Breves è una cittadina in pieno delta del rio delle Amazzoni, sull’isola di
Marajó, grande due volte la Lombardia. È lontana undici ore di battello o sei
ore di catamarano da Belém, la capitale del Pará, uno dei grandi stati
dell’Amazzonia brasiliana. Ha una chiesa cattolica ben visibile sul lungofiume,
una piazza alberata per il passeggio serale. Ha anche un hotel con palmette,
piscina e cocktail bar in stile Miami Beach, dove i (pochi) benestanti della
città vanno a rinfrescarsi. L’hotel porta lo stesso nome della maggiore
compagnia di navigazione del delta, la Bom Jesus, che possiede anche una catena
di distributori di benzina, supermercati e farmacie: appartiene a una delle due
famiglie di proprietari terrieri e imprenditori che dominano la regione. Anche
la famiglia concorrente possiede una compagnia di navigazione, piantagioni e
supermercati. Terra e commercio, il connubio che domina l’Amazzonia.
Per raggiungere la favela di Breves bisogna seguire il lungofiume, oltre
l’imbarcadero della Bom Jesus e la fila di negozietti che espongono utensili,
amache, attrezzi da pesca, generi alimentari, telefoni di seconda mano. Dopo
poche decine di metri l’asfalto scompare e la strada diventa una pista di terra
tra case di legno costruite su piattaforme sopraelevate. “Nella stagione delle
piogge tutto strabocca, siamo in un acquitrino fangoso”, spiega Sandra Araújo,
giovane missionaria e assistente sociale che ha scelto di vivere in questa
favela.
Più ci addentriamo, più le case diventano catapecchie. A volte la strada
scavalca un fiumiciattolo laterale, dove si vede una canoa legata a una
palafitta. Un po’ villaggio fluviale e un po’ favela urbana, segno di una
trasformazione ormai inesorabile pure in Amazzonia. Anche se l’immaginario di
questa regione è legato alla foresta e ai fiumi che la solcano, ai popoli
indigeni e alle comunità tradizionali, ormai il 70 per cento della popolazione
amazzonica vive in aree urbane come questa. Metropoli storiche come Manaus e
Belém, con più di due milioni di abitanti, hanno almeno un paio di secoli di
storia. Ma negli ultimi trent’anni si sono moltiplicati anche i centri urbani
più piccoli, cresciuti per lo più attorno al commercio di prodotti agricoli o
di minerali. Qui nel delta ce ne sono una cinquantina, tra i diecimila e il
milione di abitanti: con i suoi centomila residenti e una sede dell’Università
federale del Pará, Breves è una città dalle dimensioni medie. Quando si dice
città però bisogna intendersi: le strade asfaltate sono poche e le
infrastrutture sono minime. Basta uscire dal centro per rendersene conto.
“Come si vive in una favela amazzonica? La prima cosa da dire è che manca
l’acqua potabile”, risponde Luciane Ribeiro, i capelli raccolti da una fascia
multicolore come un turbante. “Sì, è paradossale: siamo circondati dall’acqua,
ma quella filtrata arriva solo ai quartieri centrali di Breves, qui non ci sono
fognature né acqua corrente. Il fiume è lercio, ma gli abitanti usano la sua
acqua per lavarsi, bere, cucinare. Molti si ammalano di diarrea, e per i
bambini spesso è letale”.
Sandra Araújo e Luciane Ribeiro, chiamata Lou, sono due suore cattoliche
dell’ordine di Nostra Signora di Namur. E sono anche due attiviste. Vivono
insieme a una consorella nella casa fatta costruire nel 2005 da una donna di
grande carisma, la missionaria Dorothy Stang, uccisa quello
stesso anno ad Anapu. “Il nostro progetto è stare con i poveri nei luoghi più
abbandonati”, spiega Araújo, capelli ricci e maglietta color pastello. E che
questo ammasso di casupole sia povero e abbandonato non c’è dubbio.
Lavori informali e precari
La casa delle missionarie non è diversa dalle altre, salvo per il legno più solido. È costruita su palafitta come le altre: “Nell’acquitrino qui sotto c’è un pesce cobra. Ma finché non metti le mani in acqua non è pericoloso”, ride Lou. Non ci sono grate né lucchetti, tanto comuni nelle città brasiliane perfino nei quartieri più poveri. Loro però si sentono al sicuro, dicono, grazie al rispetto suscitato dalla prima missionaria che si era stabilita in questa casa, “una donna dai capelli bianchi che parlava con tutti e ha visto crescere i figli dei vicini. Lo stesso rispetto ora si estende a noi”.
La casa delle missionarie non è diversa dalle altre, salvo per il legno più solido. È costruita su palafitta come le altre: “Nell’acquitrino qui sotto c’è un pesce cobra. Ma finché non metti le mani in acqua non è pericoloso”, ride Lou. Non ci sono grate né lucchetti, tanto comuni nelle città brasiliane perfino nei quartieri più poveri. Loro però si sentono al sicuro, dicono, grazie al rispetto suscitato dalla prima missionaria che si era stabilita in questa casa, “una donna dai capelli bianchi che parlava con tutti e ha visto crescere i figli dei vicini. Lo stesso rispetto ora si estende a noi”.
