Una volta ho
abbracciato una mia amica per sette minuti consecutivi. Eravamo a Pordenone per
un festival letterario, in un tiepido week-end di fine settembre, e ci siamo
stretti l’uno all’altra sul prato del nostro bed and breakfast, scalzi. Stavamo
facendo un esperimento: volevamo verificare se il corpo riceva davvero del
benessere fisico da un abbraccio di almeno venti secondi, attraverso il
rilascio di ossitocina e la diminuzione della pressione sanguigna. Invece di
tenere il conto, però, siamo rimasti immobili sull’erba fresca, separandoci
solo quando entrambi lo abbiamo ritenuto opportuno. È durato per circa sette
minuti, che nella percezione soggettiva del tempo sono un’infinità.
Esiste tutto
un rituale, nell’abbraccio, che replichiamo ogni volta senza rendercene conto:
è un linguaggio che sperimentiamo fin da piccoli, lasciandoci guidare dagli
automatismi del nostro corpo e dalle regole dell’ordinamento sociale in cui
viviamo. Basta trascorrere qualche momento fra gli spettri boccioniani di una
stazione ferroviaria – o all’ingresso di un aeroporto – per osservarne le
coreografie. Di recente, in largo anticipo per un volo che da Boston mi avrebbe
riportato a Milano, ho sostato alcuni minuti sulla banchina delle partenze
internazionali, dove taxi, pullman e auto private scaricavano passeggeri
ingombri di bagagli. La diversa gradazione dei rapporti sentimentali
influenzava la danza degli addii: due giovani amiche si salutavano con un
abbraccio colmo di risate, oscillando a destra e sinistra come l’asta di un
metronomo, simili a ballerine intente a darsi il ritmo; un ragazzo e una
ragazza tenevano le mani posate sui rispettivi avambracci, parlando a
brevissima distanza, poi si sono congiunti in una stretta fugace, accompagnata
da leggere pacche sulla schiena; un bambino sfuggiva all’abbraccio di una
signora canuta, forse troppo acerbo per suggellare il commiato con una
dimostrazione d’affetto; un uomo e una donna si avvicinavano cautamente l’uno
all’altra, reggendosi per i gomiti e poi sfiorandosi le guance con le labbra,
segno di un rapporto cortese ma non intimo; una coppia, all’opposto, si
abbracciava forte prima di baciarsi con passione, mentre le mani di entrambi scivolavano
sulla schiena dell’altro fino al principio delle natiche, vezzeggiandole con le
dita.
Per tutti
loro – come ci insegna quel romanticone di Prévert – l’abbraccio è valso un
“minuscolo secondo d’eternità” la cui vera estensione non si potrebbe comunicare
nemmeno in “migliaia e migliaia di anni”, secondo un paradosso che si ricollega
alla nostra percezione del tempo. L’intensità dell’abbraccio rivela la natura
dei legami affettivi, rallentando di conseguenza il flusso dei secondi: quante
volte, durante un abbraccio, abbiamo rivisto davanti ai nostri occhi tutti i
momenti appena passati in compagnia di quella persona? E quante volte ci siamo
stretti a lei come se i nostri corpi volessero compenetrarsi, fondersi, fino a
diventare una singola entità? Non a caso, l’abbraccio più memorabile è sempre
un’eufonia di tepori che si scambiano, odori che si mescolano e respiri che
dialogano fra loro. Durante il mio soggiorno americano mi è capitato di
riceverne alcuni di tal genere, e sono quelli che restano più a lungo sulla
pelle. Mentre i due corpi si amalgamano l’uno con l’altro, le mani si
incontrano sulla schiena e prendono ad accarezzarla lievemente, come per dare
conforto nell’istante dei saluti; le teste rimangono affiancate, le narici
respirano gli umori del collo e dei capelli, le labbra sono piegate teneramente
all’insù. Come una creatura bicefala, viviamo quel momento eterno in assoluta
sincronia, sperando che le nostre menti vaghino nella stessa direzione.
