagna la nostra partenza; ed è esattamente ciò che ho provato io stesso quando mi sono separato dai miei affetti americani, o dall’amica che ha sostenuto con me lo sconfinato abbraccio di sette minuti: uno shock d’improvvisa solitudine, uno straniamento dal mondo esterno che ti fa venire voglia di rifugiarti ancora in quell’abbraccio, in quella comunione di corpi sincronici. D’altra parte, un abbraccio è la massima espressione delle esigenze umane più basilari, che ci guidano istintivamente verso la socialità e il confronto relazionale: ne sentiamo il bisogno, così come spesso avvertiamo l’urgenza di partire, e di esplorare un “altrove” a noi ignoto. Curioso che queste due necessità, per certi aspetti antitetiche, siano anche indissolubilmente correlate.

Eppure, l’abbraccio ha in sé anche una connotazione stereotipata. Essendo la forma più essenziale tra le dimostrazioni d’affetto (ancora più del bacio, che ha meno sfumature di senso e di scopo), l’abbraccio si presta alla corruzione della routine, al deterioramento dell’abitudine; e, non appena succede, disperde tutta la sua energia. Molte volte ci capita di chiudere un messaggio testuale con “un abbraccio”, e il fine è indubbiamente nobile (ovvero, dare calore a una comunicazione che altrimenti suonerebbe algida), ma il concetto stesso ne risulta logorato per l’eccessivo utilizzo, e il nostro interlocutore quasi non se ne accorge: l’abbraccio diventa così un orpello formale, come le chiose suggerite dai libri di testo per concludere una lettera in lingua straniera. Basta poco a tradire la purezza del gesto, soprattutto quando smette le sue vesti originarie – quelle, per l’appunto, di un gesto fisico – e cade nelle trappole della retorica. Se esistesse un generatore automatico di tweet, ed esso potesse reagire alle notizie di cronaca grazie a un algoritmo nemmeno tanto complesso, verosimilmente partorirebbe frasi vuote, di pura circostanza, come quelle pubblicate da Salvini in seguito al crollo del ponte Morandi: “Un abbraccio ai Genovesi, tutti” (dove la precisazione finale – “tutti” – non fa che aumentare la retorica a livelli esponenziali, anche sul piano dell’enunciazione). In questi termini, l’abbraccio non è molto diverso dai «thoughts and prayers» che i personaggi pubblici americani dedicano alle vittime delle stragi, come ci ricorda un geniale episodio di Bojack Horseman.

Per quanto mi riguarda, ho appreso del crollo mentre mi trovavo in Massachusetts, ascoltando una radio locale di Cape Cod, dove la notizia è stata ovviamente riportata con lo stesso distacco che permea i nostri giornalisti quando segnalano una tragedia avvenuta dall’altra parte del mondo. Di ritorno in Italia, ho trovato un profluvio di abbracci rivolti alla città e ai familiari delle vittime, com’è giusto che sia: davanti alla tragedia, nel terrore di suonare cinici o inopportuni, ci si rifugia sempre nelle espressioni rituali, che troppi danni non possono fare. E allora, anche quando è puro, accade che il gesto sia svenduto per suscitare la commozione dei lettori, e aumentare le visualizzazioni di un articolo o di un contenuto audiovisivo: le telecamere sono leste a cogliere “l’abbraccio di un pompiere alla mamma di una vittima” durante i funerali, perché sanno che in quell’abbraccio si coagula un sentimento condiviso dalla popolazione, proprio all’altezza della “pancia”, dove siamo tutti più vulnerabili. Non è più l’abbraccio dei saluti, bensì quello del conforto e dell’accoglienza, intesa sia come accoglienza concreta (pensiamo alle polemiche quotidiane sui migranti) sia come accoglienza psico-emotiva, di compartecipazione a un dolore: riconosco la tua sofferenza, e me ne assumo una parte del peso. La sciagurata politica dei respingimenti non fa che negare questo amplesso, fisico o metaforico che sia, ed è un comportamento paradossale da parte di una classe dirigente che sulla retorica degli abbracci costruisce molta della sua popolarità, elemosinando like e follower prima ancora che elettori.

Lo stesso Salvini, ad esempio, usa l’abbraccio come strumento “social” per deflettere le critiche e ostentare una serenità perenne, incrollabile persino di fronte agli insulti più brutali… un po’ come fa Gianni Morandi quando risponde ai troll su internet, ma senza la genuinità serafica di quest’ultimo, che con i suoi abbracci pare voler sinceramente redimere i detrattori. L’effetto che ne consegue non è molto distante dalla mercificazione crossmediale del gesto, poiché lo depotenzia e impoverisce, lo svuota di significato. In questi abbracci dichiarati, urlati, elargiti dalle cariche pubbliche a favore di telecamera, non c’è alcuna sospensione del tempo soggettivo; al contrario, si verifica un’accelerazione da catena di montaggio, dove l’abbraccio non può mai soffermarsi su se stesso e godere dell’umana empatia: scorre veloce al ritmo dello zapping, sottraendosi all’attenzione di un pubblico svagato che, ormai, ne è totalmente assuefatto. Questo accade perché l’insistita reiterazione mediatica del gesto ne svilisce la sostanza, ma non è tutto: come ulteriore beffa, sparisce anche il secondo elemento imprescindibile nel rituale dell’abbraccio, ovvero l’unione dei corpi in una singola entità. Come può esserci unione, se l’amplesso non è paritario? Si tratta infatti di abbracci concessi (da un’istituzione, un ente, un personaggio pubblico, in ogni caso “dall’alto”) e non scambiati, come invece dovrebbe essere. Quando viene meno il fattore egualitario, l’abbraccio diventa una formalità da archiviare il più in fretta possibile, anche un po’ goffa e imbarazzante nel suo tentativo di emulare un sentimento reale.

Se ripenso agli abbracci cui ho assistito sulla banchina del Logan International Airport, o a quelli che ho ricevuto io stesso in uno dei congedi più sofferti della mia vita recente, la differenza è palese. Il vero abbraccio non è mai programmato, e non è nemmeno dichiarato; è un’azione spontanea che risponde a un’esigenza istintiva, ed è proprio l’istinto a guidarne i movimenti, cercando un’armonia con quelli dell’altro nella danza degli addii. Quando il gesto non è deturpato da influenze esterne (come la consapevolezza della presenza di una telecamera), esso raggiunge il massimo dell’autenticità, trascendendo i suoi limiti fisici per sublimarsi nella memoria: diviene quindi un ricordo cui chiedere asilo di fronte alle asperità, testimonianza di un momento in cui ci siamo sentiti accolti, consolati, riconosciuti nella nostra interezza. Mette radici nell’esperienza concreta, determinando la costruzione dell’identità personale. È tempo che resta, contrapposto al tempo che va.

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