Le due suore tengono un doposcuola nella grande veranda sul retro: “È molto
frequentato e siamo contente, anche se sappiamo che i bambini vengono
soprattutto per la merenda: molti qui faticano a mettere insieme pranzo e
cena”. La mancanza di cibo nutriente è anche il motivo del ritardo scolastico,
osserva Araújo: “Molti faticano a leggere. Stentano a memorizzare le lettere
dell’alfabeto, non riescono a concentrarsi. Inoltre, non hanno accesso a libri,
salvo che a scuola. Così facciamo gruppi da tre a cinque bambini per seguirli meglio”.
“Spesso i bambini sono lasciati a se
stessi”, spiega Ribeiro. Per andare a lavorare, le madri li devono affidare ai
vicini. Pochi crescono con i genitori, più spesso sono affidati a nonni o zii,
o altri adulti. Di cosa vive la favela? “Di lavoretti. Alcuni fanno i venditori
ambulanti con i carretti in giro per la città, vendono bibite o cibi cucinati.
Altri trovano lavori al porto. Le donne magari fanno le domestiche per le
famiglie del centro”. Un’economia informale e precaria. Il mercoledì e il sabato
in città c’è il mercato, e chi ha ancora un po’ di terra da coltivare va a
vendere ortaggi e frutta.
È l’imbrunire di un giovedì di metà settembre, alcuni bambini giocano per
strada, mentre qua e là nelle verande si vendono bibite e birra, e intorno si
formano capannelli di uomini. Nei fine settimana l’atmosfera si scalda,
raccontano Ribeiro e Araújo: “Spesso gli uomini si sbronzano e scoppiano
continue risse”, poi magari si rifanno picchiando le donne di casa. “Essere una
donna nel Marajó è pericoloso”, dice Lou Ribeiro.
Contro i padroni della terra
Cos’ha portato queste giovani donne a vivere nella favela fluviale? Luciane Ribeiro, la più giovane, è di Belém, capitale del Pará. Era una studente impegnata in attività sociali e nel 2005 si era unita al gruppo di Dorothy Stang. Le toccò assistere all’autopsia della missionaria, eseguita a Belém, e ricorda ancora con sconcerto “la folla di giornalisti che si accanivano a fotografare quel corpo nudo crivellato di proiettili, senza ritegno”. Non era un mistero che a uccidere la suora fossero stati uomini armati agli ordini di un gruppo di fazendeiros, proprietari terrieri, per intimidire chi si batteva per la riforma agraria. Ribeiro dice che per lei è stata una sfida.
Cos’ha portato queste giovani donne a vivere nella favela fluviale? Luciane Ribeiro, la più giovane, è di Belém, capitale del Pará. Era una studente impegnata in attività sociali e nel 2005 si era unita al gruppo di Dorothy Stang. Le toccò assistere all’autopsia della missionaria, eseguita a Belém, e ricorda ancora con sconcerto “la folla di giornalisti che si accanivano a fotografare quel corpo nudo crivellato di proiettili, senza ritegno”. Non era un mistero che a uccidere la suora fossero stati uomini armati agli ordini di un gruppo di fazendeiros, proprietari terrieri, per intimidire chi si batteva per la riforma agraria. Ribeiro dice che per lei è stata una sfida.
Sandra Araújo invece ha studiato ad Anapu. La sua famiglia era originaria
del Maranhão, poverissimo stato del nordest brasiliano affacciato sulla costa
atlantica. Negli anni ottanta i suoi genitori erano emigrati, come tanti,
inseguendo il sogno di un pezzo di terra. “Eravamo migranti della Transamazzonica”,
spiega. Era l’epoca della dittatura militare, la strada che tagliava la regione
amazzonica era in costruzione e il governo incoraggiava i contadini poveri a
“colonizzare” la foresta per sfruttarne le immense risorse, tagliare la legna,
aprire miniere, costruire dighe, coltivare la terra. I militari parlavano di
“sviluppo moderno” e di “integrare l’Amazzonia alla nazione”, le stesse parole
che usa oggi il presidente di estrema destra Jair Bolsonaro.
Sta di fatto che tra gli anni sessanta e ottanta un grande flusso di
persone si è riversato lungo la nuova strada. La terra però restava un sogno,
perché i nuovi migranti si ritrovarono a lavorare per grandi latifondisti,
supersfruttati. “Ma era nato un movimento perché la terra fosse assegnata a chi
la lavorava”, ricorda Araújo. Muovevano i loro primi passi i sindacati rurali
per difendere la piccola agricoltura a conduzione familiare. “Nel 1985 la mia
famiglia ha vinto”, cioè le erano state assegnate delle terre da coltivare.
Più tardi Araújo si è trasferita ad Anapu per continuare gli studi ed è
allora che ha conosciuto Stang, la suora nordamericana che parlava di riforma
agraria. “Era una grande educatrice. È stata descritta come ambientalista
perché sosteneva la piccola agricoltura a conduzione familiare che usa in modo
sostenibile la foresta, ma era molto di più: lavorava per il diritto alla terra
e perché le donne si costruissero vite libere, oltre che per il diritto
all’istruzione e alle cure”. Stang aveva raccolto intorno a sé gruppi di
giovani e studenti. “Quando avevo 17 anni mi propose di lavorare nella sua
pastorale. Ero felice. I miei genitori no, dicevano che era pericoloso. Risposi
che non c’era alcun pericolo finché non ti mettevi contro i padroni della
terra, e partii”. Ride: “Beh, combattere i padroni della terra è proprio quello
che faccio ora”.