Di nuovo, le
parole dei grandi vengono in nostro soccorso per chiarirci le idee. Roland
Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, cita proprio
questo tipo di abbraccio, “una stretta immobile” nella quale restiamo
“ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile
dell'addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che
giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (…). In questo
incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione:
niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché
sembrano essere definitivamente appagati”. Se riusciamo a cogliere questo
barlume di quiete, scopriamo di aver sottratto un frammento della persona
abbracciata, e di averlo barattato con una piccola parte di noi stessi: la
speranza è che sia lì ad aspettarci, quando finalmente la rivedremo.
A tal
proposito, l’assenza del desiderio resta circoscritta all’istante perpetuo
dell’abbraccio, quando l’unione fisica ed emotiva con la persona amata (non necessariamente
in senso romantico, ma anche familiare o amicale) è pienamente realizzata. In
quel momento non c’è nient’altro che potremmo desiderare, poiché l’idea di
prolungare l’unione all’infinito – vero cruccio di ogni addio – si manifesta
solo dopo, con la separazione forzata dei corpi. È lì che sorge la
malinconia, la sensazione di vuoto che accompagna la nostra partenza; ed è
esattamente ciò che ho provato io stesso quando mi sono separato dai miei
affetti americani, o dall’amica che ha sostenuto con me lo sconfinato abbraccio
di sette minuti: uno shock d’improvvisa solitudine, uno straniamento dal mondo
esterno che ti fa venire voglia di rifugiarti ancora in quell’abbraccio, in
quella comunione di corpi sincronici. D’altra parte, un abbraccio è la massima
espressione delle esigenze umane più basilari, che ci guidano istintivamente
verso la socialità e il confronto relazionale: ne sentiamo il bisogno, così
come spesso avvertiamo l’urgenza di partire, e di esplorare un “altrove” a noi
ignoto. Curioso che queste due necessità, per certi aspetti antitetiche, siano
anche indissolubilmente correlate.
Eppure,
l’abbraccio ha in sé anche una connotazione stereotipata. Essendo la forma più
essenziale tra le dimostrazioni d’affetto (ancora più del bacio, che ha meno
sfumature di senso e di scopo), l’abbraccio si presta alla corruzione della
routine, al deterioramento dell’abitudine; e, non appena succede, disperde
tutta la sua energia. Molte volte ci capita di chiudere un messaggio testuale
con “un abbraccio”, e il fine è indubbiamente nobile (ovvero, dare calore a una
comunicazione che altrimenti suonerebbe algida), ma il concetto stesso ne
risulta logorato per l’eccessivo utilizzo, e il nostro interlocutore quasi non
se ne accorge: l’abbraccio diventa così un orpello formale, come le chiose
suggerite dai libri di testo per concludere una lettera in lingua straniera.
Basta poco a tradire la purezza del gesto, soprattutto quando smette le sue
vesti originarie – quelle, per l’appunto, di un gesto fisico –
e cade nelle trappole della retorica. Se esistesse un generatore automatico di
tweet, ed esso potesse reagire alle notizie di cronaca grazie a un algoritmo
nemmeno tanto complesso, verosimilmente partorirebbe frasi vuote, di pura
circostanza, come quelle pubblicate da Salvini in seguito al crollo del ponte
Morandi: “Un abbraccio ai Genovesi, tutti” (dove la precisazione finale –
“tutti” – non fa che aumentare la retorica a livelli esponenziali, anche sul
piano dell’enunciazione). In questi termini, l’abbraccio non è molto diverso
dai «thoughts and prayers» che i personaggi pubblici americani dedicano alle
vittime delle stragi, come ci ricorda un geniale episodio di Bojack
Horseman.
