<Non c’è bisogno di lavorare molto: lo smorkie è
già lì, nel nodo del cirmolo. Basta scoprirlo, saperselo immaginare. La faccia,
gli occhi, la bocca, il naso, la barba… un tocco di sgorbia, una spruzzata di
colore, ed è pronto>. Queste le parole di Helmuth Rungladdier, scultore
della Val Gardena, mentre parla dei suoi “uomini di legno”: spiriti degli
alberi che escono dalle radici, dai contorcimenti dei rami, dai tronchi, dalle
ceppaie. Spiriti dendrici che si scolpiscono in ogni valle dell’arco alpino;
che si mettono a protezione delle porte, appesi sopra i balconi, per cacciare gli
influssi maligni dalle case. Entità che sono la testimonianza radicata di una
religione arcaica, di cui si è tramandato il ricordo nella cultura popolare: il
culto degli alberi, praticato ovunque la vita degli esseri umani scorreva in
totale, completa simbiosi con la foresta primordiale che, per millenni, ha
ricoperto l’Europa.
L’ambiente naturale: la foresta primigenia
E’
difficile immaginarci, ora, come poteva essere il bosco immenso che ammantava
quasi completamente le terre emerse dell’Europa delle origini. Gli scavi degli
antichi villaggi su palafitte nella valle del Po hanno rivelato che, molto
prima dell’ascesa e forse anche della fondazione di Roma, l’Italia
settentrionale era ricoperta di un fitto mantello di olmi, noci, e specialmente
querce. Fino al I secolo dopo Cristo, la selva Ercinia partiva dal Reno
estendendosi verso est, per una distanza enorme e sconosciuta; i germani, ai
quali Cesare si rivolse per avere notizie più precise, avevano viaggiato per
due mesi sotto quegli alberi, senza intravvederne la fine. Qualcosa di simile
potremmo trovarlo, oggi, in Amazzonia: un firmamento verde che nasconde le
stelle; che si stende su strade, sentieri, case; una volta che raramente si
apre, per far vedere il cielo: universo mentale prima che dimensione fisica.
Un’entità senza confini precisi e conosciuti, animata, viva, pulsante, popolata
di esseri e di spiriti, in cui mondo di qua e mondo di là si intrecciano, si
scontrano, si sovrappongono si confondono e si dividono ogni giorno in posti
diversi; spazi strani dove si entra senza accorgersene, in cui qualsiasi
organismo vivente è dotato di una sua voce, di un suo carattere, di un suo
potere, di una sua volontà, che vanno riconosciuti, rispettati, propiziati e,
se possibile, usati per i propri scopi.
Le
poche radure dovevano apparire come isolotti in un oceano di foglie.
Gli
uomini erano solo uno degli elementi di cui è composta la selva; e dovevano
cercare di vivere in armonia col “resto”: per prima cosa, imparare a non
inimicarsi qualche potente signore invisibile; riconoscere i pericoli;
comunicare con ogni elemento possa insegnare qualcosa di utile: la foresta come
Madre, Maestra di vita, insuperabile scuola di iniziazione ai misteri. Come in
Amazzonia un ragazzo predestinato e volenteroso, per diventare sciamano, deve
ritirarsi nel più profondo del bosco, e restarci per almeno due anni, senza
parlare con nessuno, mangiando solo pesce e banane bollite in acqua di fiume
senza sale, “per apprendere i segreti delle piante”, così Merlino, prima di
dare un consiglio ad Artù, si inoltrava nella foresta; e dopo di lui, monaci ed
eremiti si perdevano nella selva alla ricerca dell’estasi e del rapporto
diretto con Dio.
In
secondo luogo, gli esponenti della razza umana dovevano imparare ad utilizzare
quello che la foresta generosamente regalava per la loro sopravvivenza: erbe e
piante, per guarire e per vedere gli spiriti; frutta e selvaggina per nutrirsi;
legna per costruire e per scaldarsi. E, come la selva amazzonica, nel corso di
questi ultimi millenni, ha subito l’influenza del lavoro degli indigeni, che
hanno selezionato le varietà arboree e vegetali più adatte per le loro esigenze
(1), i nostri boschi sono stati coltivati e curati da un tempo tanto remoto che
va oltre l’immaginazione. Le analisi archeologiche del suolo hanno dimostrato
che, sulle Alpi, alle primitive faggete e ad altre latifoglie furono spesso
sostituite essenze più utili, come il castagno. Forse, questa coltura fu
introdotta poco prima della conquista romana, importata attraverso influssi
della civiltà mediterranea penetrati nel bacino padano; o forse, l’introduzione
di questa specie è ancora più antica (2). In ogni caso, la possibilità che i
nostri antenati, così tanto tempo fa, siano riusciti a gestire ampi
disboscamenti (col fuoco?), ripiantando poi varietà non indigene, che
crescevano a centinaia di chilometri di distanza, testimonia non solo la
presenza di comunicazioni culturali con altri popoli, diversi per lingua e
lontani dal loro territorio; ma anche un’indubbia civiltà e maestria nel
signoreggiare le tecniche di selvicoltura, e una pianificazione economica e
sociale che doveva derivare da un’organizzazione sociale avanzata e complessa.
Non ci troviamo certo di fronte a dei selvaggi!