Oggi Sandra Araújo è avvocata e dirigente della Commissione pastorale della
terra, l’organizzazione creata dalla chiesa cattolica nel 1975, in piena
dittatura, per sostenere le lotte dei senza terra. Per anni ha seguito Stang da
un villaggio all’altro, “a volte camminavamo quindici chilometri, zaino in
spalla, per visitare le comunità più sperdute”. Dice che non sarebbe diventata
una suora se non fosse stato per quella signora dai capelli bianchi: “Non mi
attirava l’idea di chiudermi nelle regole di un ordine. Ma mi piaceva quello
che faceva lei”. Ha lavorato nei quilombo,
le comunità create dai discendenti degli schiavi africani fuggiti dalle
piantagioni della costa per rifugiarsi nella foresta profonda: nel Brasile
moderno sono rimasti ai margini, non più schiavi ma neanche cittadini a pieno
titolo. Solo dopo il 1985, finita la dittatura militare, quando il paese si è
dato una nuova costituzione, solo allora queste comunità si sono viste
riconoscere dei veri diritti, come anche i popoli indigeni e le altre comunità
tradizionali della foresta.
Conflitti più violenti
Le comunità rurali degli anni ottanta erano povere e sfruttate, ma davano battaglia, osserva Sandra Araujo: “Oggi qui invece vedo grande passività”. Parla della favela urbana, ma anche del conflitto agrario. Per la Commissione pastorale della terra Araujo è responsabile di una zona immensa, posti lontani diversi giorni di battello e canoa. “Noi interveniamo dove ci chiamano. Quando scoppia un conflitto cerchiamo di dargli visibilità, far circolare le notizie, e se è possibile proviamo a organizzare azioni legali”.
Le comunità rurali degli anni ottanta erano povere e sfruttate, ma davano battaglia, osserva Sandra Araujo: “Oggi qui invece vedo grande passività”. Parla della favela urbana, ma anche del conflitto agrario. Per la Commissione pastorale della terra Araujo è responsabile di una zona immensa, posti lontani diversi giorni di battello e canoa. “Noi interveniamo dove ci chiamano. Quando scoppia un conflitto cerchiamo di dargli visibilità, far circolare le notizie, e se è possibile proviamo a organizzare azioni legali”.
In questo momento sta seguendo tre casi. Uno riguarda delle imprese di
disboscamento che hanno invaso una zona protetta. Poi ci sono due comunità che
lavorano terre in concessione dallo stato, ma sono state usurpate da imprese
agroindustriali. “È una zona lontana almeno due giorni di battello da Breves,
dove stanno nascendo grandi piantagioni: per decine di chilometri vedi solo
palma di açaí”, un frutto divenuto molto popolare (usato per fare succhi,
gelati e una pasta che ha vari usi alimentari). “La monocoltura mette in
pericolo la sopravvivenza di migliaia di famiglie”.
“L’intero territorio del Marajó è demanio dello stato”, spiega l’avvocata.
“Ma arrivano imprenditori con pochi scrupoli, esibiscono documenti di proprietà
pretestuosi e cacciano via le piccole comunità fluviali: contano sul fatto che
la povera gente non sa che quei titoli sono usurpati”. Si chiama grilagem, parola che indica l’appropriazione indebita
di terra. Gli imprenditori ricevono una concessione ma disboscano e coltivano
aree molto più ampie, oppure titoli di proprietà falsificati. Come le famiglie
di Breves che si sono attribuite grandi piantagioni. “Ci troviamo davanti a
persone sicure della propria impunità”, dice Araujo, “quando abbiamo cercato di
negoziare hanno risposto in modo chiaro che non hanno nulla da trattare”. È
chiaro che contano su protezioni politiche, osserva Araujo. Del resto, a Breves
le due famiglie si alternano anche nella carica di sindaco.
Il conflitto per la terra non è certo una novità, ma nell’era del
presidente Jair Bolsonaro è diventato più violento. “Tutte le istituzioni di
controllo sono state depotenziate”, riassume Fabiane Nascimento, insegnante e
attivista della Commissione giustizia e pace, incontrata alla casa parrocchiale
di Breves. Spiega che all’Istituto per l’ambiente e le risorse naturali
(Ibama), alla fondazione per la protezione dei popoli indigeni (Funai) e a
tutte le istituzioni di ricerca sono stati tagliati i fondi e sono stati tolti
incarichi. Un esempio si è avuto in agosto: quando
l’Istituto nazionale di ricerca spaziale (Inpe), che monitora la deforestazione
grazie ai suoi satelliti, ha diffuso i primi allarmi sull’aumento di incendi in
Amazzonia, il presidente Bolsonaro ha licenziato il direttore accusandolo di
creare allarme. “Quando delegittimi le istituzioni di controllo il messaggio è
chiaro”, insiste Nascimento. I disboscatori contano sull’impunità. I conflitti
per la terra aumentano, e anche la violenza. La Pastorale della terra, che
tiene un registro dei conflitti agrari in
Brasile, ha contato 71 persone uccise nel 2018 in
tutto il paese, leader di comunità rurali o sindacati della terra o comunità
indigene: una morte violenta ogni cinque giorni. Il record è proprio nello
stato del Pará.
