È in corso
in questi giorni nella città di Katowice in Polonia la conferenza climatica
COP24 organizzata dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici (UNFCCC). Questo summit ha il compito di definire le politiche
necessarie per raggiungere l’obbiettivo sancito dall’Accordo di Parigi nel
2016, ossia limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5°C rispetto ai
livelli pre-industriali. Tale assise potrebbe essere l’ultima opportunità per la comunità
internazionale di adottare le misure necessarie per evitare l’apocalisse
ecologica.
Il Gruppo
Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha infatti pubblicato il mese
scorso un nuovo rapporto in cui suona il campanello di
allarme sulla nostra attuale traiettoria climatica: se vogliamo limitare il riscaldamento
globale a 1,5°C dobbiamo dimezzare le emissioni globali nei prossimi 12 anni e
ridurle a zero entro la metà del secolo. Tale traiettoria di
decarbonizzazione è ambiziosa oltre ogni dire. La
sfida è immane e la posta in gioco lo è ancora di più. Come ha detto il
co-presidente dello IPCC, «i prossimi anni sono probabilmente i più importanti
della storia umana».
Quando si
parla di ridurre le emissioni di CO2 per fermare
il riscaldamento globale lo si fa spesso menzionando gli obbiettivi di
decarbonizzazione che l’umanità deve perseguire. Ma tale formulazione offusca
le “comuni ma differenziate responsabilità” (per utilizzare
il linguaggio dello UNFCCC) che i vari paesi del mondo hanno nell’averci
condotto sul baratro di una catastrofe climatica. Infatti secondo l’ONU i paesi ricchi hanno
l’imperativo morale di decarbonizzare le loro economie più celermente che i
paesi del Sud del mondo poiché i primi hanno
maggiormente contribuito alla presente situazione climatica.
Se consideriamo
le emissioni cumulative nel periodo 1850-2011, vediamo che
il 27% è stato emesso dagli USA, il 25% dall’UE, l’11% dalla Cina, l’8% dalla
Russia, il 4% dal Giappone, e il 3% dall’India. Mentre gli altri 162 paesi del
mondo messi insieme ammontano a solamente il 22% di emissioni. Dei paesi
elencati qui sopra gli unici considerati “sviluppati” secondo i criteri delle
Nazioni Unite sono gli USA, la UE, e il Giappone.
Tuttavia nel
2006 la Cina è diventata il paese che annualmente emette più CO2, un titolo che detiene tutt’oggi. Inoltre guardando
ai dati per il 2017 si scopre che il quantitativo annuo di emissioni di
anidride carbonica per capita emesso in Cina coincide con quello emesso nella
UE (7 tonnellate di CO2). Tale dato si
ottiene dividendo il totale di CO2 emessa da
un paese nel corso di un anno per il numero totale della popolazione di tale paese.
Questi dati potrebbero sollevare interrogativi sulla nozione che la Cina sia
ancora un paese in via di sviluppo e che quindi abbia diritto a ridurre le
proprie emissioni più lentamente rispetto all’UE o agli USA. Ma la domanda che
ci dobbiamo porre a questo punto è la seguente: perché
la Cina emette così tanta CO2?
La Cina è la fabbrica del
mondo
L’aumento delle emissioni da parte della Cina a
partire dagli anni ’90 può essere direttamente attribuito all’accelerazione del
processo di globalizzazione. Secondo uno studio, quasi il 50% delle emissioni di questo paese
nel periodo 2002-2008 sono state generate dal settore delle esportazioni. Sulla
base di un altro studio si evince che altri fattori socio-economici
sono stati relativamente insignificanti: per il periodo 2002-2005, la crescita
della popolazione e il cambiamento degli stili di vita hanno contribuito
rispettivamente al 2% e all’1% della crescita delle emissioni, mentre le spese
governative e quelle delle famiglie hanno contribuito in totale solo il 14%. Detto in parole semplici, il fumo
che esce dalle ciminiere cinesi è per la maggior parte per produrre beni di
consumo per l’Occidente.
