La proposta del Congresso Nazionale
Indigeno (CNI) e degli zapatisti è un appello molto ampio
che viene rivolto all’intera società e che esige risposte chiare e impegnate.
Ci chiama innanzitutto a
prestare attenzione alla situazione dei popoli indigeni, alla costante
aggressione a cui sono sottoposti, alla dignità di cui danno prova sul fronte
dell’attuale guerra a cui sono stati condotti. Imparare a vedere con chiarezza quello
che si sta verificando con loro è anche un modo per approfondire la
comprensione della situazione attuale, che riguarda tutte e tutti. Siamo chiaramente in
un momento di pericolo, e prestare l’orecchio al richiamo del CNI è un modo per
svegliarci.
L’appello è molto esplicito: non è rivolto
soltanto ai popoli indigeni. Anche il Consiglio Indigeno di Governo non è
soltanto per loro. Cercano alleanze con persone e gruppi molto diversi, con l’immensa gamma
di scontenti che sono emersi e in particolare con quelli che condividono
la loro scelta anticapitalistica e lottano come loro dal basso e a sinistra. Non si mettono a
competere con nessuno per i voti, perché il loro obiettivo è quello di mettere
in luce le condizioni attuali dei popoli indigeni e di contribuire alla
ricostruzione sociale e politica, smantellando gli apparati marci dello Stato.
La proposta riaccende innanzi tutto
vecchi dibattiti sull’identità indigena, che possono essere appassionanti e
produttivi, ma anche destabilizzanti e pericolosi.
Bisogna riconoscere, prima di tutto, che la maggior parte di
coloro che appartengono a popoli indigeni non definiscono se stessi come
‘indigeni’.Associano la loro identità fondamentale alle loro matrie [declinazione al femminile
del termine patriarcale ‘patria’], ai luoghi della Madre Terra a cui
appartengono e ai popoli di cui fanno parte. Sono zapotechi del Rincón o triquidi Chicahuaxtla, o più chiaramente sono ciò che
dicono nelle loro lingue quando esprimono ciò che sono stati e sono “gli uomini
della vera parola”, ad esempio. Non si chiamano indigeni.
Il termine indigeno ha cominciato ad
essere utilizzato quando si è riconosciuto che ‘indio’ era un’espressione
peggiorativa, ma questo non ha eliminato il carattere coloniale dell’etichetta
applicata ai popoli assai diversi che esistevano nel territorio invaso dagli
spagnoli. La Reale Accademia mantiene le accezioni peggiorative di ‘indio’ e
mette in luce l’equivoco coloniale di ‘indigeno’: “originario del Paese in
questione”. I
popoli di qui esistevano prima del Paese…
Anche a causa di queste difficoltà ed
equivoci, e per evitare le etichette coloniali, si è cominciato ad usare
l’espressione ‘popoli
originari’ o ‘nativi’, con cui si intende sottolineare il loro carattere autentico, la loro
esistenza precedente alla costituzione dello Stato-nazione. Ma non è un’espressione
popolare e comunemente diffusa, e risulta insufficiente.
Da anni, e in particolare dalla Dichiarazione di
Barbados (1971), il termine ‘indigeno’ ha cominciato ad essere usato come
affermazione politica, il che gli ha dato un significato nuovo (1). In questo senso
viene utilizzato nella convocazione del Foro Nazionale Indigeno e più ancora
nel documento con cui è stato costituito il Congresso Nazionale Indigeno, che
ha potuto dichiarare con fermezza: “Mai più un Messico senza di noi”, con
il noi chiaro e fermo di tutti quei popoli originari.
Il CNI non è stato creato come un’organizzazione, un partito o una forma di
categorizzazione, ma come uno spazio di incontro di coloro che sono assemblea
quando sono insieme e sono rete quando sono separati.
Il CNI ha segnalato che accetterà al suo
interno o nel Consiglio Indigeno di Governo qualsiasi persona che si dichiari
indigena, secondo il principio di autodefinizione riconosciuto a livello
internazionale.