Ogni conflitto per la terra, ogni villaggio sfrattato per far posto a nuove
piantagioni, finisce per ingrossare favelas come quella di Breves. “Molti
arrivano dalle comunità fluviali sperando di trovare migliori occasioni in
città. Ma non riusciranno a studiare né a trovare un lavoro stabile”, osserva
Michéle Araújo, giovane attivista di Breves, che nonostante il cognome non ha
alcuna relazione con l’avvocata della Pastorale della terra. Per chi cresce nelle
periferie urbane amazzoniche non ci sono grandi opportunità, spiega. Descrive
una vita precaria: “L’alternativa più attraente per un giovane è il piccolo
spaccio di droga: se sopravvive magari entrerà in una gang”. A Breves ce ne
sono due, piccole, ma affiliate a quelle più grandi e potenti a livello
nazionale. “Poi c’è la polizia che non fa processi ma esecuzioni sommarie, con
la scusa di combattere il narcotraffico”, dice Michéle Araújo.
“Anche la prostituzione è molto
diffusa”, osserva Lou Ribeiro. Il delta amazzonico è un crocevia, le chiatte
del legname e le navi oceaniche viaggiano verso il terminal appena a monte di
Belém, dove si caricano la soia e i minerali, mentre i traghetti commerciali e
quelli del narcotraffico discendono il rio delle Amazzoni fino all’Atlantico.
“A volte sono i padri stessi che offrono le ragazze agli equipaggi delle navi
di passaggio”.
Qualcuno ce la fa a sfuggire a questo destino di miseria e violenza? Sandra
Araújo cita ragazze di questa favela che sono riuscite a studiare, tra mille
difficoltà; una si sta laureando. E la parrocchia locale, vi sostiene? Ridono:
“Non ci ostacola”. Parlano di una chiesa che “si limita alla carità”, senza
aggredire i problemi strutturali della povertà. Riemerge la tensione, anche
questa antica, tra una chiesa che si batte per la giustizia sociale e una più
conservatrice. L’avvocata osserva che la chiesa è tra le poche organizzazioni
sociali che hanno una presenza capillare in Amazzonia. Insieme al sindacato dei
lavoratori rurali, ai movimenti per la terra, le reti di popoli indigeni,
queste attiviste delle favelas restano un presidio di resistenza democratica
nel Brasile di Jair Bolsonaro.
Forse è per questo che il presidente brasiliano ha duramente attaccato i
vescovi che parteciperanno al sinodo sull’Amazzonia, convocato da papa
Francesco, che si aprirà il 6 ottobre in Vaticano. Il governo Bolsonaro li
accusa di voler “promuovere un programma di sinistra” e di favorire
“l’interferenza straniera”. Come durante la crisi degli incendi, riecheggia lo
slogan che fu della dittatura militare: “L’Amazzonia è nostra”. Le attiviste
della favela di Breves si chiedono: “Nostra di chi?”.
Reportage dall’Amazzonia
brasiliana dove è in corso una “guerra di conquista” contro i popoli indigeni -
Marina Forti
“Continuano
gli attacchi”, dice la giovane donna. “Non ne troverai notizia sui giornali, i
grandi media osservano il silenzio. Ma i nostri villaggi continuano a essere
attaccati dai tagliatori illegali di legname e i fazenderos continuano
a invadere i territori delle nostre comunità”. Siamo nel campus dell’Università
federale a Belem, la capitale del Parà, in Brasile, città di quasi tre milioni
di abitanti affacciata sul rio delle Amazzoni, o meglio, su uno dei bracci
laterali del fiume largo quanto un mare, che qui ha cominciato a formare il suo
immenso delta. Belem è una porta dell’Amazzonia e in questo campus
universitario in riva al fiume si è riunito in settembre un forum “dei popoli e
delle comunità tradizionali”. Rappresentano comunità native, sindacati rurali,
organizzazioni di piccoli agricoltori e comunità rivierasche, movimenti
sociali. Virginia, la dottoranda in jeans neri, con una piuma multicolore come
orecchino e i capelli corti tinti di azzurro, è tra gli studenti di origine
indigena che dirige l’incontro. Parla di attacchi quotidiani contro i leader delle
battaglie per la terra, di movimenti di resistenza. Le notizie circolano tra le
reti di organizzazioni indigene, i movimenti per la terra, le organizzazioni
sociali.
In Amazzonia
è in corso una sorta di guerra. È una guerra di conquista, combattuta a colpi
di invasioni di terre, comunità assediate, scorrerie di bande armate agli
ordini di imprenditori agricoli (qui li chiamano fazenderos) e
attivisti uccisi. Combattuta anche con il fuoco: centinaia, migliaia di incendi
che bruciano ormai da un paio di mesi, segno inequivocabile di come uno
sfruttamento insensato delle risorse stia devastando la più grande regione di
foresta tropicale del Pianeta. Anche gli incendi fanno parte della “guerra
di conquista”. Dall’inizio di agosto divampano in ampie zone della regione
amazzonica brasiliana, lungo una linea chiamata “arco della deforestazione”:
una fascia che va dal Parà meridionale a parte del Mato Grosso, al Rondônia che
confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso la frontiera con il Perù,
come una grande mezzaluna che attraversa diversi Stati e circonda l’Amazzonia
da Sud. Altri incendi sono nel Nord, nel Roraima, un altro Stato pesantemente
deforestato verso la frontiera con il Venezuela.