In
effetti, molti dei concetti che riteniamo “moderni”, frutto dell’ideologia
ambientalista che si è sviluppata negli ultimi decenni, erano ben noti a quegli
arcaici abitanti della foresta. Vedi il concetto di protezione della natura:
quando l’Europa era ancora coperta dal verde manto del meraviglioso bosco
primordiale, i druidi, i sacerdoti celti che amministravano il culto degli
alberi, celebravano i loro riti in alcuni punti “speciali” della foresta, a cui
l’accesso era severamente proibito. E ancora adesso, in Amazzonia, ci sono
alcune zone della selva, frequentate unicamente dagli sciamani, e soltanto in
alcuni periodi dell’anno: i posti in cui “la selva è più nera” servono alla
Grande Madre per ricostituirsi, e per far riprodurre gli animali. <E’ dove
si accoppiano i pappagalli: se vogliamo vederli volare, con quei loro
meravigliosi colori che portano gioia ai nostri occhi, non bisogna disturbarli.
Gli sciamani capiscono la loro lingua, e sanno come muoversi senza
offenderli>: in queste parole, pronunciate dagli indigeni colombiani, è già
contenuta, in nuce, l’idea di salvaguardia ambientale di aree sottoposte a
vincolo.
E’ con
l’arrivo dell’imperialismo statale, fatto di eserciti, di gerarchie e di
necessità commerciali, che impongono la schiavitù di interi popoli per
costruire strade e per coltivare campi di grano, per nutrire armate e burocrati
e nobili, che comincia l’assassinio della foresta. I romani pensavano che la
natura potesse essere violata e saccheggiata a loro utile e piacere: non
riuscivano a vedere ragione alcuna per cui gli uomini non avrebbero potuto
prendersi ciò che volevano, tutte le volte che lo avessero desiderato. Chiunque
avesse spogliato della vegetazione un territorio incolto, riceveva il placet
dalle autorità. Quando gli stati entravano in guerra, estese regioni venivano
denudate, per fornire agli eserciti i mezzi per spostarsi, e alle flotte le
navi. Così, mentre gli imperi della civiltà classica si estendevano a est e a
ovest, lungo le coste del Mediterraneo, e penetravano nell’Europa del nord, il
bosco originario diminuiva. Specialmente nelle zone aride (il Nord Africa, per
esempio, che era stato una delle provincie più ricche della Roma antica) la
fine non tardò ad arrivare. Il colpo di grazia fu inferto, oltre che dal
disboscamento, dalle continue arature tese alla massimizzazione del raccolto di
grano (3).
Da noi
andò un po’ meglio: i romani avevano paura delle montagne; le credevano
popolate dagli spiriti (maligni). Il disboscamento si fermò ai fondovalle; e,
quando l’impero cadde, sulla pianura padana fertile e piovosa non tardarono a
ricrescere rigogliose le foreste del Tempo senza Storia. Le città erano rare e
isolate, mal collegate fra loro con quelle poche strade che erano riuscite a
salvarsi dalla rovina per mancanza di schiavi da manutenzione; i nobili
vivevano arroccati nei loro castelli, e conducevano vita a parte; le vecchie
tribù di origine celtica non coltivavano più i campi, ma erano tornate a vivere
in simbiosi col bosco, accontentandosi di raccogliere i frutti e di cacciare.
Nei borghi erano rimasti gli esponenti della cultura scritta
ebraico-cristiana-romanizzata, col dovere di tramandarla ai posteri, cioè i
preti: i quali, a parte asceti, eremiti ed affini, sempre in odore di eresia,
nutrivano un timor panico di quella sconfinata distesa verde. Rifugio di uomini
selvatici e senza legge, di eretici e pagani, di briganti e di streghe, le
foreste hanno rappresentato, per secoli, l’altra faccia, il lato oscuro, il
“cuore di tenebra” del mondo civilizzato e ordinato, la proiezione verso
l’esterno del caos primigenio delle forze vitali, delle pulsioni telluriche,
degli istinti animali non controllati e non controllabili: in questo senso,
“selva oscura”, metafora di sviamento e di pericolo in agguato per l’uomo
razionale e acculturato.
Mondo
della civiltà e mondo della foresta si oppongono nella linearità della
temporalità artificiale-istituzionale e nella temporalità ciclica della natura,
così come alla spazialità direzionale dell’umano-civile, orientata secondo una
strada ben definita, possibilmente pavimentata e fissa, si contrappone la
struttura irregolare e disseminata dei sentieri del bosco, quei sentieri che il
cittadino non sa riconoscere. Per attraversare il la foresta deve affidarsi a
guide che possono tendergli un tranello in qualsiasi momento, per rapinarlo,
massacrarlo o peggio; gente di cui non capisce la lingua, di facili costumi,
selvatici, delinquenti, in comunicazione diretta con tutti i diavoli
dell’Inferno: si viaggia sotto scorta, o travestiti, in certe zone d’Europa, fino
a ‘700 inoltrato.
Ed è
proprio alla fine del XVIII secolo, in Germania, che inizia un nuovo sapere, la
selvicoltura, che porta a compimento la riduzione oggettiva delle selve da
entità animate e pericolose a riserve di caccia e di legname: pura estensione
ricondotta alla nozione generale dell’utilità, persino quando si tratta di un
beneficio meramente estetico, come nel caso del “parco”, o “riserva naturale”.