Ma che fare con gli altri?
Chi sono i non indigeni?
Come si costituiscono o si identificano,
al di là di categorie astratte come quella di uomini o donne, messicane o
messicani?
L’esigenza di organizzarsi riguarda anche
loro, perché possano costituire dei noi reali, capaci di
autonomia e di autogoverno. Rolando Vamos propone che si ‘indigenizzino’, se il
termine è inteso come il legame con un luogo. Se infatti gli individui sradicati
costruiti dal capitalismo e dallo Stato nazione abbandonano questa condizione
di oppressione e mettono radici in un luogo fisico e culturale, se
costruiscono matrie a cui decidono
liberamente di appartenere, starebbero contribuendo alla ricostruzione della
società.
Tutto questo richiederà molte
demarcazioni, sia a livello di mentalità che nella pratica. C’è inevitabilmente
bisogno di tracciare delle linee, perché nella lotta che conduciamo e che si
intensifica giorno dopo giorno è importante sapere chi è chi. Non stiamo
lottando nel vuoto. Viviamo in guerra. Se non è chiaro da quale parte
ciascuno milita, si può trovarsi a collaborare con il nemico. Queste distinzioni
saranno sempre più necessarie, indipendentemente dalle identità che derivano
dalla nascita o dall’affiliazione.
Fonte: la Jornada
Traduzione a cura
di Camminardomandando
*********** DA
LEGGERE ***********
(1) DECLARACIÓN DE BARBADOS:
«POR LA LIBERACION DEL
INDÍGENA»
30 de enero de 1971
Los antropólogos
participantes en el Simposio sobre la fricción interétnica en América del Sur,
reunidos en Barbados los días 25 al 30 de enero de 1971, después de analizar
los informes presentados acerca de la situación de .las poblaciones indígenas,
tribales y de varios países del área, acordaron elaborar este documento y
presentarlo a la opinión pública con la esperanza de que contribuya al
esclarecimiento de este grave problema continental y a la lucha de liberación
de los indígenas.
Los indígenas de
América continúan sujetos a una relación colonial de dominio que tuvo su origen
en el momento de la conquista y que no se ha roto en el seno de las sociedades
nacionales. Esta estructura colonial se manifiesta en el hecho de que los
territorios ocupados por indígenas se consideran y utilizan como tierras de
nadie abiertas a la conquista y a la colonización. El dominio colonial sobre
las poblaciones aborígenes forma parte de la situación de dependencia externa
que guardan la generalidad de los países latinoamericanos frente a las
metrópolis imperialistas. La estructura interna de nuestros países dependientes
los lleva a actuar en forma colonialista en su relación con las poblaciones
indígenas, lo que coloca a las sociedades nacionales en la doble calidad de
explotados y explotadores. Esto genera una falsa imagen de las sociedades
indígenas y de su perspectiva histórica, así como una autoconciencia deformada
de la sociedad nacional.
Esta situación se
expresa en agresiones reiteradas a las sociedades aborígenes, tanto a través de
acciones intervencionistas supuestamente protectoras, como en los casos
extremos de masacres y desplazamientos compulsivos, a los que no son ajenas las
fuerzas armadas y otros órganos gubernamentales. Las propias políticas
indigenistas de los gobiernos latinoamericanos se orientan hacia la destrucción
de las culturas aborígenes y se emplean para la manipulación y el control de
los grupos indígenas en beneficio de la consolidación de las estructuras
existentes. Postura que niega la posibilidad de que los indígenas se liberen de
la dominación colonialista y decidan su propio destino.
Ante esta situación,
los Estados, las misiones religiosas y los científicos sociales, principalmente
los antropólogos, deben asumir las responsabilidades ineludibles de acción
inmediata para poner fin a esta agresión, contribuyendo de esta manera a
propiciar la liberación del indígena.
