sabato 1 febbraio 2020

Per non dimenticare l'Amazzonia



Breves è una cittadina in pieno delta del rio delle Amazzoni, sull’isola di Marajó, grande due volte la Lombardia. È lontana undici ore di battello o sei ore di catamarano da Belém, la capitale del Pará, uno dei grandi stati dell’Amazzonia brasiliana. Ha una chiesa cattolica ben visibile sul lungofiume, una piazza alberata per il passeggio serale. Ha anche un hotel con palmette, piscina e cocktail bar in stile Miami Beach, dove i (pochi) benestanti della città vanno a rinfrescarsi. L’hotel porta lo stesso nome della maggiore compagnia di navigazione del delta, la Bom Jesus, che possiede anche una catena di distributori di benzina, supermercati e farmacie: appartiene a una delle due famiglie di proprietari terrieri e imprenditori che dominano la regione. Anche la famiglia concorrente possiede una compagnia di navigazione, piantagioni e supermercati. Terra e commercio, il connubio che domina l’Amazzonia.
Per raggiungere la favela di Breves bisogna seguire il lungofiume, oltre l’imbarcadero della Bom Jesus e la fila di negozietti che espongono utensili, amache, attrezzi da pesca, generi alimentari, telefoni di seconda mano. Dopo poche decine di metri l’asfalto scompare e la strada diventa una pista di terra tra case di legno costruite su piattaforme sopraelevate. “Nella stagione delle piogge tutto strabocca, siamo in un acquitrino fangoso”, spiega Sandra Araújo, giovane missionaria e assistente sociale che ha scelto di vivere in questa favela.
Più ci addentriamo, più le case diventano catapecchie. A volte la strada scavalca un fiumiciattolo laterale, dove si vede una canoa legata a una palafitta. Un po’ villaggio fluviale e un po’ favela urbana, segno di una trasformazione ormai inesorabile pure in Amazzonia. Anche se l’immaginario di questa regione è legato alla foresta e ai fiumi che la solcano, ai popoli indigeni e alle comunità tradizionali, ormai il 70 per cento della popolazione amazzonica vive in aree urbane come questa. Metropoli storiche come Manaus e Belém, con più di due milioni di abitanti, hanno almeno un paio di secoli di storia. Ma negli ultimi trent’anni si sono moltiplicati anche i centri urbani più piccoli, cresciuti per lo più attorno al commercio di prodotti agricoli o di minerali. Qui nel delta ce ne sono una cinquantina, tra i diecimila e il milione di abitanti: con i suoi centomila residenti e una sede dell’Università federale del Pará, Breves è una città dalle dimensioni medie. Quando si dice città però bisogna intendersi: le strade asfaltate sono poche e le infrastrutture sono minime. Basta uscire dal centro per rendersene conto.

“Come si vive in una favela amazzonica? La prima cosa da dire è che manca l’acqua potabile”, risponde Luciane Ribeiro, i capelli raccolti da una fascia multicolore come un turbante. “Sì, è paradossale: siamo circondati dall’acqua, ma quella filtrata arriva solo ai quartieri centrali di Breves, qui non ci sono fognature né acqua corrente. Il fiume è lercio, ma gli abitanti usano la sua acqua per lavarsi, bere, cucinare. Molti si ammalano di diarrea, e per i bambini spesso è letale”.
Sandra Araújo e Luciane Ribeiro, chiamata Lou, sono due suore cattoliche dell’ordine di Nostra Signora di Namur. E sono anche due attiviste. Vivono insieme a una consorella nella casa fatta costruire nel 2005 da una donna di grande carisma, la missionaria Dorothy Stang, uccisa quello stesso anno ad Anapu. “Il nostro progetto è stare con i poveri nei luoghi più abbandonati”, spiega Araújo, capelli ricci e maglietta color pastello. E che questo ammasso di casupole sia povero e abbandonato non c’è dubbio.
Lavori informali e precari
La casa delle missionarie non è diversa dalle altre, salvo per il legno più solido. È costruita su palafitta come le altre: “Nell’acquitrino qui sotto c’è un pesce cobra. Ma finché non metti le mani in acqua non è pericoloso”, ride Lou. Non ci sono grate né lucchetti, tanto comuni nelle città brasiliane perfino nei quartieri più poveri. Loro però si sentono al sicuro, dicono, grazie al rispetto suscitato dalla prima missionaria che si era stabilita in questa casa, “una donna dai capelli bianchi che parlava con tutti e ha visto crescere i figli dei vicini. Lo stesso rispetto ora si estende a noi”.
Le due suore tengono un doposcuola nella grande veranda sul retro: “È molto frequentato e siamo contente, anche se sappiamo che i bambini vengono soprattutto per la merenda: molti qui faticano a mettere insieme pranzo e cena”. La mancanza di cibo nutriente è anche il motivo del ritardo scolastico, osserva Araújo: “Molti faticano a leggere. Stentano a memorizzare le lettere dell’alfabeto, non riescono a concentrarsi. Inoltre, non hanno accesso a libri, salvo che a scuola. Così facciamo gruppi da tre a cinque bambini per seguirli meglio”.