L’atteggiamento
razionalistico e illuministico supera quello stato di “minorità” in cui i roveri
offrono oracoli e auspici, per farli diventare oggetto di sorveglianza e di
ordinaria amministrazione. Poco più tardi, si sarebbe affermata una concezione
ancor più reificata, di bosco come volume quantificabile di legno utilizzabile:
è l’avvento della “scienza” forestale, basata sull’applicazione della
matematica forestale, una scienza applicata mediante la quale i selvicoltori
potevano calcolare il volume del legno in una data area geografica, proiettare
i ritmi di crescita dei boschi nel futuro, e determinare i tempi di taglio
secondo calcoli precisi. I selvicoltori divennero scienziati al servizio dello
stato, e nacque una nuova categoria di professionisti: i “Forstgeometer”, o
esperti di geometria forestale (4).
Il contesto spirituale: la foresta animata
Un tempo, quando tutte le creature parlavano, gli
animali, le erbe e anche i sassi, un uomo andò nel bosco a tagliar legna.
Aveva fra le mani un piccolo tronco e lo aveva
sistemato sul ceppo, per spaccarlo.
Sollevò la scure e il tronco cominciò a parlare.
L’uomo fermò la scure per sentire quello che il tronco
aveva da dire.
Il tronco diceva: <Spaccami in pezzi grandi, non in
piccoli>.
Quando fecero il Sacro Concilio di Trento, vennero a
benedire le piante, gli animali e anche i sassi.
Da allora in poi non parlano più, né piante, né
animali, né sassi (5).
Dal
punto di vista spirituale, la foresta primordiale era un’entità estremamente
complessa e diversificata: nello stesso istante, essere senziente, pensante e
divinità nella sua interezza; insieme infinito di innumerevoli entità; Grande
Madre e Principio Fecondatore; dispensatrice di vita e di morte. Tempio degli
dei e casa degli uomini: bene e male. Universo panteista ed animista nello
stesso tempo, in cui le cose mantenevano un proprio posto e un proprio ruolo,
con cui tutta la gente oltre agli iniziati, sapeva comunicare, e viveva in
rapporto di continuo scambio.
Cosmo
in instancabile evoluzione, per gli antichi quelle fantastiche selve oscure
erano veri e propri santuari. Studiando i vocaboli teutoni che indicavano
“tempio”, Grimm giunse alla conclusione che, fra gli antichi germani, i luoghi
di culto più antichi erano proprio le foreste. Il bosco sterminato dell’Europa
pre-storica era qualcosa di straordinario: era magico. Quelle colonne dirette
verso il cielo, il sottobosco, con le sue ombre e le sue penombre, i sussurri,
i rumori, gli odori; quell’infinita molteplicità di vita hanno sempre suggerito
il concetto di arcano.
I
druidi officiavano sotto gli alberi, o nelle radure sacre, perché ritenevano oltraggioso
racchiudere Dio fra quattro mura, così come pensavano di disonorarlo scrivendo
le sue parole sulla carta.
L’uomo
antico era ben consapevole del fatto che un albero, vissuto centinaia di anni
assorbendo le vibrazioni della terra, del vento, della pioggia, del sole e
degli animali, racchiudesse dentro di sé molta più saggezza di quanto la razza
umana potesse immaginare: a lui, quindi, si rivolgeva sia nei momenti di gioia
che in quelli di bisogno; sotto le piante non solo adorava le sue divinità, ma
teneva consiglio e giudicava i colpevoli. La somma sapienza veniva da certi
alberi: Odino ottenne la conoscenza delle rune dopo essere stato appeso per
nove giorni al frassino Yggradsil, che cresceva ai piedi della fonte di Mimir,
la cui acqua donava una saggezza tanto preziosa da indurre il dio a cedere uno
dei suoi occhi pur di berne un sorso. Merlino arrivò alla suprema iniziazione
solo dopo esser salito fino in cima al pino di Barenton: questo nome è
probabilmente la deformazione di Belnemeton, bosco sacro di Belen, dio solare
gallico (6).
L’albero,
in quanto simbolo dell’eterna rinascita, dell’immortalità che collega cielo e
terra, sin dall’inizio dei tempi è stato non solo sacralizzato, ma considerato
rappresentazione dell’universo, perché inglobava in sé il mondo sotterraneo,
quello dei morti, per le radici che scavano le profondità in cui affondano;
quello di mezzo, cioè quello dei vivi, per il tronco e i primi rami; e quello
celeste, il mondo di Dio, per la chioma attirata dalla luce del sole. Rettili
strisciano fra le sue radici, uccelli volano e fanno il nido alle sue sommità:
in questo modo mette in relazione il mondo ctonio con quello uranico,
rinnovando e alimentando centinaia di esseri diversi.
Il mito
dell’albero cosmico è sicuramente uno dei più diffusi nel tempo e nello spazio,
fra le genti di ogni continente, e serve a spiegare l’origine del creato, della
terra e dei suoi abitanti. Parlando di elementi simbolici mitici, ci troviamo
di fronte ad uno dei più grandi archetipi che permeano, a livello
transculturale, l’immaginazione umana, anche infantile.
La
pianta rispecchia e rappresenta il carattere ciclico dell’evoluzione cosmica,
che torna e ritorna su se stessa, prima che la cultura illuministica e
cristiana imponesse una concezione di progresso eterno. Morte e rigenerazione:
soprattutto le specie a foglie caduche evocano un ciclo, perché si spogliano e
si rivestono, ogni anno, delle proprie fronde.
L’albero
riunisce tutti gli elementi: l’acqua circola con la linfa, la terra si integra
al suo corpo attraverso le sue radici, l’aria nutre le sue foglie, il fuoco
nasce dal suo legno secco.