RESPONSABILIDAD DEL
ESTADO
No caben
planteamientos de acciones indigenistas que no busquen la ruptura radical de la
situación actual: liquidación de las relaciones coloniales externas e internas,
quebrantamiento del sistema clasista de explotación y de dominación étnica,
desplazamiento del poder económico y político de una minoría oligárquica a las
masas mayoritarias, creación de un estado verdaderamente multiétnico en el cual
cada etnia tenga derecho a la autogestión y a la libre elección de alternativas
sociales y culturales.
El análisis que
realizamos demostró que la política indigenista de los estados nacionales latinoamericanos
ha fracasado tanto por acción como por omisión. Por omisión, en razón de su
incapacidad para garantizar a cada grupo indígena el amparo específico que el
Estado le debe y para imponer la ley sobre los frentes de expansión nacional.
Por acción, debido a la naturaleza colonialista y clasista de sus políticas
indigenistas.
Este fracaso arroja
sobre el Estado culpabilidad directa o connivencia con muchos crímenes de
genocidio y etnocidio que pudimos verificar. Estos crímenes tienden a repetirse
y la culpabilidad recaerá directamente sobre el Estado que no cumpla los
siguientes requisitos mínimos:
1) El Estado debe
garantizar a todas las poblaciones indígenas el derecho de ser y permanecer
ellas mismas, viviendo según sus costumbres y constituir entidades étnicas
específicas.
2) Las sociedades
indígenas tienen derechos anteriores a toda sociedad nacional. El Estado debe
reconocer y garantizar a cada una de las poblaciones indígenas la propiedad de
su territorio registrándolas debidamente y en forma de propiedad colectiva,
continua, inalienable y suficientemente extensa para asegurar el incremento de
las poblaciones aborígenes.
3) El Estado debe
reconocer el derecho de las entidades indígenas a organizarse y regirse según
su propia especificidad cultural, lo que en ningún caso puede limitar a sus
miembros para el ejercicio de todos los derechos ciudadanos, pero que, en
cambio, los exime del cumplimiento de aquellas obligaciones que entran en
contradicción con su propia cultura.
4) Cumple al Estado
ofrecer a las poblaciones indígenas la misma asistencia económica, social,
educacional y sanitaria que al resto de la población; pero además; tiene la
obligación de atender las carencias específicas que son resultados de su
sometimiento a la estructura colonial, y, sobre todo, el deber de impedir que
sean objeto de explotación por parte de cualquier sector de la sociedad
nacional, incluso por los agentes de la protección oficial.
5) El Estado debe ser
responsable de todos los contactos con grupos indígenas aislados, en vista de
los peligros bióticos, sociales, culturales y ecológicos que representan para
ellos el primer impacto con los agentes de la sociedad nacional.
6) Los crímenes y
atropellos que resultan del proceso expansivo de la frontera nacional son de responsabilidad
del Estado, aunque no sean cometidos directamente por sus funcionarios civiles
o militares.
7) El Estado debe
definir la autoridad pública nacional específica que tendrá a su cargo las
relaciones con las entidades étnicas que sobreviven en su territorio;
obligación que no es transferible ni delegable en ningún momento ni bajo
ninguna circunstancia.
LA RESPONSABILIDAD DE
LAS MISIONES RELIGIOSAS
La obra evangelizadora
de las misiones religiosas en América Latina corresponde a la situación colonial
imperante, de cuyos valores está impregnada. La presencia misionera ha
significado una imposición de criterios y patrones ajenos a las sociedades
indígenas dominadas, que bajo un manto religioso encubren la explotación
económica y humana de las poblaciones aborígenes.