 “Spesso i bambini sono lasciati a se stessi”, spiega Ribeiro. Per andare a lavorare, le madri li devono affidare ai vicini. Pochi crescono con i genitori, più spesso sono affidati a nonni o zii, o altri adulti. Di cosa vive la favela? “Di lavoretti. Alcuni fanno i venditori ambulanti con i carretti in giro per la città, vendono bibite o cibi cucinati. Altri trovano lavori al porto. Le donne magari fanno le domestiche per le famiglie del centro”. Un’economia informale e precaria. Il mercoledì e il sabato in città c’è il mercato, e chi ha ancora un po’ di terra da coltivare va a vendere ortaggi e frutta.
È l’imbrunire di un giovedì di metà settembre, alcuni bambini giocano per strada, mentre qua e là nelle verande si vendono bibite e birra, e intorno si formano capannelli di uomini. Nei fine settimana l’atmosfera si scalda, raccontano Ribeiro e Araújo: “Spesso gli uomini si sbronzano e scoppiano continue risse”, poi magari si rifanno picchiando le donne di casa. “Essere una donna nel Marajó è pericoloso”, dice Lou Ribeiro.
Contro i padroni della terra
Cos’ha portato queste giovani donne a vivere nella favela fluviale? Luciane Ribeiro, la più giovane, è di Belém, capitale del Pará. Era una studente impegnata in attività sociali e nel 2005 si era unita al gruppo di Dorothy Stang. Le toccò assistere all’autopsia della missionaria, eseguita a Belém, e ricorda ancora con sconcerto “la folla di giornalisti che si accanivano a fotografare quel corpo nudo crivellato di proiettili, senza ritegno”. Non era un mistero che a uccidere la suora fossero stati uomini armati agli ordini di un gruppo di fazendeiros, proprietari terrieri, per intimidire chi si batteva per la riforma agraria. Ribeiro dice che per lei è stata una sfida.
Sandra Araújo invece ha studiato ad Anapu. La sua famiglia era originaria del Maranhão, poverissimo stato del nordest brasiliano affacciato sulla costa atlantica. Negli anni ottanta i suoi genitori erano emigrati, come tanti, inseguendo il sogno di un pezzo di terra. “Eravamo migranti della Transamazzonica”, spiega. Era l’epoca della dittatura militare, la strada che tagliava la regione amazzonica era in costruzione e il governo incoraggiava i contadini poveri a “colonizzare” la foresta per sfruttarne le immense risorse, tagliare la legna, aprire miniere, costruire dighe, coltivare la terra. I militari parlavano di “sviluppo moderno” e di “integrare l’Amazzonia alla nazione”, le stesse parole che usa oggi il presidente di estrema destra Jair Bolsonaro.
Sta di fatto che tra gli anni sessanta e ottanta un grande flusso di persone si è riversato lungo la nuova strada. La terra però restava un sogno, perché i nuovi migranti si ritrovarono a lavorare per grandi latifondisti, supersfruttati. “Ma era nato un movimento perché la terra fosse assegnata a chi la lavorava”, ricorda Araújo. Muovevano i loro primi passi i sindacati rurali per difendere la piccola agricoltura a conduzione familiare. “Nel 1985 la mia famiglia ha vinto”, cioè le erano state assegnate delle terre da coltivare.
Più tardi Araújo si è trasferita ad Anapu per continuare gli studi ed è allora che ha conosciuto Stang, la suora nordamericana che parlava di riforma agraria. “Era una grande educatrice. È stata descritta come ambientalista perché sosteneva la piccola agricoltura a conduzione familiare che usa in modo sostenibile la foresta, ma era molto di più: lavorava per il diritto alla terra e perché le donne si costruissero vite libere, oltre che per il diritto all’istruzione e alle cure”. Stang aveva raccolto intorno a sé gruppi di giovani e studenti. “Quando avevo 17 anni mi propose di lavorare nella sua pastorale. Ero felice. I miei genitori no, dicevano che era pericoloso. Risposi che non c’era alcun pericolo finché non ti mettevi contro i padroni della terra, e partii”. Ride: “Beh, combattere i padroni della terra è proprio quello che faccio ora”.
Oggi Sandra Araújo è avvocata e dirigente della Commissione pastorale della terra, l’organizzazione creata dalla chiesa cattolica nel 1975, in piena dittatura, per sostenere le lotte dei senza terra. Per anni ha seguito Stang da un villaggio all’altro, “a volte camminavamo quindici chilometri, zaino in spalla, per visitare le comunità più sperdute”. Dice che non sarebbe diventata una suora se non fosse stato per quella signora dai capelli bianchi: “Non mi attirava l’idea di chiudermi nelle regole di un ordine. Ma mi piaceva quello che faceva lei”. Ha lavorato nei quilombo, le comunità create dai discendenti degli schiavi africani fuggiti dalle piantagioni della costa per rifugiarsi nella foresta profonda: nel Brasile moderno sono rimasti ai margini, non più schiavi ma neanche cittadini a pieno titolo. Solo dopo il 1985, finita la dittatura militare, quando il paese si è dato una nuova costituzione, solo allora queste comunità si sono viste riconoscere dei veri diritti, come anche i popoli indigeni e le altre comunità tradizionali della foresta.