Per
intuire lo spazio segreto di un albero occorre reimparare quella scienza
simbolica che non procede solo con la logica, ma anche con l’intuito e la poesia.
La “geografia mitica” di una pianta si rivela ritrovando quella che dovrebbe
essere una delle grandi finalità pedagogiche, e cioè la contemplazione. La
“visione” e l’esperienza mistica, patrimonio millenario dell’umanità, non
devono più essere giudicate follia pericolosa, ma ricchezza e fattore di
integrità. Chi oggi è colpito da un collasso psichico annega in quella stessa
acqua in cui il mistico ha imparato a nuotare.
In
questa arcaica visione dello spazio, sia mentale che di coscienza, ma
specialmente spirituale, il concetto che bisogna saper afferrare è quello di
“centro”. L’albero è un centro, e questo centro comprende, ma anche supera,
quello geometrico-spaziale. Appare come un punto di convergenza simbolico e
sacro in cui il sotto e il sopra, il dentro e il fuori, il cielo e la terra
vengono come superati e riassunti in un’unica intuizione poetico-religiosa (7),
talmente complessa che nessun modello matematico sarà mai capace di
sintetizzarla, ma, allo stesso tempo, talmente semplice da essere alla portata
di un bambino.
Anche
il simbolismo sessuale degli alberi è duplice. Gli antichi sapevano bene che le
piante, o per lo meno alcune di esse, sono sessuate, e in certi casi sono
arrivati anche a praticare la fecondazione artificiale (8). Esteriormente, il
tronco eretto e la posizione verticale, tesa verso l’alto, fanno pensare ad
un’immagine fallica. Le leggende ci hanno tramandato innumerevoli ricordi di
padri-alberi. Ma la cavità dell’albero spesso interviene come matrice analogica
alla grotta, simbolo dell’utero e della femminilità. Il filone della fecondità
arborea si ricollega con la stessa luna, come fonte di vita e di rinnovamento
ciclico della vegetazione. Una delle manifestazioni della Grande Dea, la Madre
Terra che veniva adorata dalle popolazioni di origine celtica fin dalla notte
dei tempi, è proprio l’albero: e questo, da parecchi millenni a questa parte,
fino alle tante apparizioni della Madonna fra i rami di una pianta. Ecco una
bella leggenda che viene dalla valle Sabbia (Bs):
A Provaglio, in località Cornelle, un giorno, fra i
rami di un vetusto frassino, venne scoperta una tavola di stucco che
riproduceva la Vergine con il suo pargoletto stretto fra le braccia. I
provagliesi, cui la precaria sistemazione non sembrava decorosa, decisero di
trasportare la tavola in un luogo nel quale avrebbe potuto più agevolmente
essere ammirata e adorata dai fedeli cristiani e la sistemarono nell’oratorio
di san Michele. Ma la loro sorpresa fu grande quando si accorsero, il giorno
dopo, che il simulacro era ritornato miracolosamente fra i rami del grande
frassino. Ritrasportata, la Vergine ritornò, per altre due volte, dove era
stata ritrovata e ciò avvenne sempre in modo inspiegabile. La conclusione fu
che il maestoso albero venne abbattuto e, sullo stesso posto (o meglio, al suo
posto) fu eretto un edificio religioso cristiano (9).
Molti
santuari mariani sono nati dalle radici di una pianta: vedi le varie Madonne
dell’Acero, dell’Elce, del Faggio, dell’Olivo, dell’Olmo, del Pino, della
Quercia, del Salice… In numerose leggende di fondazione, poi, i rami
dell’albero su cui è collocata l’immagine della vergine le crescono tutto
attorno, e finiscono per racchiuderla inestricabilmente in una sorta di bozzolo
protettivo.
Sia in
Svezia che in Africa, si attribuisce alle piante il potere di concedere alle
donne un parto facile. Il alcuni distretti svedesi, esisteva, una volta, un
albero-custode (un tiglio, un frassino o un olmo) vicino ad ogni fattoria.
Nessuno ne avrebbe staccato nemmeno una foglia, perché chi lo offendeva sarebbe
stato punito con sfortune e malattia. Le donne incinte lo abbracciavano per
partorire senza pericoli (10)
In
alchimia, l’albero è collegato con la luna e il sole (principi maschili e
femminili). Nell’iconografia cristiana, specialmente medioevale, a destra e a
sinistra di quell’albero della vita che è la croce di Gesù, è sovente
raffigurato un sole ed una luna. Il potere fertilizzante della luna è
frequentemente confuso col fuoco “nascosto” nel legno da cui lo si può
estrarre, mediante attrito. L’albero è spesso immaginato come padre del fuoco.
Ma l’albero cavo è, nello stesso tempo, anche la pianta rigeneratrice: nella
Bibbia, è dalla quercia cava che sgorga l’acqua dell’eterna giovinezza.
Rappresenta il fornello nel quale gli alchimisti, dopo diverse operazioni,
fabbricavano la pietra filosofale, che, al contatto di qualsiasi altro metallo,
lo trasformava in oro. Così la quercia cava diventa, in qualche modo, matrice
della pietra, e in questo senso Jeronimus Bosch, nelle “Tentazioni di
sant’Antonio“, l’ha assimilata ad una megera che estirpa dal suo ventre di
corteccia un bambino in fasce.