Gli incendi
non sono una novità assoluta, compaiono ogni anno all’inizio della stagione
secca (ma sarebbe meglio dire “meno umida”, qui piove quasi ogni giorno),
quando i coltivatori bruciano i campi per preparare una nuova semina: la queimada è
una pratica tradizionale e regolamentata, spiega Mara Dultra, esperta della
regione amazzonica, consigliera della rete di organizzazioni sociali chiamata
Cese (cese.org.br), che incontriamo nella sede
di Salvador, nello Stato di Bahia. Questa volta però è successo qualcosa di
più, spiega. Gli incendi sono triplicati rispetto alla media degli anni scorsi,
per numero e per estensione, e hanno raggiunto o forse superato il picco del
2010, che fu un altro anno di crisi. Sono i dati ufficiali a dirlo. Gli ultimi
sono quelli diffusi il 6 settembre dall’Inpe, l’Istituto nazionale di ricerca
spaziale, che monitora il territorio brasiliano grazie alle foto dei suoi
satelliti. Il 29 agosto l’Inpe registrava 1.255 fuochi attivi, il doppio del
giorno precedente. La gran parte arde nelle foreste del Parà (quasi 600),
seguito dal Mato Grosso, Amazonas, Rondônia, Acre. In tutto agosto sono stati
più di 30mila, e per volume hanno superato la media storica degli incendi
d’agosto. Nei primi giorni di settembre continuavano ad aumentare. Città come
Altamira, nel Parà, sono circondate dalle fiamme e coperte dal fumo. Il
numero di incendi attivi ha una relazione diretta con la deforestazione, anche
questo è confermato dai dati. L’Inpe informa che nei primi otto mesi dell’anno,
fino a tutto agosto, sono stati disboscati 6.400 chilometri quadrati di foresta
amazzonica, il 92 per cento più rispetto all’anno prima, e il ritmo è
triplicato nel solo mese di agosto. Tagliati gli alberi, le fiamme servono a
liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o coltivazioni.
La crisi
degli incendi ha una data di inizio. È il 10 agosto, quando centinaia di roghi
sono stati appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato
“o dia do fogo”, il giorno del fuoco. “È stato un atto criminoso e i
responsabili non sono un mistero, si conoscono per nome e cognome, sono alcuni
grandi fazenderos”, spiega Josè Carlos Zanetti, attivista dei
movimenti per la terra, presso la Cese. E non si trattava di ripulire i campi.
Con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare il governo”, hanno
dichiarato con candore alcuni fazenderos al giornale Folha
do Progresso, del Parà: sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro
di aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento economico. È proprio
questo il punto: “aprire” la foresta significa entrare in nuovi territori,
quelli delle riserve indigene o comunque protetti come le “riserve
estrattiviste”, quelle affidate a comunità rurali che raccolgono gomma naturale
(i seringueiros) o altri frutti della foresta, o coltivano piccole
porzioni di terreno a rotazione in modo sostenibile e controllato, su piccola
scala: create negli ultimi trent’anni, le riserve estrattiviste nascevano da un
movimento popolare guidato da uno straordinario personaggio, Chico Mendes,
ucciso nel dicembre 1988 da uomini armati al servizio di alcuni latifondisti.
La guerra per conquistare l’Amazzonia è antica.
La crisi
degli incendi ha i suoi risvolti politici, interni e internazionali: quando
l’Istituto nazionale di ricerca spaziale ha diffuso i primi dati sulla
deforestazione, all’inizio di agosto, il presidente Jair Bolsonaro dapprima ha
negato, poi ha licenziato il direttore dell’Istituto reo di aver creato
eccessivo allarme. Poi ha incolpato “le Ong”. L’allarme aveva già raggiunto i
mass media internazionali, creando scintille nelle relazioni tra il Brasile e
il mondo; da un lato governi europei improvvisamente preoccupati della salute
del “polmone del Pianeta”, dall’altro uno strafottente Bolsonaro che replica “l’Amazzonia
è nostra”. Con un tardivo intervento, a metà agosto il presidente brasiliano ha
mandato 40mila uomini delle forze armate a contenere le fiamme. Il 28 agosto ha
firmato un decreto che vietava di appiccare fiamme nei successivi 60 giorni. Ma
non sembra molto efficace: l’Inpe ha mostrato come i fuochi attivi siano
raddoppiati nei giorni seguenti.
“Gli incendi aumentano e temiamo il peggio, la
stagione secca è appena all’inizio”, spiega Mara Dultra. Le comunità rurali che
vivono nel fondo della foresta sono assediate dalle fiamme, spiega; interi
villaggi sono in emergenza sanitaria, perché respirano fumo e molti sono
costretti alla fuga. Forse, al momento di stampare queste righe, le fiamme
avranno cominciato a calare, ma le conseguenze perdureranno a lungo. “Uno degli
effetti è mettere in pericolo la sicurezza alimentare dei villaggi nel prossimo
anno, perché sono bruciate le zone di raccolta su cui si fondavano”, ma -teme
Dultra- è solo l’inizio. Le politiche di protezione della foresta e dei suoi abitanti
sono state depotenziate e delegittimate. L’ente di protezione ambientale (ibama.gov.br), quello per le popolazioni
indigene (funai.gov.br), “tutte le
istituzioni di ricerca e di controllo sono senza fondi, demoralizzate,
smobilitate. Hanno allentato le normative ambientali, il ministro dell’Ambiente
dice che bisogna sfruttare ‘in modo razionale’ le risorse forestali, renderle
produttive, sviluppare le miniere, l’allevamento, l’agricoltura. Parlano di
aprire le zone di conservazione, che sommate alle riserve indigene e a quelle
estrattiviste sono un territorio notevole. Con un messaggio simile, l’agrobusiness è
perfettamente legittimato ad andare all’assalto dell’Amazzonia. I disboscatori
illegali sanno di avere un governo amico” spiega la ricercatrice.