Conflitti più violenti
Le comunità rurali degli anni ottanta erano povere e sfruttate, ma davano battaglia, osserva Sandra Araujo: “Oggi qui invece vedo grande passività”. Parla della favela urbana, ma anche del conflitto agrario. Per la Commissione pastorale della terra Araujo è responsabile di una zona immensa, posti lontani diversi giorni di battello e canoa. “Noi interveniamo dove ci chiamano. Quando scoppia un conflitto cerchiamo di dargli visibilità, far circolare le notizie, e se è possibile proviamo a organizzare azioni legali”.
In questo momento sta seguendo tre casi. Uno riguarda delle imprese di disboscamento che hanno invaso una zona protetta. Poi ci sono due comunità che lavorano terre in concessione dallo stato, ma sono state usurpate da imprese agroindustriali. “È una zona lontana almeno due giorni di battello da Breves, dove stanno nascendo grandi piantagioni: per decine di chilometri vedi solo palma di açaí”, un frutto divenuto molto popolare (usato per fare succhi, gelati e una pasta che ha vari usi alimentari). “La monocoltura mette in pericolo la sopravvivenza di migliaia di famiglie”.
“L’intero territorio del Marajó è demanio dello stato”, spiega l’avvocata. “Ma arrivano imprenditori con pochi scrupoli, esibiscono documenti di proprietà pretestuosi e cacciano via le piccole comunità fluviali: contano sul fatto che la povera gente non sa che quei titoli sono usurpati”. Si chiama grilagem, parola che indica l’appropriazione indebita di terra. Gli imprenditori ricevono una concessione ma disboscano e coltivano aree molto più ampie, oppure titoli di proprietà falsificati. Come le famiglie di Breves che si sono attribuite grandi piantagioni. “Ci troviamo davanti a persone sicure della propria impunità”, dice Araujo, “quando abbiamo cercato di negoziare hanno risposto in modo chiaro che non hanno nulla da trattare”. È chiaro che contano su protezioni politiche, osserva Araujo. Del resto, a Breves le due famiglie si alternano anche nella carica di sindaco.
Il conflitto per la terra non è certo una novità, ma nell’era del presidente Jair Bolsonaro è diventato più violento. “Tutte le istituzioni di controllo sono state depotenziate”, riassume Fabiane Nascimento, insegnante e attivista della Commissione giustizia e pace, incontrata alla casa parrocchiale di Breves. Spiega che all’Istituto per l’ambiente e le risorse naturali (Ibama), alla fondazione per la protezione dei popoli indigeni (Funai) e a tutte le istituzioni di ricerca sono stati tagliati i fondi e sono stati tolti incarichi. Un esempio si è avuto in agosto: quando l’Istituto nazionale di ricerca spaziale (Inpe), che monitora la deforestazione grazie ai suoi satelliti, ha diffuso i primi allarmi sull’aumento di incendi in Amazzonia, il presidente Bolsonaro ha licenziato il direttore accusandolo di creare allarme. “Quando delegittimi le istituzioni di controllo il messaggio è chiaro”, insiste Nascimento. I disboscatori contano sull’impunità. I conflitti per la terra aumentano, e anche la violenza. La Pastorale della terra, che tiene un registro dei conflitti agrari in Brasile, ha contato 71 persone uccise nel 2018 in tutto il paese, leader di comunità rurali o sindacati della terra o comunità indigene: una morte violenta ogni cinque giorni. Il record è proprio nello stato del Pará.
Ogni conflitto per la terra, ogni villaggio sfrattato per far posto a nuove piantagioni, finisce per ingrossare favelas come quella di Breves. “Molti arrivano dalle comunità fluviali sperando di trovare migliori occasioni in città. Ma non riusciranno a studiare né a trovare un lavoro stabile”, osserva Michéle Araújo, giovane attivista di Breves, che nonostante il cognome non ha alcuna relazione con l’avvocata della Pastorale della terra. Per chi cresce nelle periferie urbane amazzoniche non ci sono grandi opportunità, spiega. Descrive una vita precaria: “L’alternativa più attraente per un giovane è il piccolo spaccio di droga: se sopravvive magari entrerà in una gang”. A Breves ce ne sono due, piccole, ma affiliate a quelle più grandi e potenti a livello nazionale. “Poi c’è la polizia che non fa processi ma esecuzioni sommarie, con la scusa di combattere il narcotraffico”, dice Michéle Araújo.
 “Anche la prostituzione è molto diffusa”, osserva Lou Ribeiro. Il delta amazzonico è un crocevia, le chiatte del legname e le navi oceaniche viaggiano verso il terminal appena a monte di Belém, dove si caricano la soia e i minerali, mentre i traghetti commerciali e quelli del narcotraffico discendono il rio delle Amazzoni fino all’Atlantico. “A volte sono i padri stessi che offrono le ragazze agli equipaggi delle navi di passaggio”.