Il culto degli alberi
Il
culto degli alberi è documentato per tutte le grandi stirpi europee del ceppo
ariano. Le querce dei druidi ormai sono celeberrime e note; ma ogni tribù
disponeva di un proprio albero protettore, spesso antenato mitico e totem,
oltre che centro del mondo e asse cosmico. Tiglio fra i germani, frassino in
Scandinavia, olivo nell’Islam, banano in India, betulla o larice in Siberia …
Non
ogni albero della stessa specie, comunque, veniva considerato sacro: erano
intoccabili, in genere, i più imponenti, quelli che avevano una qualche
conformazione particolare, o quelli che stavano attorno ai grandi massi. Il
complesso pietra-albero-altare, poi, forma un microcosmo effettivo negli strati
più arcaici della vita religiosa di molti popoli: vedi, oltre all’Europa
centrale e settentrionale, le aree che si affacciano sull’Egeo, l’Australia, la
Cina, l’Indocina, l’India, la Fenicia…
Quei
riti arcaici si celebravano essenzialmente nei boschetti sacri, che erano
generalmente recintati e, spesso, consistevano in una radura, o spianata, con
pochi alberi sui quali veniva appesa la pelle della vittima sacrificata
(animale; qualche volta, uomo). Il punto focale del boschetto era l’albero
sacro. Davanti a lui si radunavano i fedeli, e il sacerdote innalzava le sue
preghiere; ai suoi piedi veniva immolata la vittima e, talvolta, i suoi rami
servivano da pulpito.
Dotati
di sensibilità e intelligenza, di anima e di carattere differenziati, proprio
come gli esseri umani, gli alberi erano abitati, oltre che da bestie di ogni
specie, da fate, folletti ed altri esseri del mondo sottile. Tagliare o
danneggiare uno di questi patriarchi diventava un delicato intervento
chirurgico che andava eseguito con la massima delicatezza possibile, per non
ferire corpo e sentimenti del paziente che, altrimenti, poteva ribellarsi e
uccidere il chirurgo distratto o pasticcione. E se la pianta se ne dimenticava,
ci pensavano gli uomini: fra i germani si infliggevano punizioni feroci a
chiunque avesse osato strappare la corteccia di un albero ancora radicato al
suolo.
Al colpevole veniva tagliato l’ombelico, che veniva
poi inchiodato all’albero nel punto in cui lo aveva scortecciato; poi veniva
fatto girare e rigirare intorno alla pianta profanata, fino a che le sue
viscere erano completamente avvolte al tronco, per sostituire la corteccia
morta con una viva, presa dal reo; vita per vita. La vita di un uomo per quella
di una pianta (11).
Le
precauzioni nel disboscamento, e le pene per vandalismi inutili, testimoniano
non tanto e non solo il rispetto dei nostri antenati per la foresta, quanto la
sua funzione di indispensabile dispensatrice di vita e di ricchezze,
riconosciuta e condivisa dalla comunità. La “selvicoltura naturalistica”,
frutto della “cultura scientifica”, era ben conosciuta a quelle antiche genti:
gli alberi sacri erano spesso gli esemplari più belli, quelli che danno il seme
(le matricine), quelli che ancora oggi vengono lasciati in vita dopo un taglio
per ricostituire il bosco.
Fra
quelle tribù, le credenze religiose non erano separate dalla vita quotidiana,
come succede oggi, ma, anzi, ne costituivano parte integrante, e riuscivano a
dare un senso e una spiegazione alle azioni e ai doveri di ogni giorno: per
questa ragione, i cristiani faticarono tanto ad estirpare il culto degli
alberi.
La
Chiesa tuonò contro gli adoratori di alberi e lottò per estirpare il culto
degli spiriti arborei già fin dai primi secoli. I preti cristiani si accanirono
in maniera speciale sui boschi sacri. Quella religione senza dei, che credeva
nelle forze della natura, senza insegne e senza edifici sacri, senza regole
scritte da contestare teologicamente, non identificabile e quindi non perseguibile
con sistemi eclatanti (vedi roghi di libri senza imprimatur, distruzione di
idoli e di vitelli d’oro, smantellamento di altari); inafferrabile, perché i
suoi riti potevano essere celebrati anche dalle persone normali, che con
qualsiasi scusa potevano recarsi nella foresta, li impauriva oltre ogni misura.
Le piante sacre furono segate e bruciate per dimostrare la debolezza e
l’impotenza degli spiriti.
Con il
Concilium Carthaginiense dell’anno 397, e col Concilio di Arles del 448, e,
ancora, col Concilio di Auxerre del 583, le gerarchie ecclesiastiche condannano
la religione degli alberi. Papa Gregorio Magno, nel 591, ordinò di punire quei
Terracinesi che ancora adoravano le piante. Il re longobardo Liutprando fece
proprie le tesi riportate in un canone del Concilio romano del 721 e, nel 727,
vietò, nello stesso capitolo di legge, le arti divinatorie, gli incantesimi, il
culto degli alberi e delle fonti. E così via. Per secoli.