El contenido
etnocéntrico de la actividad evangelizadora es un componente de la ideología
colonialista, y está basada en:
1) Su carácter
esencialmente discriminatorio originado en una relación hostil frente a las
culturas indígenas, a las que conceptúan como paganas y heréticas;
2) Su naturaleza
vicarial, que conlleva la deificación del indígena y su sometimiento a cambio
de futuras compensaciones sobrenaturales;
3) Su carácter
espurio, debido a que los misioneros buscan en esa actividad una realización
personal, sea ésta material o espiritual; y
4) El hecho que las
misiones se han convertido en una gran empresa de recolonización y dominación,
en convivencia con los intereses imperialistas dominantes.
En virtud de este
análisis llegamos a la conclusión que lo mejor para las poblaciones indígenas,
y también para preservar la integridad moral de las propias iglesias, es poner
fin a toda actividad misionera. Hasta que se alcance este objetivo cabe a las
misiones un papel en la liberación de las sociedades indígenas, siempre que se
atengan a los siguientes requisitos:
1) Superar el
herodianismo intrínseco a la actividad catequizadora como mecanismo de
colonización, europeización y alienación de las poblaciones indígenas;
2) Asumir una posición
de verdadero respeto frente a las culturas indígenas poniendo fin a la larga y
vergonzosa historia de despotismo e intolerancia que ha caracterizado la labor
de los misioneros, quienes rara vez revelaron sensibilidad frente a los valores
religiosos indígenas;
3) Poner fin al robo
de propiedades indígenas por parte de misiones religiosas que se apropian de su
trabajo, tierras y demás recursos
naturales, y a su indiferencia frente a
la constante expropiación de que son objeto por parte de terceros;
4) Extinguir el
espíritu suntuario y faraónico de las misiones que se materializa en múltiples
formas, pero que siempre se basa en la explotación del indio.
5) Poner fin a la
competencia entre confesiones y agencias religiosas por las almas de los
indígenas, que da lugar, muchas veces, a operaciones de compra-venta de
catecúmenos, y que, por la implantación de nuevas lealtades religiosas, los
divide y los conduce a luchas intestinas;
6) Suprimir las
prácticas seculares de ruptura de la familia indígena por internamiento de los
niños en orfanatos donde son imbuidos de valores opuestos a los suyos,
convirtiéndolos en seres marginados incapaces de vivir tanto en la sociedad
nacional como en sus propias comunidades de origen;
7) Romper con el
aislamiento seudo-moralista que impone una ética falsa que inhabilita al
indígena para una convivencia con la sociedad nacional: ética que, por otra
parte, las iglesias no han sido capaces de imponer en la sociedad nacional;
8) Abandonar los
procedimientos de chantaje y consistentes en ofrecer a los indígenas bienes y
favores a cambio de su total sumisión;
9) Suspender
inmediatamente toda práctica de desplazamiento o concentración de poblaciones
indígenas con fines de catequización o asimilación, prácticas que se reflejan
en el inmediato aumento de morbilidad, la mortalidad y la descomposición
familiar de las comunidades indígenas;
10) Abandonar la
práctica criminal de servir de intermediarios para la explotación de la mano de
obra indígena.
En la medida en que
las misiones no asuman estas obligaciones mínimas incurren en el delito de
etnocidio o de connivencia con el genocidio.
Por último,
reconocemos que recientemente elementos disidentes dentro de las iglesias están
tomando una clara posición de autocrítica radical a la acción evangelizadora y
han denunciado el fracaso histórico de la actividad misional.
LA RESPONSABILIDAD DE
LA ANTROPOLOGÍA
1) Desde su origen la
Antropología ha sido instrumento de la dominación colonial; ha racionalizado y
justificado en términos académicos, abierta o subrepticiamente, la situación de
dominio de unos pueblos sobre otros, y ha adoptado conocimientos y técnicas de
acción que sirven para mantener, reforzar o disfrazar la relación colonial.
América Latina no ha sido excepción y con frecuencia creciente programas
nefastos de acción sobre los grupos indígenas y estereotipos y distorsiones que
deforman y encubren la verdadera situación del indio, pretenden tener su
fundamento científico en los resultados del trabajo antropológico.