Qualcuno ce la fa a sfuggire a questo destino di miseria e violenza? Sandra Araújo cita ragazze di questa favela che sono riuscite a studiare, tra mille difficoltà; una si sta laureando. E la parrocchia locale, vi sostiene? Ridono: “Non ci ostacola”. Parlano di una chiesa che “si limita alla carità”, senza aggredire i problemi strutturali della povertà. Riemerge la tensione, anche questa antica, tra una chiesa che si batte per la giustizia sociale e una più conservatrice. L’avvocata osserva che la chiesa è tra le poche organizzazioni sociali che hanno una presenza capillare in Amazzonia. Insieme al sindacato dei lavoratori rurali, ai movimenti per la terra, le reti di popoli indigeni, queste attiviste delle favelas restano un presidio di resistenza democratica nel Brasile di Jair Bolsonaro.
Forse è per questo che il presidente brasiliano ha duramente attaccato i vescovi che parteciperanno al sinodo sull’Amazzonia, convocato da papa Francesco, che si aprirà il 6 ottobre in Vaticano. Il governo Bolsonaro li accusa di voler “promuovere un programma di sinistra” e di favorire “l’interferenza straniera”. Come durante la crisi degli incendi, riecheggia lo slogan che fu della dittatura militare: “L’Amazzonia è nostra”. Le attiviste della favela di Breves si chiedono: “Nostra di chi?”.



Reportage dall’Amazzonia brasiliana dove è in corso una “guerra di conquista” contro i popoli indigeni - Marina Forti


“Continuano gli attacchi”, dice la giovane donna. “Non ne troverai notizia sui giornali, i grandi media osservano il silenzio. Ma i nostri villaggi continuano a essere attaccati dai tagliatori illegali di legname e i fazenderos continuano a invadere i territori delle nostre comunità”. Siamo nel campus dell’Università federale a Belem, la capitale del Parà, in Brasile, città di quasi tre milioni di abitanti affacciata sul rio delle Amazzoni, o meglio, su uno dei bracci laterali del fiume largo quanto un mare, che qui ha cominciato a formare il suo immenso delta. Belem è una porta dell’Amazzonia e in questo campus universitario in riva al fiume si è riunito in settembre un forum “dei popoli e delle comunità tradizionali”. Rappresentano comunità native, sindacati rurali, organizzazioni di piccoli agricoltori e comunità rivierasche, movimenti sociali. Virginia, la dottoranda in jeans neri, con una piuma multicolore come orecchino e i capelli corti tinti di azzurro, è tra gli studenti di origine indigena che dirige l’incontro. Parla di attacchi quotidiani contro i leader delle battaglie per la terra, di movimenti di resistenza. Le notizie circolano tra le reti di organizzazioni indigene, i movimenti per la terra, le organizzazioni sociali.
In Amazzonia è in corso una sorta di guerra. È una guerra di conquista, combattuta a colpi di invasioni di terre, comunità assediate, scorrerie di bande armate agli ordini di imprenditori agricoli (qui li chiamano fazenderos) e attivisti uccisi. Combattuta anche con il fuoco: centinaia, migliaia di incendi che bruciano ormai da un paio di mesi, segno inequivocabile di come uno sfruttamento insensato delle risorse stia devastando la più grande regione di foresta tropicale del Pianeta. Anche gli incendi fanno parte della “guerra di conquista”. Dall’inizio di agosto divampano in ampie zone della regione amazzonica brasiliana, lungo una linea chiamata “arco della deforestazione”: una fascia che va dal Parà meridionale a parte del Mato Grosso, al Rondônia che confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso la frontiera con il Perù, come una grande mezzaluna che attraversa diversi Stati e circonda l’Amazzonia da Sud. Altri incendi sono nel Nord, nel Roraima, un altro Stato pesantemente deforestato verso la frontiera con il Venezuela.
Gli incendi non sono una novità assoluta, compaiono ogni anno all’inizio della stagione secca (ma sarebbe meglio dire “meno umida”, qui piove quasi ogni giorno), quando i coltivatori bruciano i campi per preparare una nuova semina: la queimada è una pratica tradizionale e regolamentata, spiega Mara Dultra, esperta della regione amazzonica, consigliera della rete di organizzazioni sociali chiamata Cese (cese.org.br), che incontriamo nella sede di Salvador, nello Stato di Bahia. Questa volta però è successo qualcosa di più, spiega. Gli incendi sono triplicati rispetto alla media degli anni scorsi, per numero e per estensione, e hanno raggiunto o forse superato il picco del 2010, che fu un altro anno di crisi. Sono i dati ufficiali a dirlo. Gli ultimi sono quelli diffusi il 6 settembre dall’Inpe, l’Istituto nazionale di ricerca spaziale, che monitora il territorio brasiliano grazie alle foto dei suoi satelliti. Il 29 agosto l’Inpe registrava 1.255 fuochi attivi, il doppio del giorno precedente. La gran parte arde nelle foreste del Parà (quasi 600), seguito dal Mato Grosso, Amazonas, Rondônia, Acre. In tutto agosto sono stati più di 30mila, e per volume hanno superato la media storica degli incendi d’agosto. Nei primi giorni di settembre continuavano ad aumentare. Città come Altamira, nel Parà, sono circondate dalle fiamme e coperte dal fumo. Il numero di incendi attivi ha una relazione diretta con la deforestazione, anche questo è confermato dai dati. L’Inpe informa che nei primi otto mesi dell’anno, fino a tutto agosto, sono stati disboscati 6.400 chilometri quadrati di foresta amazzonica, il 92 per cento più rispetto all’anno prima, e il ritmo è triplicato nel solo mese di agosto. Tagliati gli alberi, le fiamme servono a liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o coltivazioni.