Malgrado
tanti sforzi da parte del clero cristiano cattolico, la persecuzione ottenne un
certo successo nelle città e nei borghi sottoposti al controllo della Chiesa di
Roma: ma anche inquisitori e missionari avevano paura ad inoltrarsi nel
profondo del bosco; e c’è da supporre che per lunghi, lunghissimi secoli molti
degli alberi sacri siano sopravvissuti, e sotto la loro fresca ombra protettiva
si siano dati convegno quelli che rifiutavano l’omologazione cristiana: vedi il
noce di Benevento, punto d’incontro di streghe per il sabba…
Quando
Carlomagno decise conquistare l’Europa, e di finirla con i sassoni, li inseguì
e li sterminò ai piedi di un gigantesco albero-totem, che rappresentava il loro
Dio, o meglio, l’universo panteistico e animato su cui facevano affidamento per
evitare il massacro. Comincia la sua campagna nel 772, con una straordinaria
azione di guerra psicologica: aveva sempre sentito sussurrare, nei lunghi
inverni passati davanti al fuoco con la madre e i famigli sui castelli del
Reno, di un “mostruoso” tronco di quercia. Davanti a lui si compivano i
sacrifici alle divinità della natura, il dio del tono chiamato Donar, e Wotan
dio della folgore e della forza, che rendeva i sassoni invincibili. Irminsul.
Questo il nome della quercia piantata nel magico bosco: un nome tremendo e
seducente. Irminsul l’albero del mondo, reggeva la volta del cielo e le sorti
della vita. Sul suo tronco, centinaia di facce e di spiriti erano stati incisi
nel corso dei secoli, e modellati assieme alla corteccia, pelle viva della
divinità, che cambiava nel tempo come il mondo e l’esistenza umana. Il recinto
sacro di Irminsul era protetto da una piazzaforte, costruita ai piedi della
grande selva di Teutoburgo nel villaggio di Heremburg.
Sembra
un racconto da favola: la guerra contro una quercia, le tenebre della foresta,
un misterioso splendore legato a riti arcani. Ma è la cronaca vera di una
spedizione attentamente studiata, fin nei minimi dettagli, per sbaragliare la
resistenza di quei popoli “barbari”, e per distruggere la loro cultura prima
della loro vita. Inaspettato, l’imperatore sgominò i sassoni nella loro
roccaforte, dopo aver fatto massacrare tutti coloro che resistevano. Poi si
diresse con i suoi dentro il recinto di Irminsul.
La quercia, gigantesca e incredibile, si ergeva sugli
altri alberi della foresta: davanti a lei i soldati si fermarono, affascinati.
Nel silenzio Carlo impartì l’ordine di abbatterla. Con asce e picconi una
squadra si gettò su quel monumento di legno vivo, violando, squartando,
spaccando, tra gli incitamenti e le urla dei compagni, grida d’entusiasmo e
d’ira per la punizione di Dio che si scagliava su quell’idolo degli infedeli.
Carlo, taciturno, seguiva la scena selvaggia con gli occhi fissi su quella
quercia sognata per decenni. Quando l’albero meraviglioso cadde, precipitando
con orribile frastuono nel folto della selva, anche l’imperatore si piegò in
ginocchio.
La
resistenza delle tribù che neanche Roma aveva saputo piegare cominciò a
incrinarsi; e da quel momento iniziò l’evangelizzazione. Dieci anni dopo, il
colpo di grazia. Dopo una battaglia in cui l’eroico comandante dei sassoni,
Vitichindo, gli fece il gran torto di riuscire a fuggire,
Carlo fece trascinare a Verden i prigionieri legati
come buoi al macello, e ordinò di condurli fuori dal paese, in una radura
piuttosto ampia che si apriva dentro un bosco di abeti. Nella notte, anche
tutti gli abitanti di Verden furono strappati dalle loro case, e portati di
forza nella radura. Altri ostaggi vennero catturati nel giro di qualche miglio
all’intorno: contadini che vivevano nelle capanne accanto al fiume, o che si erano
rifugiati nella foresta per salvarsi. All’alba del giorno seguente, lo spazio
era stipato di cinquemila creature. Nel centro della spianata i franchi
inchiodarono una specie di patibolo, con una grossa trave incavata nel mezzo
per far appoggiare le teste vive che dovevano essere mozzate.
Fu annunciato a tutti, in lingua toesca, che era la
parlata corrente delle genti germaniche, di affrettarsi a scegliere fra il
battesimo e la morte. Un monaco in tonaca nera andò a mettersi in piedi sul
patibolo e pronunciò anatema contro l’abietto culto dei demoni, che i sassoni
si ostinavano a praticare. Chiamò Wotan e Donar mostri del peccato, divinità
immonde, facendo scorrere un fremito di indignazione fra le fila dei
prigionieri. Poi, brandendo in alto la croce, ordinò alle loro anime di
mettersi in pace con Cristo accettandolo come unica verità e salvezza. Venne
intimato di inginocchiarsi. In un grande mormorio, che si confondeva con quello
della foresta, i sassoni obbedirono, credendo che quell’atto di omaggio bastasse
a soddisfare la volontà dei vincitori.
Ma mentre stavano là piegati ad aspettare con qualche
speranza le decisioni del nemico, Carlo in persona montò sopra il palco,
insieme ad un gruppo di giovani ufficiali. Soldati vociferanti percorsero le
schiere dei prigionieri, spingendoli ad alzarsi con la spada puntata alle reni,
perché si avvicinassero al patibolo. Ad ognuno di loro, il monaco rivolgeva la
domanda canonica: se volevano servire Cristo o Satana. Dovevano rispondere
sconfessando gli antichi dei, riconoscendoli falsi e bugiardi. Se questa
dichiarazione veniva pubblicamente pronunciata, venivano mondati dai peccati
con la sacra acqua del battesimo. Altrimenti, un soldato gigantesco armato di
scure gli spiccava la testa dal busto.
