I paesi a ricchezza avanzata sono all’affannosa ricerca di modi per
mantenere il livello di consumi raggiunto e nel contempo rispettare i limiti
del pianeta. Ma il compito si presenta piuttosto arduo e rischia di condurci
ad una sostenibilità dell’apartehid, costruita, cioè, su disuguaglianze
ancora più marcate di quelle che abbiamo conosciuto fin qui. Un
mondo verde dove pochi eletti usano le poche risorse esistenti mentre una
massa di esclusi è tenuta fuori dal banchetto. Tutto il contrario del
modello di ecologia integrale proposto da Papa Francesco dove sostenibilità ed
equità si tengono per mano.
L’automobile descrive meglio di tutti le contraddizioni in cui ci
dibattiamo. Con l’emergere dei cambiamenti climatici il nostro
obiettivo è diventato la riduzione delle emissioni di anidride carbonica ed è
alla tecnologia che ci siamo affidati, con un doppio mandato.
Uno di lunga durata che metta fine alla dipendenza dal petrolio. L’altro, più
immediato, che ci procuri un combustibile meno inquinante. Entrambi
presentano criticità.
Fino a qualche anno fa, la pista che inseguivamo per ottenere auto
sganciate dal petrolio era l’idrogeno. Poi, ragioni di tipo energetico,
di sicurezza e di rete distributiva hanno raffreddato le aspettative ed oggi
si insegue piuttosto l’auto elettrica. Un progetto che da un
punto di vista tecnico è già realtà, ma che riapre vecchi problemi quando
pretende di diventare consumo di massa. Nell’auto elettrica la
funzione di serbatoio è svolta dalla batteria, rispetto alla quale va
precisato che può renderci veramente indipendenti dal petrolio solo se la
corrente elettrica utilizzata per ricaricarla proviene da sole, vento e altre
energie rinnovabili. Ad oggi solo il 26% dell’energia elettrica
mondiale è di tipo rinnovabile. Ma questo è solo uno degli aspetti critici.
L’altro è che per produrre le batterie serve litio e cobalto, due
minerali che oltre a essere fonte di preoccupazione sociale presentano problemi
di quantità. Da un punto di vista sociale, il cobalto è diventato sinonimo di
corruzione, evasione fiscale, lavoro minorile, dal momento che è ottenuto
per il 60% dalla Repubblica Democratica del Congo, un paese dominato da assenza
di legge, mancanza di senso dello stato, violazione dei diritti umani.
Quanto al litio, il 65% dei depositi si trovano in un triangolo che si estende
fra Cile, Argentina e Bolivia, una zona abitata da popolazioni che non
sorridono all’idea di vedere il loro territorio trivellato di miniere. La
preoccupazione principale è per l’acqua, di cui le imprese minerarie
necessitano in gran quantità in una zona in cui ce n’è poca. In Cile, nel
Salar de Atacama, dove l’estrazione del litio ormai avviene da anni, la carenza
di acqua si è fatta così acuta da avere messo le popolazioni in uno stato di
conflitto permanente con le imprese minerarie.
Sul fronte quantitativo i geologi ci informano che il litio
costituisce circa lo 0.006 % della crosta terrestre, qualcosa di
meno dello zinco, del rame, del tungsteno e qualcosa di più del cobalto,
dello stagno, del piombo. Ma ai fini estrattivi contano i depositi ad alta
concentrazione e secondo il Geological Survey degli Stati Uniti le riserve
fruibili di litio non andrebbero oltre i 40 milioni di tonnellate. Una
quantità che si mostra molto limitata qualora l’industria dell’auto elettrica
dovesse avere lo sviluppo che si paventa. In totale le principali case
automobilistiche prevedono di produrre 20 milioni di auto elettriche
all’anno a partire dal 2025, per passare a 25 milioni nel 2030 e addirittura a
60 milioni dopo il 2040. Se consideriamo che secondo la
tecnologia attuale per ogni auto servono dai 40 agli 80 chili di
litio, si fa presto a calcolare un fabbisogno di circa 100.000
tonnellate all’anno a partire dal 2025 che salirebbe a 300.000
tonnellate dopo il 2040. In altre parole i depositi attualmente
conosciuti potrebbero esaurirsi nel giro di pochi decenni. Analogo
destino per il cobalto che pur giocando un ruolo minore
potrebbe esaurirsi in tempi altrettanto rapidi a cause delle minori riserve
stimate in appena 25 milioni di tonnellate.