La crisi degli incendi ha una data di inizio. È il 10 agosto, quando centinaia di roghi sono stati appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato “o dia do fogo”, il giorno del fuoco. “È stato un atto criminoso e i responsabili non sono un mistero, si conoscono per nome e cognome, sono alcuni grandi fazenderos”, spiega Josè Carlos Zanetti, attivista dei movimenti per la terra, presso la Cese. E non si trattava di ripulire i campi. Con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare il governo”, hanno dichiarato con candore alcuni fazenderos al giornale Folha do Progresso, del Parà: sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro di aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento economico. È proprio questo il punto: “aprire” la foresta significa entrare in nuovi territori, quelli delle riserve indigene o comunque protetti come le “riserve estrattiviste”, quelle affidate a comunità rurali che raccolgono gomma naturale (i seringueiros) o altri frutti della foresta, o coltivano piccole porzioni di terreno a rotazione in modo sostenibile e controllato, su piccola scala: create negli ultimi trent’anni, le riserve estrattiviste nascevano da un movimento popolare guidato da uno straordinario personaggio, Chico Mendes, ucciso nel dicembre 1988 da uomini armati al servizio di alcuni latifondisti. La guerra per conquistare l’Amazzonia è antica.
La crisi degli incendi ha i suoi risvolti politici, interni e internazionali: quando l’Istituto nazionale di ricerca spaziale ha diffuso i primi dati sulla deforestazione, all’inizio di agosto, il presidente Jair Bolsonaro dapprima ha negato, poi ha licenziato il direttore dell’Istituto reo di aver creato eccessivo allarme. Poi ha incolpato “le Ong”. L’allarme aveva già raggiunto i mass media internazionali, creando scintille nelle relazioni tra il Brasile e il mondo; da un lato governi europei improvvisamente preoccupati della salute del “polmone del Pianeta”, dall’altro uno strafottente Bolsonaro che replica “l’Amazzonia è nostra”. Con un tardivo intervento, a metà agosto il presidente brasiliano ha mandato 40mila uomini delle forze armate a contenere le fiamme. Il 28 agosto ha firmato un decreto che vietava di appiccare fiamme nei successivi 60 giorni. Ma non sembra molto efficace: l’Inpe ha mostrato come i fuochi attivi siano raddoppiati nei giorni seguenti.
 “Gli incendi aumentano e temiamo il peggio, la stagione secca è appena all’inizio”, spiega Mara Dultra. Le comunità rurali che vivono nel fondo della foresta sono assediate dalle fiamme, spiega; interi villaggi sono in emergenza sanitaria, perché respirano fumo e molti sono costretti alla fuga. Forse, al momento di stampare queste righe, le fiamme avranno cominciato a calare, ma le conseguenze perdureranno a lungo. “Uno degli effetti è mettere in pericolo la sicurezza alimentare dei villaggi nel prossimo anno, perché sono bruciate le zone di raccolta su cui si fondavano”, ma -teme Dultra- è solo l’inizio. Le politiche di protezione della foresta e dei suoi abitanti sono state depotenziate e delegittimate. L’ente di protezione ambientale (ibama.gov.br), quello per le popolazioni indigene (funai.gov.br), “tutte le istituzioni di ricerca e di controllo sono senza fondi, demoralizzate, smobilitate. Hanno allentato le normative ambientali, il ministro dell’Ambiente dice che bisogna sfruttare ‘in modo razionale’ le risorse forestali, renderle produttive, sviluppare le miniere, l’allevamento, l’agricoltura. Parlano di aprire le zone di conservazione, che sommate alle riserve indigene e a quelle estrattiviste sono un territorio notevole. Con un messaggio simile, l’agrobusiness è perfettamente legittimato ad andare all’assalto dell’Amazzonia. I disboscatori illegali sanno di avere un governo amico” spiega la ricercatrice. 