Quattromila cinquecento volte l’ascia del carnefice
fece il suo tremendo lavoro, per tre giorni interi dall’alba al tramonto. Carlo
assistette a tutte le esecuzioni. Non appena il condannato mostrava di voler
rifiutare l’abiura, batteva la sua spada sulla trave del patibolo e dava
l’ordine di decapitare (12).
Gli
slavi miscredenti adoravano alberi e piante. I lituani si convertirono al
cristianesimo solo alla fine del XIV secolo e, ancora a quella data, la
religione degli alberi era molto diffusa fra loro. Alcuni veneravano grosse
querce; altri, grandi alberi fronzuti da cui traevano previsioni per il futuro.
Altri ancora, custodivano boschetti sacri, accanto ai villaggi o alle case, e
pensavano che spezzarne anche un solo rametto sarebbe stata colpa grave.
Credevano, infatti, che chiunque avesse danneggiato quelle piante, sarebbe
stato colpito da morte improvvisa o da paralisi (13).
Il ricordo degli alberi sacri
Fino
agli anni ’20 di questo secolo almeno, a Grbalj, in Dalmazia, si diceva che,
fra i grandi alberi come querce e faggi, alcuni fossero dotati di anima, e
chiunque abbattesse uno di loro sarebbe morto nello stesso istante, o sarebbe
rimasto invalido per il resto dei suoi giorni. In alcune zone dell’Austria, i
vecchi contadini credevano che gli alberi della foresta fossero esseri viventi,
e non incidevano la loro corteccia, se non in casi specialissimi ed estremi:
avevano appreso dai loro padri che le piante soffrivano dalle ferite, né più né
meno che una persona. Quando abbattevano un albero, gli chiedevano perdono. Si
raccontava che, nell’Alto Palatinato, i vecchi boscaioli, quando devono
tagliare un bell’albero sano, gli chiedano scusa prima di ucciderlo (13).
Ma il
ricordo degli spiriti vegetali è rimasto nelle feste del maggio (14), in cui si
erge l’albero sacro, simbolo dell’eterna rinascita della vegetazione e, quindi,
di ricchezza e di fecondità, e nell’”om dal bosch“, maschera di
carnevale tutta composta di fronde, che si ritrova ancora oggi in molte
località delle Alpi.
La
tradizione della festa dell’albero di maggio era diffusa in tutta Europa, e non
solo nelle campagne: in piena Milano, fino al 1820 circa, si ballava intorno
agli alberi adorni di fiori nella notte di san Giovanni. In primavera, al
principio dell’estate, e perfino a ferragosto, esisteva, e, in parte, esiste
ancora, l’usanza di andare nel bosco a tagliare un albero da portare al
villaggio, dove viene innalzato, fra il giubilo generale; o di appendere dei
rami verdi in ogni casa. Tutto questo per rendere partecipe la comunità dei
benefici che lo spirito arboreo ha il potere di elargire. In alcune zone, si
pianta un albero di maggio davanti ad ogni casa; o si va di porta in porta con
quello comunitario, in modo che ognuno possa godere della sua parte di fortuna.
La
festa aveva lo scopo di portare nel paese il potere fecondatore della foresta,
che si risveglia ogni anno in primavera; tanto che queste feste prendevano
spesso un andamento orgiastico, e la Chiesa si sforzò in ogni modo di
proibirle, senza, però, riuscirsi completamente. Per lo stesso motivo ancora
oggi nelle provincie alpine di Svizzera, Austria e Germania, in Trentino, in
Alto Adige e in Veneto si mette un alberello sul tetto quando si finisce di
costruire una casa, e il proprietario offre ai muratori un buon pranzo; e,
nelle zone alpine di lingua tedesca, quando una coppia si sposa, gli amici
piantano un albero ornato di ghirlande e di nastri davanti alla loro porta.
Nelle
celebrazioni del “maggio”, durante l’intera giornata, e poi per tutta la notte,
erano musiche, balli e danze sfrenati, gran mangiate con conseguenti bevute,
lazzi e scherzi non proprio innocenti. Il clima della celebrazione, lo spirito
“naturale” che vi dominava, le vicinanza di boschetti odorosi e di anfratti
vegetali favoriva, specie verso l’imbrunire, l’incontrarsi di coppie più o meno
regolari. Questo, secondo gli schemi della magia omeopatica, doveva esser parte
del rito; e, nei secoli passati, un momento importante del rito di
fecondazione, che vede l’albero portatore di invisibili, benevole entità che,
spargendosi attorno, come i suoi semi, avrebbero stimolato lo sviluppo di
piante e messi, rendendo donne e animali più sani e più prolifici. L’albero
scendeva a fecondare il ventre della Grande Madre Terra, che avrebbe generato
tutto quanto di buono e di abbondante sarebbe stato possibile per rendere
migliore la vita di chi traeva dalla natura e dall’ambiente circostante le
risorse per sopravvivere.
Filiazione
diretta dell’albero di maggio, dispensatore di ricchezza e di fortuna, sotto
forma di cibo, è il palo della cuccagna, che non è altro che un “mas” a cui
sono stati appesi dei premi, solitamente mangerecci, per arricchire la festa
con una gara di forza e di abilità fra i gruppi di giovani del paese, che, in
questo modo, potevano mettersi in mostra di fronte alle ragazze.