Il
linguaggio del governo Bolsonaro -“aprire” la foresta, “l’Amazzonia è nostra”-
non è nuovo. È quello usato già mezzo secolo fa dai militari, quando hanno
preso il potere con un golpe nel 1964 (la dittatura in Brasile è durata fino al
1985). È il regime militare che ha lanciato il primo sfruttamento “moderno”
della foresta amazzonica e delle sue ricchezze naturali, e il primo atto fu
costruire grandi strade che tagliano la foresta: la Transamazzonica (BR 230)
dalla costa Atlantica fino a Porto Velho, la BR 364 da Nord a Sud attraverso il
Rondônia. Le strade hanno permesso di raggiungere zone prima remote: la foresta
amazzonica è un mondo fitto dove l’unica via di comunicazione naturale è la
ragnatela di fiumi e affluenti che la attraversa. Insieme alle strade il
governo ha dato incentivi a contadini desiderosi di emigrare e “conquistare”
nuove terre per sé. La foresta è stata tagliata per il legno pregiato, per
aprire miniere, e per guadagnare terra da coltivare: canna da zucchero, soia,
caffè, cacao, palma da olio e poi grandi allevamenti di bovini, secondo la
domanda del mercato. Così il Brasile ha avuto il suo mito della “frontiera”,
terre da colonizzare, coltivare, sfruttare. “La povera gente dagli stati del
Sud seguiva il sogno di un proprio rancho”, osserva Frei Atilio Battistuz. “Là
c’era terra per tutti, gli dicevano”: nel Mato Grosso, poi nel Rondonia, poi
via via sempre più a Nord all’interno della regione amazzonica. Il Minas
Gerais, l’Acre. “L’Amazzonia è un territorio conteso”, riassume Battistuz. “Ha
tutto ciò che serve allo sviluppo capitalista”: legname, risorse minerarie,
fiumi su cui costruire impianti idroelettrici. Ma quella terra non era vuota.
Dice che quella in corso è una guerra di culture: “Da dove vengono coloro che
disboscano, attaccano le comunità rurali, i fazenderos che
vogliono sbarazzarsi delle riserve protette? È la vecchia mentalità
colonizzatrice che perdura da secoli”.
Oggi la
frontiera è qui, nel Parà, uno Stato grande come Francia e Spagna insieme.
Belem è una sorta di confine tra il mondo acquatico dell’Amazzonia e quello
delle grandi tenute agricole. Usciti dalla città verso Nord-Ovest e Sud, ci si
ritrova in un “Texas equatoriale”: dove c’era la foresta sono distese di
pascoli, mandrie di bovini, aziende agricole grandi e piccole. Lungo
l’autostrada federale (qui è la BR 316) si allineano enormi stabilimenti dove
la soia è trasformata in mangimi, concessionarie di veicoli agricoli, depositi
di sementi, banche che pubblicizzano crediti per le aziende di allevamento,
oltre a supermercati e centri di shopping che ricordano un
Midwest statunitense di seconda categoria, in cui si muovono famigliole bianche
con grandi suv e pick-up. In alternativa, da Belem ci si
affaccia sulla baia fluviale dove arrivano i grandi cargo oceanici, si
oltrepassa il grande terminal di Barcarena, dove fanno il carico di soia sfusa,
si risale il Rio e i suoi bracci laterali, si schivano le grandi chiatte
cariche di legname: ed ecco il mondo dell’acqua. Un mondo dove il rio è
il tessuto di connessione per chi vive della foresta, di piccola agricoltura.
Dove la vita si svolge sulle canoe o sulle piccole barche di linea dove si
viaggia oscillando sulle amache. Ma è un mondo conteso. “Le comunità
tradizionali coltivavano su piccola scala, allevando poco bestiame. Sono
travolti dalle grandi fazendas, gli enormi allevamenti di bovini
che richiedono molta più acqua e depredano la terra, dalla monocoltura”,
insiste Frei Luciano Bernardi, che per molti anni è stato un responsabile della
Pastorale della Terra, organizzazione creata negli anni 70 dalla Chiesa
cattolica per dare sostegno ai movimenti per la terra.
Certo, in
questa annosa guerra di conquista ci sono stati momenti diversi. Qui tutti
evocano gli anni del governo dell’ex presidente Ignacio Lula Da Silva come un
momento di respiro: non che si fosse fermato il disboscamento, ma era
rallentato. La fine della dittatura militare aveva portato in Brasile un nuovo
clima sociale; la Costituzione del 1988 aveva affermato principi di
cittadinanza, sancito l’autodeterminazione dei popoli indigeni. Aveva permesso
di parlare nuovamente di riforma agraria, redistribuzione. Aveva fatto emergere
comunità discriminate come quelle dei quilombolas, i discendenti
degli schiavi africani che fuggivano dalle piantagioni e si ritiravano in
comunità libere nella foresta: nel Brasile moderno sono stati dimenticati; con
la nuova costituzione hanno acquistato una cittadinanza. Ora il Brasile è come
dopo un nuovo golpe, strisciante, cominciato con l’attacco alla presidente
Dilma Roussef (nel 2016) e con la pretestuosa condanna di Lula (nel 2018). Per
l’Amazzonia, il progetto di Bolsonaro è chiaro: rimettere in questione i
concetti di “ambientalismo, indigenismo, quilombolismo”, “integrare l’Amazzonia
alla nazione”. Mara Dultra fuma di rabbia: “Siamo tornati alla militarizzazione
dell’Amazzonia”. Parla di manipolazione: “Abbiamo un ministro dell’Ambiente
molto abile. Dice che anche gli indigeni vogliono lo sviluppo: ma quello che
gli offre è di vendere le terre delle riserve, come se fosse un affare alla
pari. A volte li convincono anche, ma quando una comunità tradizionale ha perso
la terra ha perso ogni ancoraggio alla sua vita sociale, il suo essere e anche
la sua sopravvivenza”.