Il linguaggio del governo Bolsonaro -“aprire” la foresta, “l’Amazzonia è nostra”- non è nuovo. È quello usato già mezzo secolo fa dai militari, quando hanno preso il potere con un golpe nel 1964 (la dittatura in Brasile è durata fino al 1985). È il regime militare che ha lanciato il primo sfruttamento “moderno” della foresta amazzonica e delle sue ricchezze naturali, e il primo atto fu costruire grandi strade che tagliano la foresta: la Transamazzonica (BR 230) dalla costa Atlantica fino a Porto Velho, la BR 364 da Nord a Sud attraverso il Rondônia. Le strade hanno permesso di raggiungere zone prima remote: la foresta amazzonica è un mondo fitto dove l’unica via di comunicazione naturale è la ragnatela di fiumi e affluenti che la attraversa. Insieme alle strade il governo ha dato incentivi a contadini desiderosi di emigrare e “conquistare” nuove terre per sé. La foresta è stata tagliata per il legno pregiato, per aprire miniere, e per guadagnare terra da coltivare: canna da zucchero, soia, caffè, cacao, palma da olio e poi grandi allevamenti di bovini, secondo la domanda del mercato. Così il Brasile ha avuto il suo mito della “frontiera”, terre da colonizzare, coltivare, sfruttare. “La povera gente dagli stati del Sud seguiva il sogno di un proprio rancho”, osserva Frei Atilio Battistuz. “Là c’era terra per tutti, gli dicevano”: nel Mato Grosso, poi nel Rondonia, poi via via sempre più a Nord all’interno della regione amazzonica. Il Minas Gerais, l’Acre. “L’Amazzonia è un territorio conteso”, riassume Battistuz. “Ha tutto ciò che serve allo sviluppo capitalista”: legname, risorse minerarie, fiumi su cui costruire impianti idroelettrici. Ma quella terra non era vuota. Dice che quella in corso è una guerra di culture: “Da dove vengono coloro che disboscano, attaccano le comunità rurali, i fazenderos che vogliono sbarazzarsi delle riserve protette? È la vecchia mentalità colonizzatrice che perdura da secoli”.
Oggi la frontiera è qui, nel Parà, uno Stato grande come Francia e Spagna insieme. Belem è una sorta di confine tra il mondo acquatico dell’Amazzonia e quello delle grandi tenute agricole. Usciti dalla città verso Nord-Ovest e Sud, ci si ritrova in un “Texas equatoriale”: dove c’era la foresta sono distese di pascoli, mandrie di bovini, aziende agricole grandi e piccole. Lungo l’autostrada federale (qui è la BR 316) si allineano enormi stabilimenti dove la soia è trasformata in mangimi, concessionarie di veicoli agricoli, depositi di sementi, banche che pubblicizzano crediti per le aziende di allevamento, oltre a supermercati e centri di shopping che ricordano un Midwest statunitense di seconda categoria, in cui si muovono famigliole bianche con grandi suv e pick-up. In alternativa, da Belem ci si affaccia sulla baia fluviale dove arrivano i grandi cargo oceanici, si oltrepassa il grande terminal di Barcarena, dove fanno il carico di soia sfusa, si risale il Rio e i suoi bracci laterali, si schivano le grandi chiatte cariche di legname: ed ecco il mondo dell’acqua. Un mondo dove il rio è il tessuto di connessione per chi vive della foresta, di piccola agricoltura. Dove la vita si svolge sulle canoe o sulle piccole barche di linea dove si viaggia oscillando sulle amache. Ma è un mondo conteso. “Le comunità tradizionali coltivavano su piccola scala, allevando poco bestiame. Sono travolti dalle grandi fazendas, gli enormi allevamenti di bovini che richiedono molta più acqua e depredano la terra, dalla monocoltura”, insiste Frei Luciano Bernardi, che per molti anni è stato un responsabile della Pastorale della Terra, organizzazione creata negli anni 70 dalla Chiesa cattolica per dare sostegno ai movimenti per la terra.
Certo, in questa annosa guerra di conquista ci sono stati momenti diversi. Qui tutti evocano gli anni del governo dell’ex presidente Ignacio Lula Da Silva come un momento di respiro: non che si fosse fermato il disboscamento, ma era rallentato. La fine della dittatura militare aveva portato in Brasile un nuovo clima sociale; la Costituzione del 1988 aveva affermato principi di cittadinanza, sancito l’autodeterminazione dei popoli indigeni. Aveva permesso di parlare nuovamente di riforma agraria, redistribuzione. Aveva fatto emergere comunità discriminate come quelle dei quilombolas, i discendenti degli schiavi africani che fuggivano dalle piantagioni e si ritiravano in comunità libere nella foresta: nel Brasile moderno sono stati dimenticati; con la nuova costituzione hanno acquistato una cittadinanza. Ora il Brasile è come dopo un nuovo golpe, strisciante, cominciato con l’attacco alla presidente Dilma Roussef (nel 2016) e con la pretestuosa condanna di Lula (nel 2018). Per l’Amazzonia, il progetto di Bolsonaro è chiaro: rimettere in questione i concetti di “ambientalismo, indigenismo, quilombolismo”, “integrare l’Amazzonia alla nazione”. Mara Dultra fuma di rabbia: “Siamo tornati alla militarizzazione dell’Amazzonia”. Parla di manipolazione: “Abbiamo un ministro dell’Ambiente molto abile. Dice che anche gli indigeni vogliono lo sviluppo: ma quello che gli offre è di vendere le terre delle riserve, come se fosse un affare alla pari. A volte li convincono anche, ma quando una comunità tradizionale ha perso la terra ha perso ogni ancoraggio alla sua vita sociale, il suo essere e anche la sua sopravvivenza”.