Ma
forse, la testimonianza più impressionante della presenza di un atavico culto
delle piante è rappresentato dall’albero personificato, l’”om dal bosch” (15),
uno spirito vegetale antropomorfizzato secondo i dettami di un animismo che non
ha mai fatto in tempo ad estinguersi. L’”om dal bosch”, fatto tutto di fronde,
è una figura ricorrente, sotto nomi diversi, non solo in area nordica e alpina,
ma anche sugli Appennini, e trova oggettivi richiami perfino nei riti agresti
dell’Italia meridionale.
Il
travestimento dell’essere arboreo poteva essere formato da fronde e frasche, da
foglie, licheni, cortecce e rami secchi. Questa maschera, che impersonava una
strana ibridazione umano-vegetale, rappresentava, letteralmente, la foresta, e
rivestiva la funzione fecondatrice e propiziatrice dell’albero di maggio. In
val di Fassa, durante il carnevale, l’”om dal bosch” doveva ballare con
ogni donna, e si diceva che… doveva metterle tutte incinte. Retaggio sicuro di
un culto della fertilità, primordiale e orgiastico, praticato fin dagli albori
della storia della nostra civiltà, che, ad un certo punto, ha dovuto essere
eliminato e, quindi, esorcizzato nel migliore dei modi possibili.
Il
mondo vegetale, dotato di proprie leggi e di un’assoluta autonomia operativa,
selvatica, appunto, riesce a sottrarsi, per millenni, al controllo dell’essere
evoluto; per poi subire la sua vendetta. All’interno del carnevale, lo spirito
silvestre supporta il tema principale della “cacciata dell’essere mitico”:
ovvero, diventa la creatura da colpevolizzare secondo il desiderio di una
collettività sempre alla ricerca di un capro espiatorio cui attribuire il male
comune, e di una Chiesa e di una cultura “dotta, civile e urbana”
immediatamente pronta ad identificare il Negativo con chi si sottrae al suo
dominio.
Proprio
questo collegamento con il concetto di demoniaco ha spinto a sovrapporre la
maschera dell’uomo del bosco con quella del diavolo: in val di Fassa, il Salvan
era associato allo Strion (stregone), alla Stria e al Diaol, i malvagi abitanti
della foresta secondo Santa Madre Chiesa. I costumi riproponevano la tipologia
dell’essere silvestre: pelli, foglie, rami, cortecce; ma l’aggiunta delle corna
diaboliche esaspera la malvagità del personaggio, enfatizzando e sancendo la
sua appartenenza all’universo infernale (16).
Note
1)
Francois Correa, La selva humanizada, Editorial Presencia,
Bogotà, 1993
2)
Giacomo Doglio, Gerardo Unia, Abitare le Alpi, L’Arciere, Cuneo,
1980, p 27.
3)
Robert Pogue Harrison, Foreste, l’ombra della civiltà, Milano,
Garzanti, 1992, p 73-74.
4)
Luisa Bonesio, Il cuore selvatico, in Tellus – Rivista di
geofilosofia, anno VII, n°16, luglio 1996, Morbegno, p 39-40.
5)
Bruna Maria Dal Lago, Elmar Locher, Leggende e racconti del Trentino
Alto Adige,Roma, Newton Compton, 1990, p 85.
6) Alberta
Dalbosco, Carla Brughi, Entità fatate della Padania, Milano, Edizioni della Terra
di Mezzo, 1993, p 10.
7)
Mario Bolognese, Amordialbero, Rovereto, Edizioni Osiride,
1995, p 23.
8)
James George Frazer, Il ramo d’oro, Roma, Newton, 1992,
p 144.
9)
Carlo Agarotti, L’albero di maggio: da rito precristiano a tradizione
popolare, in AA.VV., La ruralità e il territorio, Brescia,
Grafo, 1994, p. 140-141.
10)
James George Frazer, Il ramo… cit., p 150.
11)
James George Frazer, Il ramo... cit., p 140.
12)
Gianni Granzotto, Carlo Magno, Milano, Mondadori, 1978, p 94-103.
13)
James George Frazer, Il ramo… cit., p 140-143.
14) Per
una trattazione più completa della tradizione delle feste del maggio in nord
Italia, confronta Carlo Agarotti, L’albero di maggio cit., p
139-155.
15. Roberto Togni, L’uomo
selvatico nelle immagini artistiche e letterarie, inAnnali di san
Michele, n°1, 1988, Museo degli usi e costumi delle gente trentina di san
Michele all’Adige, Editoria, Trento, p 149.
16. Massimo Centini, Il
sapiente del bosco, Xenia, Milano, 1989, p 154-155.
UNA BREVE NOTA DELLA BOTTEGA
Nel
ricchissimo “Dossier foreste” che codesto blog ha allestito non poteva
mancare un po’ di contro-informazione storica, politica e sovversiva
sull’antica religione del bosco e sui risvolti
magici-psicoanalitici-stregheschi. delle foreste. Mi sono guardato in giro ma
le “stregasse” (come si dice da questi parti) che conoscevo erano tutte
occupate. Così mi sono ricordato di aver letto tempo fa un libro pieno di
spunti al riguardo: “Donne delinquenti” (Edizioni Simone: 366 pagine per
18 euri) ovvero “Storie di streghe, eretiche, ribelli, rivoltose, tarantolate”
di Michela Zucca. Non conoscevo l’autrice ma il bello della rete è che spesso
trovi in tre minuti una persona (o il suo blog, come in questo caso). Così le
ho chiesto se aveva un testo pronto o se aveva voglia di scriverne uno. La sua
gentilezza e velocità sono state stupefacenti come la sapienza del testo che mi
è giunto. (db)
Nessun commento:
Posta un commento