Chiunque sia andato a vedere il film Sorry we missed you di
Ken Loach, ne è uscito con molte tensioni, dalla rabbia alla frustrazione,
dall’impotenza al dolore. Impossibile restare indifferenti al
potente sistema che schiaccia e inserisce in una centrifuga di circoli viziosi
la famiglia protagonista. La tensione accompagna tutta la visione, sebbene non
vi siano scene di esplicita violenza, a parte quelle in cui il protagonista
viene attaccato da una banda di teppisti. Si respira nelle prime scene l’aria
di qualcosa che si apre come una possibilità – il nuovo lavoro e le opportunità
di riscatto che sembra promettere – e si finisce scena per scena a doverne
osservare i limiti, fino a percepirlo come una condanna, una pena da scontare
giornalmente senza avere colpe e che si manifesta in tutta la sua potenza
nell’ultima scena.
Già Carlo Ridolfi ha fornito la trama e una interpretazione del film in un’ottica
di sistema economico-sociale, del tutto condivisibili (leggi Quel
piccolo ariano). Ma con l’occhio della psicologa, vorrei
aggiungere una parte in cui forse viene additato il “come se ne esce” o meglio,
il “come se ne uscirebbe” se le categorie mentali e sociali con le quali
siamo per lo più abituati a guardare al mondo e a spiegarci i comportamenti
umani non ci impedissero di vederlo.
Il film mostra una famiglia in cui almeno tre dei componenti attraggono nel
loro insieme e per lo più un’attenzione benevola da parte dello spettatore: in
prima fila la signora Abbie, amorevole con i propri “clienti” –
come è obbligata a chiamarli per essere politicamente corretta – e disponibile
ai loro bisogni, accorta rispetto all’organizzazione familiare e pronta al
dialogo anche nei momenti di tensione con ognuno dei membri che la compongono,
legata al marito a cui offre contenimento quando questi perde le staffe,
sufficientemente decisa e diretta nelle comunicazioni quando la situazione lo
richiede; Ricky, un uomo dedito al lavoro per assicurare alla
famiglia un futuro migliore, affettuoso con la moglie e coinvolgente in modo
amorevole e giocoso con la figlia Liza Jane, impegnato nel dialogo con il
figlio adolescente fino ad arrivare a mostrargli le sue emozioni dopo una
furiosa lite; Liza Jane, una bambina obbediente e “saggia”, una
piccola donna con molte autonomie, in grado di “sostenere” il padre quando
questi si deprime, di offrire vicinanza al fratello e di vigilare su di lui per
ricondurlo sulla traccia sicura della quotidianità che ci aspetta da un giovane
della sua età, di svegliarsi di notte per assicurarsi che tutti siano rientrati
e gli equilibri funzionanti, di operare come una mediatrice di pace, sebbene
pagandone le conseguenze con qualche enuresi notturna; infine Seb,
il personaggio disallineato, l’adolescente ribelle che si esprime con i
graffiti, che al contrario suscita indignazione e sentimenti di rimprovero,
perché si pone contro genitori che fanno quel che fanno e vivono come vivono
proprio per dare a lui e alla sorella un’opportunità di riscatto e di vita
migliore. “Ma guarda tu questo stupidello che non capisce il valore della
scuola, che non apprezza i sacrifici dei genitori, che perde tempo a spruzzare
con le bombolette i muri, che – dunque – non può che essere la persona che ha
nascosto le chiavi del furgone al padre per dispetto, per provocazione, per
contribuire a mandare all’aria i piani di persone che si impegnano anche per
lui” viene da pensare. Seb squaderna e fa inciampare
continuamente la storia che potrebbe prendere la via della sicurezza economica
ristabilita, perché è a causa dei suoi comportamenti che il padre perde via via
giorni di lavoro e accumula multe e sanzioni, a causa sua il dialogo con tra
moglie e marito si infrange; è per via di una lite tra padre e figlio che Ricky
si ritrova a perdere il controllo e ad assestargli un colpo secco al volto, per
il clima di tensione di cui appare l’artefice in larga parte che la solidità di
Ricky si spezza riversandosi nelle relazioni con i clienti a cui vanno
consegnati i pacchi – accanto ovviamente alla concomitante pressione
determinata dal “contratto di lavoro”.
Ed è questo il punto: le categorie mentali con le quali affrontiamo la
visione del film – e perciò per lo più anche la vita reale – con schemi
preconfezionati in cui inserire i dati che recepiamo e che immediatamente
valutiamo per farci un’idea di quel che accade attorno a noi. Quel che
accade nel nostro spazio interiore che poi si fa comportamento pubblico è che
ci posizioniamo vicino per empatia o lontano per distonia rispetto agli “altri”.