La
protezione della foresta amazzonica è una questione di partecipazione, insiste
Dultra: si è costruita con anni di dialogo tra i popoli indigeni, le altre
popolazioni della foresta, la piccola agricoltura familiare, e gli esperti
governativi, i ricercatori, scienziati. Tutto questo rischia di scomparire. Non
avverrà senza resistenze, però. Anche in Amazzonia, come in tutto il Brasile,
resta un fronte sociale effervescente. Movimenti per la terra, comunità
indigene, quilombos, anche le chiese: il Sinodo per la terra
convocato nell’ottobre 2019 in Vaticano è stato preceduto da una grande
mobilitazione di base (vedi box). Intanto però la “guerra di conquista” ha i
suoi caduti. La Pastorale della Terra compila dal 1985 un elenco annuo di conflitti,
di morti, feriti. L’anno scorso ha contato 71 assassini, il maggior numero del
2003: significa un morto ogni cinque giorni in conflitti per la terra, omicidi
mirati di leader indigeni o sindacalisti rurali. Sempre l’anno scorso ci sono
stati cinque massacri, con 31 vittime. Il Parà e l’Acre hanno il maggior numero
di vittime. L’ultimo caso, in ordine di tempo, è avvenuto il 6 settembre a
Tabatinga, cittadina all’estremo ovest dell’Amazzonia brasiliana, alla “tripla
frontiera” tra Brasile, Colombia e Perù, dove un noto attivista sociale è stato
ammazzato a colpi di mitraglietta sotto gli occhi della sua famiglia, per
strada e in pieno giorno: Maxciel Pereira dos Santos era un funzionario del
Funai, e si era battuto contro l’invasione di cacciatori, tagliatori di legname
e cercatori d’oro nella riserva indigena di Vale do Javari, zona remota che
ospita numerose popolazioni indigene isolate. La Funai è stata spesso al centro
di polemiche, la sua politica di protezione dei popoli “incontattati” è discussa.
Resta però il fatto che la pressione di disboscatori illegali e garimpeiros (i
cercatori d’oro artigianali) si fa sentire in zone sempre più remote della
foresta amazzonica, come fossero le avanguardie di un’armata di coloni e fazenderos.
La guerra per l’Amazzonia continua.
L’ecologia
sociale dei vescovi in Amazzonia
C’è chi
parla di “conversione”, chi evoca “lo spirito del Concilio Vaticano secondo”,
quello che nei primi anni Settanta del Novecento in America Latina aveva
segnato l’apertura della chiesa ai movimenti sociali. Certo è che il Sinodo dei
vescovi dell’Amazzonia, che si terrà a Roma dal 6 al 27 ottobre, è stato
preceduto da due anni di mobilitazione della chiesa cattolica in una regione
che si estende tra Brasile, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Suriname,
Guyana e Guyana francese.
Un percorso
che ha coinvolto comunità di base e mondo ecclesiale ed è riassunto in un
documento di lavoro (“Instrumentum Laboris”) per molti aspetti sorprendente.
Primo, perché fa una diagnosi cruda. “La vita in Amazzonia è minacciata da
distruzione e sfruttamento ambientale” e dalla sistematica “violazione dei
diritti fondamentali dei popoli originari”, si legge; il diritto alla terra e
all’autodeterminazione sono minacciati “da interessi economici, in particolare
dalle compagnie estrattive, spesso con la connivenza dei governi locali e
nazionali e delle autorità tradizionali”. I vescovi denunciano la
criminalizzazione e l’assassinio di leader locali e difensori del territorio;
l’appropriazione e privatizzazione di beni naturali; i megaprogetti
idroelettrici, le concessioni forestali e minerarie che portano all’espulsione
degli abitanti; l’inquinamento provocato dall’industria estrattiva; il
narcotraffico. “Tutto questo aumenta l’impoverimento dei popoli amazzonici”,
oltre a minacciare gli ecosistemi e il clima globale.
Ma l’aspetto
più sorprendente è l’apertura a concetti propri delle cosmovisioni amazzoniche,
basate sull’armonia dei rapporti tra acqua, territorio e natura. L’Amazzonia,
affermano i vescovi, è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso, e
la chiesa ha molto da imparare dai popoli indigeni con la loro forte
spiritualità: serve “un dialogo interculturale in cui i popoli tradizionali
siano principali interlocutori”. Ma questo significa fare i conti con il ruolo
avuto dall’istituzione cattolica: “La Chiesa a volte è stata complice dei
colonizzatori”.
Nel percorso
di base di avvicinamento al Sinodo ha inoltre molta risonanza l’appello alla
“ecologia integrale” già enunciata da papa Francesco nella enciclica Laudato
Si’: “Un vero approccio ecologico è sempre un approccio sociale” che ascolta
“il grido della terra insieme al grido dei poveri”. La chiesa dunque fa appello
al dialogo e alla resistenza, alla “santa indignazione” di San Tommaso d’Aquino
contro le ingiustizie. Un’apertura sociale che non si sentiva da tempo.