La protezione della foresta amazzonica è una questione di partecipazione, insiste Dultra: si è costruita con anni di dialogo tra i popoli indigeni, le altre popolazioni della foresta, la piccola agricoltura familiare, e gli esperti governativi, i ricercatori, scienziati. Tutto questo rischia di scomparire. Non avverrà senza resistenze, però. Anche in Amazzonia, come in tutto il Brasile, resta un fronte sociale effervescente. Movimenti per la terra, comunità indigene, quilombos, anche le chiese: il Sinodo per la terra convocato nell’ottobre 2019 in Vaticano è stato preceduto da una grande mobilitazione di base (vedi box). Intanto però la “guerra di conquista” ha i suoi caduti. La Pastorale della Terra compila dal 1985 un elenco annuo di conflitti, di morti, feriti. L’anno scorso ha contato 71 assassini, il maggior numero del 2003: significa un morto ogni cinque giorni in conflitti per la terra, omicidi mirati di leader indigeni o sindacalisti rurali. Sempre l’anno scorso ci sono stati cinque massacri, con 31 vittime. Il Parà e l’Acre hanno il maggior numero di vittime. L’ultimo caso, in ordine di tempo, è avvenuto il 6 settembre a Tabatinga, cittadina all’estremo ovest dell’Amazzonia brasiliana, alla “tripla frontiera” tra Brasile, Colombia e Perù, dove un noto attivista sociale è stato ammazzato a colpi di mitraglietta sotto gli occhi della sua famiglia, per strada e in pieno giorno: Maxciel Pereira dos Santos era un funzionario del Funai, e si era battuto contro l’invasione di cacciatori, tagliatori di legname e cercatori d’oro nella riserva indigena di Vale do Javari, zona remota che ospita numerose popolazioni indigene isolate. La Funai è stata spesso al centro di polemiche, la sua politica di protezione dei popoli “incontattati” è discussa. Resta però il fatto che la pressione di disboscatori illegali e garimpeiros (i cercatori d’oro artigianali) si fa sentire in zone sempre più remote della foresta amazzonica, come fossero le avanguardie di un’armata di coloni e fazenderos. La guerra per l’Amazzonia continua.

L’ecologia sociale dei vescovi in Amazzonia
C’è chi parla di “conversione”, chi evoca “lo spirito del Concilio Vaticano secondo”, quello che nei primi anni Settanta del Novecento in America Latina aveva segnato l’apertura della chiesa ai movimenti sociali. Certo è che il Sinodo dei vescovi dell’Amazzonia, che si terrà a Roma dal 6 al 27 ottobre, è stato preceduto da due anni di mobilitazione della chiesa cattolica in una regione che si estende tra Brasile, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Suriname, Guyana e Guyana francese.
Un percorso che ha coinvolto comunità di base e mondo ecclesiale ed è riassunto in un documento di lavoro (“Instrumentum Laboris”) per molti aspetti sorprendente. Primo, perché fa una diagnosi cruda. “La vita in Amazzonia è minacciata da distruzione e sfruttamento ambientale” e dalla sistematica “violazione dei diritti fondamentali dei popoli originari”, si legge; il diritto alla terra e all’autodeterminazione sono minacciati “da interessi economici, in particolare dalle compagnie estrattive, spesso con la connivenza dei governi locali e nazionali e delle autorità tradizionali”. I vescovi denunciano la criminalizzazione e l’assassinio di leader locali e difensori del territorio; l’appropriazione e privatizzazione di beni naturali; i megaprogetti idroelettrici, le concessioni forestali e minerarie che portano all’espulsione degli abitanti; l’inquinamento provocato dall’industria estrattiva; il narcotraffico. “Tutto questo aumenta l’impoverimento dei popoli amazzonici”, oltre a minacciare gli ecosistemi e il clima globale.
Ma l’aspetto più sorprendente è l’apertura a concetti propri delle cosmovisioni amazzoniche, basate sull’armonia dei rapporti tra acqua, territorio e natura. L’Amazzonia, affermano i vescovi, è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso, e la chiesa ha molto da imparare dai popoli indigeni con la loro forte spiritualità: serve “un dialogo interculturale in cui i popoli tradizionali siano principali interlocutori”. Ma questo significa fare i conti con il ruolo avuto dall’istituzione cattolica: “La Chiesa a volte è stata complice dei colonizzatori”.
Nel percorso di base di avvicinamento al Sinodo ha inoltre molta risonanza l’appello alla “ecologia integrale” già enunciata da papa Francesco nella enciclica Laudato Si’: “Un vero approccio ecologico è sempre un approccio sociale” che ascolta “il grido della terra insieme al grido dei poveri”. La chiesa dunque fa appello al dialogo e alla resistenza, alla “santa indignazione” di San Tommaso d’Aquino contro le ingiustizie. Un’apertura sociale che non si sentiva da tempo.