Certo Seb non aiuta a farsi amare e a creare vicinanza. Per questo tutto quel
che fa e che dice è interpretato in una cornice di “negatività”, di rimprovero
tacito quando non espresso dai protagonisti del film, di dissenso perché
provoca le lacrime della madre e spinge il padre a una rissa, con il suo
atteggiamento strafottente. È decisamente per buona parte del film “la pecora
nera” di una famiglia che potrebbe tutto sommato vivere bene, se solo decidesse
di essere più collaborativo e di dismettere l’espressione ingrugnita che o
caratterizza per la gran parte della durata del film. Esattamente quel che fa
di Liza Jane il suo contrario: sorride, gioca, si lascia abbracciare, è in
dialogo con tutti, obbedisce, cucina e si cucina, aiuta il padre in una
giornata di lavoro, è la protagonista di un’unica sequenza in cui il sole
illumina la scena.
Nella velocità del giudizio, è facile dividere “i buoni” da “i cattivi”. Si è pronti a
parteggiare per l’una e porsi in modo sfavorevole verso l’altro. Ma c’è un
passaggio di pochi istanti che quasi non si nota, in cui il padre prende in
mano i fogli disegnati dal figlio a seguito di una violenta lite per la quale
Seb è andato via di casa e si è rifugiato da uno degli amici della sua banda.
Si apre uno spiraglio di comprensione, il dubbio di non aver capito nulla di
quel figlio così difficile e incomprensibilmente “contro”. In quei bozzetti che
il padre sfoglia è racchiuso un mondo di significati che non prendono la via
della parola, strumento complesso di elaborazione cognitiva e
razionale, più tipico degli adulti. Sono quei disegni che
indicano il bisogno di riconoscimento con i tanti punti interrogativi che
troneggiano tra i volti schematizzati di profilo, quelle lingue arrotolate che
provano a esprimersi in una lingua contratta che necessita di un ascolto
attento per poter essere decodificata, che necessita di sospendere il giudizio
che separa i buoni dai cattivi, che ha bisogno di consapevolezza rispetto alle
categorie e alle rappresentazioni mentali che ci rendono decodificabili e
simpatici i primi e opachi e fastidiosi i secondi.
Paradigmatico in questo senso è il rovesciamento di ruoli tra i due
fratelli che avviene proprio nelle ultime scene del film: è Liza Jane che si
autodenuncia per un’azione che era stata attribuita al fratello e per la quale
il padre è stato sanzionato per i ritardi sul lavoro che ha provocato. Ed è Seb
che, proprio nelle battute finali, è quello che si sveglia presto per andare a
fermare il padre, in un ultimo disperato tentativo di fermare la folle spirale
in cui si è infilato e che – si intuisce – non gli porterà bene.
È quel Seb che per tutto il film ha fatto la parte della “pecora nera” che
si è sforzato di additare la via d’uscita, l’unica risposta possibile al
sistema inumano che stritola: fuoriuscirne, usare modalità altre, adottare
linguaggi diversi – come quello dell’arte, certo povera, dei suoi
graffiti – coltivare le relazioni interpersonali come avviene all’interno del
suo gruppo dei pari, solidale quando serve ospitalità, vicino quando si esprime
la sofferenza, disponibile a lasciare spazio quando si formula la richiesta di
“firmare” la propria protesta.
Per tutto il tempo del film si è come esposti continuamente a un bivio tra
due strade da intraprendere e sulle quali andare avanti: mantenere il lavoro
che affida al dispositivo tecnologico il controllo della situazione o lasciarlo
per dedicarsi alla cura delle relazioni familiari che si sta sbriciolando sotto
la pressione lavorativa. Seb ci prova, e con i suoi comportamenti forza
l’intera famiglia a momenti di confronto e di riflessione, così come si rivolge
alla comunità più ampia con i suoi graffiti, insieme ai suoi coetanei. Ma la
forza del suo messaggio sembra non essere colta, dal padre in primo luogo ma
anche dalla madre e dalla sorella, dagli insegnanti, dal dirigente scolastico,
dal poliziotto, adulti questi ultimi più impegnati a reprimere che a lasciar esprimere,
a con-dannare invece che a com-prendere.
Ne emerge il ruolo essenziale delle giovani generazioni che non
accettano il sistema, spesso replicato proprio dalle istituzioni
scolastiche, con adolescenti che si mettono di traverso, che usano linguaggi
forti e non possono che arrivare allo scontro per venirne fuori.
Usando un approccio psico-sociale, gli adolescenti come Seb possono
essere considerati come un sismografo, che rileva ed esprime quel che
accade nella società. Per studiare i cambiamenti, perciò, la procedura
migliore consiste nell’esaminare cosa accade tra i giovani che,
all’interno della società, sono il gruppo che meglio esprime i cambiamenti
necessari, pur senza esserne la diretta origine. In quanto sismografi, essi
registrano le variazioni che avvengono in un dato contesto e additano alla
prospettiva futura. Ma per coglierne i messaggi una de-categorizzazione è
assolutamente necessaria, permettendoci di sperimentare una vicinanza non
facile, per arrivare a adottare con Bert Hellinger, noto psicologo e studioso
delle costellazioni familiari, quello sguardo che permette di vedere in
coloro che sono chiamati “pecore nere” della famiglia i “cercatori di cammini
di liberazione”, un potente antidoto al grave squilibrio che viviamo e che
rischia di portarci tutti verso una via senza ritorno.
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