In Amazzonia
continua la “guerra di conquista” – Marina Forti
L’Amazzonia
è di nuovo scomparsa dai nostri schermi, dopo il clamore suscitato dalla crisi
degli incendi della scorsa estate nell’Amazzonia brasiliana. Eppure, la
deforestazione accelera: secondo
l’Istituto nazionale di ricerca spaziale del Brasile (Inpe,
Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais), che con i suoi satelliti monitora i
cambiamenti nel territorio amazzonico, da agosto 2018 a fine luglio 2019 sono
scomparsi 9.762 chilometri quadrati di foresta, quasi il 30 per cento più
dell’anno precedente quando erano scomparsi 7.536 chilometri quadrati.
Non solo.
Analizzando quei dati, l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia
(Ipam) osserva che il 35 per
cento delle foreste distrutte in quell’arco di tempo erano in terre “non
designate o su cui non ci sono informazioni”, cioè territorio pubblico. E
questo è grilagem, termine che indica l’appropriazione illegale di
terra pubblica attraverso la contraffazione dei documenti di proprietà: “Quelle
foreste sono patrimonio di tutti i brasiliani e vengono dilapidate illegalmente
per finire nelle mani di pochi” dice Ane Alencar, direttora scientifica
dell’Ipam. Inoltre, sono raddoppiati gli incendi all’interno delle riserve
indigene, in particolare in quelle del fiume Xingu, e a nord, nel
Roraima: perché sono aumentate le invasioni di terre demarcate e assegnate a
comunità native. Ad aggravare le cose, le stagioni secche sono più intense e
più lunghe.
Gran parte
degli incendi della scorsa estate sono avvenuti lungo una linea chiamata “arco
della deforestazione”: una fascia che va dal Parà a ovest, a parte del Mato
Grosso, al Rondônia che confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso
la frontiera con il Perù: come una grande mezzaluna che circonda l’Amazzonia da
sud. La relazione tra incendi e disboscamento è nota: tagliati gli alberi, le
fiamme servono a liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o
coltivazioni. Gli incendi della scorsa estate sono stati deliberati e hanno
anche una data di inizio, il 10 agosto, quando centinaia di roghi sono stati
appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato “o dia
do fogo”, il giorno del fuoco. In quei giorni, alcuni fazendeiros hanno
dichiarato con candore la propria intenzione al giornale Folha do
Progresso, del Parà: con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare
il governo”, sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro di “aprire la
foresta amazzonica allo sfruttamento economico moderno”.
Così, ogni
stagione di incendi segna una nuova avanzata delle coltivazioni intensive,
pascoli, fabbriche di mangimi (quello che i padroni dell’agrobusiness chiamano
“sfruttamento moderno”, al contrario della piccola agricoltura familiare e
sostenibile praticata dagli abitanti della foresta, indigeni e non). Intanto,
secondo diversi studiosi, ampie zone dell’Amazzonia che sono ormai vicine al punto di “non ritorno”,
cioè quando la foresta non è più in grado di rigenerarsi.
Gli incendi
sono parte di una sorta di guerra in corso nell’Amazzonia brasiliana. Una
guerra di conquista, combattuta a colpi di invasioni di terre, comunità
assediate, scorrerie di bande armate agli ordini di grandi latifondisti e
imprenditori, e di attivisti uccisi.
Il conflitto
per la terra non è certo una novità in Amazzonia: ma nell’era di Bolsonaro è
divenuto più violento, mentre le istituzioni di controllo sono delegittimate
(vedi il reportage dall’Amazzonia brasiliana su Altreconomia,
ottobre 2019).
Favelas
fluviali
Intanto in
Amazzonia sorgono altri conflitti. Sono legati alle gang che controllano il
narcotraffico che usa il rio delle Amazzoni come una specie di autostrada; alla
prostituzione, alla povertà urbana.
Infatti,
anche se l’immaginario di questa regione è legato alla foresta e ai fiumi
che la solcano, ai popoli indigeni e alle comunità tradizionali, ormai il 70
per cento della popolazione amazzonica vive in aree urbane. Metropoli
storiche come Manaus e Belem, con oltre due milioni di abitanti, hanno almeno
un paio di secoli di storia e continuano a crescere. Ma negli ultimi trent’anni
si sono moltiplicati anche i centri urbani minori, cresciuti per lo più attorno
al commercio delle derrate agricole o dei minerali. Nel solo delta amazzonico si
può contare una cinquantina di agglomerati tra diecimila e un milione di
abitanti. Ogni comunità rurale espropriata della terra finisce per ingrossare
la popolazione urbana. Quando si dice città però bisogna intendersi: strade
asfaltate e amenità come l’acqua corrente sono limitate, le infrastrutture
urbane sono minime. Invece crescono insediamenti informali, ammassi di case su
palafitta che sembrano un po’ villaggio fluviale e un po’ favela urbana, segno
di una trasformazione ormai inesorabile anche in Amazzonia.
Come Breves,
cittadina in pieno delta del Rio delle Amazzoni, sull’isola di Marajò che è
grande due volte la Lombardia. Dista undici ore di battello fluviale o sei ore
di catamarano da Belem, la capitale del Parà, uno dei grandi stati dell’Amazzonia
brasiliana.
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