Per quanto
mi riguarda, ho appreso del crollo mentre mi trovavo in Massachusetts,
ascoltando una radio locale di Cape Cod, dove la notizia è stata ovviamente
riportata con lo stesso distacco che permea i nostri giornalisti quando
segnalano una tragedia avvenuta dall’altra parte del mondo. Di ritorno in
Italia, ho trovato un profluvio di abbracci rivolti alla città e ai familiari
delle vittime, com’è giusto che sia: davanti alla tragedia, nel terrore di
suonare cinici o inopportuni, ci si rifugia sempre nelle espressioni rituali,
che troppi danni non possono fare. E allora, anche quando è puro, accade che il
gesto sia svenduto per suscitare la commozione dei lettori, e aumentare le
visualizzazioni di un articolo o di un contenuto audiovisivo: le telecamere
sono leste a cogliere “l’abbraccio di un pompiere alla mamma di una vittima”
durante i funerali, perché sanno che in quell’abbraccio si coagula
un sentimento condiviso dalla popolazione, proprio all’altezza della “pancia”,
dove siamo tutti più vulnerabili. Non è più l’abbraccio dei saluti, bensì
quello del conforto e dell’accoglienza, intesa sia come accoglienza concreta
(pensiamo alle polemiche quotidiane sui migranti) sia come accoglienza
psico-emotiva, di compartecipazione a un dolore: riconosco la tua
sofferenza, e me ne assumo una parte del peso. La sciagurata politica dei
respingimenti non fa che negare questo amplesso, fisico o metaforico che sia,
ed è un comportamento paradossale da parte di una classe dirigente che sulla
retorica degli abbracci costruisce molta della sua popolarità, elemosinando
like e follower prima ancora che elettori.
Lo stesso
Salvini, ad esempio, usa l’abbraccio come strumento “social” per deflettere le
critiche e ostentare una serenità perenne, incrollabile persino di fronte agli
insulti più brutali… un po’ come fa Gianni Morandi quando risponde ai troll su
internet, ma senza la genuinità serafica di quest’ultimo, che con i suoi
abbracci pare voler sinceramente redimere i detrattori. L’effetto che ne
consegue non è molto distante dalla mercificazione crossmediale del gesto,
poiché lo depotenzia e impoverisce, lo svuota di significato. In questi
abbracci dichiarati, urlati, elargiti dalle cariche pubbliche a favore di
telecamera, non c’è alcuna sospensione del tempo soggettivo; al contrario, si
verifica un’accelerazione da catena di montaggio, dove l’abbraccio non può mai
soffermarsi su se stesso e godere dell’umana empatia: scorre veloce al ritmo
dello zapping, sottraendosi all’attenzione di un pubblico svagato che, ormai,
ne è totalmente assuefatto. Questo accade perché l’insistita reiterazione
mediatica del gesto ne svilisce la sostanza, ma non è tutto: come ulteriore
beffa, sparisce anche il secondo elemento imprescindibile nel rituale
dell’abbraccio, ovvero l’unione dei corpi in una singola entità. Come può
esserci unione, se l’amplesso non è paritario? Si tratta infatti di
abbracci concessi (da un’istituzione, un ente, un personaggio
pubblico, in ogni caso “dall’alto”) e non scambiati, come invece
dovrebbe essere. Quando viene meno il fattore egualitario, l’abbraccio diventa
una formalità da archiviare il più in fretta possibile, anche un po’ goffa e
imbarazzante nel suo tentativo di emulare un sentimento reale.
Se ripenso agli
abbracci cui ho assistito sulla banchina del Logan International Airport, o a
quelli che ho ricevuto io stesso in uno dei congedi più sofferti della mia vita
recente, la differenza è palese. Il vero abbraccio non è mai programmato, e non
è nemmeno dichiarato; è un’azione spontanea che risponde a un’esigenza
istintiva, ed è proprio l’istinto a guidarne i movimenti, cercando un’armonia
con quelli dell’altro nella danza degli addii. Quando il gesto non è deturpato
da influenze esterne (come la consapevolezza della presenza di una telecamera),
esso raggiunge il massimo dell’autenticità, trascendendo i suoi limiti fisici
per sublimarsi nella memoria: diviene quindi un ricordo cui chiedere asilo di
fronte alle asperità, testimonianza di un momento in cui ci siamo sentiti
accolti, consolati, riconosciuti nella nostra interezza. Mette radici
nell’esperienza concreta, determinando la costruzione dell’identità personale.
È tempo che resta, contrapposto al tempo che va.
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