2) Una falsa
conciencia de esa situación ha conducido a muchos antropólogos a posiciones
equivocadas. Éstas pueden clasificarse en los siguientes tipos:
1.
a) El cientifismo que niega cualquier vínculo entre la actividad académica
y el destino de los pueblos que forman el objeto de esa misma actividad,
eliminando la responsabilidad política que conlleva el conocimien
1.
b) La hipocresía que se manifiesta en la protesta retórica sobre la base de
principios generales, pero que evita cuidadosamente cualquier compromiso con
situaciones concretas.
1.
c) El oportunismo que aunque reconoce la penosa situación actual del indio,
niega la posibilidad de transformarla, mientras afirma la necesidad de «hacer
algo» dentro del esquema vigente; lo que en última instancia se traduce en un
reforzamiento de ese mismo sis
3) La Antropología que
hoy se requiere en Latinoamérica no es aquella que toma a las poblaciones
indígenas como meros objetos de estudio, sino la que los ve, como pueblos
colonizados y se compromete en su lucha de liberación.
4) En este contexto es
función de la Antropología:
Por una parte, aportar
a los pueblos colonizados todos los conocimientos antropológicos, tanto acerca
de ellos mismos como de la sociedad que los oprime a fin de colaborar con su
lucha de liberación.
Por otra,
reestructurar la imagen distorsionada que existe en la sociedad nacional
respecto a los pueblos indígenas desenmascarando su carácter ideológico
colonialista.
5) Con miras a la
realización de los anteriores objetivos, los antropólogos tienen la obligación
de aprovechar todas las coyunturas que se presenten dentro del actual sistema
para actuar en favor de las comunidades indígenas. Cumple al antropólogo
denunciar por todos los medios los casos de genocidio y las prácticas
conducentes al etnocidio, así como volverse hacia la realidad local para
teorizar a partir de ella, a fin de superar la condición subalterna de simples
ejemplificadores de teorías ajenas.
EL INDÍGENA COMO
PROTAGONISTA DE SU PROPIO DESTINO
1) Es necesario tener
presente que la liberación de las poblaciones indígenas es realizada por ellas
mismas, o no es liberación. Cuando elementos ajenos a ellas pretenden
representarlas o tomar la dirección de su lucha de liberación, se crea una
forma de colonialismo que expropia a las poblaciones indígenas su derecho inalienable
a ser protagonistas de su propia lucha.
2) En esta perspectiva
es importante valorar en todo su significado histórico la dinamización que se
observa hoy en las poblaciones indígenas del continente, y que las está
llevando a tomar en sus manos su propia defensa contra la acción etnocida y
genocida de la sociedad nacional. En esta lucha, que no es nueva, se observa
hoy la aspiración de realizar la unidad pan-indígena latinoamericana y, en
algunos casos, un sentimiento de solidaridad con otros grupos oprimidos.
3) Reafirmamos aquí el
derecho que tienen las poblaciones indígenas de experimentar sus propios
esquemas de auto-gobierno, desarrollo y defensa, sin que estas experiencias
tengan que adaptarse o someterse a los esquemas económicos y socio-políticos
que predominen en un determinado momento. La transformación de la sociedad
nacional es imposible si esas poblaciones no sienten que tienen en sus manos la
creación de su propio destino. Además, en la afirmación de su especificidad
socio-cultural las poblaciones indígenas, a pesar de su pequeña magnitud
numérica, están presentando claramente vías alternativas a los caminos ya
transitados por la sociedad nacional.
Barbados, 30 de Enero
de 1971.
Miguel Alberto
Bartolomé
Guillermo Bonfil
Batalla
Víctor Daniel Bonilla
Gonzalo Castillo
Cárdenas
Miguel Chase Sardi
Gaoro Grunberg
Nelly Arvelo de
Jiménez
Esteban Emilio Mosrnyi
Dercy Ribeiro
Scott S. Robinson
Stefano Varase
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