Ad oggi, le auto in circolazione a livello mondiale sono quasi un miliardo.
Per rimpiazzarle tutte con auto elettriche servirebbe la metà delle riserve di
litio oggi conosciute. E tuttavia le auto non sono gli unici strumenti a
utilizzare batterie. Ad esse si aggiungono i cellulari, i tablet, i computer,
gli accumulatori per pannelli solari. Il futuro, insomma, si presenta come la
società della batteria e la domanda di litio e cobalto potrebbe diventare
così alta da spingere i loro prezzi a livelli proibitivi per le classi
meno abbienti. Il solito vecchio meccanismo di mercato che ristabilisce
l’equilibrio fra domanda e offerta a detrimento dei più poveri.
E mentre l’industria dell’automobile si sta organizzando per tagliare il
cordone ombelicale dal petrolio, gli stati stanno cercando di ridurre
le emissioni inquinanti spingendo l’acceleratore sulla produzione di carburanti
di origine vegetale che risultano meno impattanti. Uno dei primi paesi che si è
buttato in questa avventura è stato il Brasile, trasformando la canna da
zucchero in bioetanolo, un alcool che può essere utilizzato tal quale in auto
con motori apposti o che può essere utilizzato come additivo delle normali
benzine. Il Brasile produce il 23% di tutto il bioetanolo prodotto a
livello mondiale, ma è superato di gran lunga dagli Stati Uniti che ne produce
il 49%. E non utilizzando masse vegetali inadatte all’alimentazione,
ma il mais di cui è primo produttore mondiale. Ben il 38% di tutto il mais
prodotto negli Stati Uniti è destinato al bioetanolo. Altrove si
privilegiano il grano, l’orzo, la segale, sicché la Fao calcola
che il 14% di tutte le granaglie raccolte a livello mondiale sono
bruciate nei motori. L’Unione Europea è un basso produttore di
bioetanolo che comunque ottiene principalmente dalla barbietola da zucchero e
in secondo ordine dal mais. Ma ha molto sviluppato la produzione di biodiesel
di cui è il primo produttore mondiale con una quota del 37%. Il biodiesel
si ottiene da oli vegetali provenienti da tre semi principali: olio di palma
(31%), soia (21%), colza (20%). Complessivamente il 16% di tutto l’olio
vegetale prodotto a livello mondiale è destinato alla produzione di biodiesel.
Cercare ogni strada per ridurre le emissioni di anidride carbonica è
sacrosanto, ma bisogna farlo evitando di creare problemi su altri fronti. Parlando
di biocombustibili, tre punti interrogativi si affacciano alla mente. Il primo:
quanto sia giusto e opportuno destinare cibo ai trasporti in un mondo dove il
12% della popolazione non mangia a sufficienza e in cui le bocche da
sfamare sono in crescita. Il secondo: quanto sia sensato avvelenare la
terra con pesticidi e fertilizzanti per ottenere più derrate agricole da
destinare ai trasporti. Il terzo: quanto sia logico sottrarre terra
ai boschi in un momento in cui abbiamo bisogno di più vegetazione per abbattere
l’anidride carbonica. I biocarburanti rischiano di diventare diretti
antagonisti delle foreste non solo perché si contrappongono alla
riforestazione, ma peggio ancora perché promuovono la deforestazione. E’ noto,
ad esempio, che la crescita esponenziale della produzione di olio
di palma ottenuta negli ultimi anni si è accompagnata a una distruzione massiva
di foresta non solo in Asia, ma anche in Africa e America Latina. Per cui dobbiamo
chiederci se non sia arrivato il tempo di cercare di arrestare i problemi
generati dai nostri eccessi, concentrandoci non solo sulla tecnologia ma
anche sugli stili di vita. Parlando di trasporti è arrivato il tempo
di chiederci se non dobbiamo ridurre la nostra produzione di anidride
carbonica, accettando di viaggiare meno, più lentamente e in forma più
collettiva, capendo che il noi è più efficiente dell’io.
(Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire)
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