In Amazzonia continua la “guerra di conquista” – Marina Forti

L’Amazzonia è di nuovo scomparsa dai nostri schermi, dopo il clamore suscitato dalla crisi degli incendi della scorsa estate nell’Amazzonia brasiliana. Eppure, la deforestazione accelera: secondo l’Istituto nazionale di ricerca spaziale del Brasile (Inpe, Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais), che con i suoi satelliti monitora i cambiamenti nel territorio amazzonico, da agosto 2018 a fine luglio 2019 sono scomparsi 9.762 chilometri quadrati di foresta, quasi il 30 per cento più dell’anno precedente quando erano scomparsi 7.536 chilometri quadrati.
Non solo. Analizzando quei dati, l’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia (Ipam) osserva che il 35 per cento delle foreste distrutte in quell’arco di tempo erano in terre “non designate o su cui non ci sono informazioni”, cioè territorio pubblico. E questo è grilagem, termine che indica l’appropriazione illegale di terra pubblica attraverso la contraffazione dei documenti di proprietà: “Quelle foreste sono patrimonio di tutti i brasiliani e vengono dilapidate illegalmente per finire nelle mani di pochi” dice Ane Alencar, direttora scientifica dell’Ipam. Inoltre, sono raddoppiati gli incendi all’interno delle riserve indigene, in particolare in quelle del fiume Xingu, e a nord, nel Roraima: perché sono aumentate le invasioni di terre demarcate e assegnate a comunità native. Ad aggravare le cose, le stagioni secche sono più intense e più lunghe.
Gran parte degli incendi della scorsa estate sono avvenuti lungo una linea chiamata “arco della deforestazione”: una fascia che va dal Parà a ovest, a parte del Mato Grosso, al Rondônia che confina con la Bolivia, fino allo stato di Acre verso la frontiera con il Perù: come una grande mezzaluna che circonda l’Amazzonia da sud. La relazione tra incendi e disboscamento è nota: tagliati gli alberi, le fiamme servono a liberare la zona deforestata per poi farne pascoli o coltivazioni. Gli incendi della scorsa estate sono stati deliberati e hanno anche una data di inizio, il 10 agosto, quando centinaia di roghi sono stati appiccati contemporaneamente dal Parà al Rondônia. È stato chiamato “o dia do fogo”, il giorno del fuoco. In quei giorni, alcuni fazendeiros hanno dichiarato con candore la propria intenzione al giornale Folha do Progresso, del Parà: con gli incendi coordinati “abbiamo inteso appoggiare il governo”, sostenere la politica del presidente Jair Bolsonaro di “aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento economico moderno”.
Così, ogni stagione di incendi segna una nuova avanzata delle coltivazioni intensive, pascoli, fabbriche di mangimi (quello che i padroni dell’agrobusiness chiamano “sfruttamento moderno”, al contrario della piccola agricoltura familiare e sostenibile praticata dagli abitanti della foresta, indigeni e non). Intanto, secondo diversi studiosi, ampie zone dell’Amazzonia che sono ormai vicine al punto di “non ritorno”, cioè quando la foresta non è più in grado di rigenerarsi.
Gli incendi sono parte di una sorta di guerra in corso nell’Amazzonia brasiliana. Una guerra di conquista, combattuta a colpi di invasioni di terre, comunità assediate, scorrerie di bande armate agli ordini di grandi latifondisti e imprenditori, e di attivisti uccisi.
Il conflitto per la terra non è certo una novità in Amazzonia: ma nell’era di Bolsonaro è divenuto più violento, mentre le istituzioni di controllo sono delegittimate (vedi il reportage dall’Amazzonia brasiliana su Altreconomia, ottobre 2019).
Favelas fluviali
Intanto in Amazzonia sorgono altri conflitti. Sono legati alle gang che controllano il narcotraffico che usa il rio delle Amazzoni come una specie di autostrada; alla prostituzione, alla povertà urbana.
Infatti, anche se l’immaginario di questa regione  è legato alla foresta e ai fiumi che la solcano, ai popoli indigeni e alle comunità tradizionali, ormai il 70 per cento della popolazione amazzonica  vive in aree urbane. Metropoli storiche come Manaus e Belem, con oltre due milioni di abitanti, hanno almeno un paio di secoli di storia e continuano a crescere. Ma negli ultimi trent’anni si sono moltiplicati anche i centri urbani minori, cresciuti per lo più attorno al commercio delle derrate agricole o dei minerali. Nel solo delta amazzonico si può contare una cinquantina di agglomerati tra diecimila e un milione di abitanti. Ogni comunità rurale espropriata della terra finisce per ingrossare la popolazione urbana. Quando si dice città però bisogna intendersi: strade asfaltate e amenità come l’acqua corrente sono limitate, le infrastrutture urbane sono minime. Invece crescono insediamenti informali, ammassi di case su palafitta che sembrano un po’ villaggio fluviale e un po’ favela urbana, segno di una trasformazione ormai inesorabile anche in Amazzonia.
Come Breves, cittadina in pieno delta del Rio delle Amazzoni, sull’isola di Marajò che è grande due volte la Lombardia. Dista undici ore di battello fluviale o sei ore di catamarano da Belem, la capitale del Parà, uno dei grandi stati dell’Amazzonia brasiliana.


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