Partendo
proprio da queste considerazioni, un
gruppo sempre più nutrito di ricercatori ed attivisti sostiene che sia
necessario cambiare il modo in cui registriamo le emissioni: non più attribuendole
al paese in cui una merce viene prodotta, ma piuttosto al paese in cui tale
merce viene comprata. Un tale sistema di contabilità fornirebbe
un’immagine più realistica della responsabilità dei vari popoli riguardo al
riscaldamento globale.
Dopotutto perché la Cina dovrebbe essere ritenuta
responsabile per le emissioni di CO2 generate a beneficio dei
consumatori occidentali?L’impronta di carbonio di una persona non è in
funzione di ciò che questa persona produce, ma piuttosto di ciò che consuma. Se
un lavoratore cinese produce una maglietta che poi indosso io, perché dovrebbe
essere responsabile per le emissioni di un bene che va a mio beneficio?
Ma quale dinamica ha causato questa
scissione fra l’impronta di carbonio di una persona e la responsabilità
climatica del suo paese di appartenenza? Nel libro Fossil Capital, Andreas Malm
-professore di Ecologia Umana presso la Lund University in Svezia- indaga il
ruolo svolto dagli investitori stranieri in questo processo. Egli sostiene che
il miracolo delle esportazioni cinesi non sarebbe avvenuto senza la loro
presenza. Negli anni ’80, le imprese a capitale
straniero (cioè joint venture o società interamente di proprietà straniera)
producevano solo lo 0,1% delle merci esportate dalla Cina. Nel 2001, tale quota
ha superato per la prima volta il 50% dell’intera produzione cinese, ed è
rimasta al di sopra di tale soglia per tutto il decennio.
Questa
invasione di capitali stranieri in Cina ha causato la massiccia crescita del
consumo energetico cinese tra il 1987 e il 2007 e, di conseguenza, delle sue
emissioni. Ricapitolando: gli
investitori stranieri fanno profitti vendendo merci a consumatori stranieri,
mentre gli operai cinesi offrono manodopera a basso costo e vengono ritenuti
responsabili per le emissioni di CO2 generate nel processo
produttivo.
Ma l’ironia
più crudele è che l’aumento delle
emissioni globali è stato superiore a quello che sarebbe avvenuto in assenza
del processo di globalizzazione. Infatti i paesi ricchi tendono ad avere una
“intensità di carbonio” (ossia il quantitativo di CO2 emesso
per unità di energia consumata) inferiore rispetto a quelli poveri: si emette
più CO2 a produrre una maglietta in Bangladesh che a produrla
nella UE o negli USA.
Ma il
capitale ormai affrancato dai confini nazionali (uno dei pilastri del progetto
di globalizzazione) può essere investito in paesi dove il lavoro è a buon
mercato sebbene questi siano meno efficienti da un punto di vista ecologico. La
Cina ha bassi salari e alta intensità di carbonio, mentre i paesi occidentali
hanno alti salari e bassa intensità di carbonio. Ma seguendo l’imperativo di massimizzare i
profitti, il capitale cerca tassi più elevati di plusvalore sebbene ciò
implichi maggiori emissioni per unità di merce prodotta. Questo circolo vizioso non si può
arrestare poiché il sistema capitalistico deve continuamente espandersi per
mantenersi in equilibrio. E l’espansione implica trovare lavoro a
costo sempre più basso.
Questa
dinamica si sta ripetendo oggi in altri paesi poiché conviene sempre meno
produrre in Cina. Quindi quando
leggete notizie riguardo alla Cina che fa investimenti verdi per abbattere le
emissioni, tenete a mente che anche i salari degli operai cinesi sono in
rialzo. E così gli investitori stranieri si spostano in altri paesi, meno
verdi ma con salari più bassi. Un’inarrestabile
spirale di crescita economica e distruzione ecologica.
L’imperativo morale della
giustizia climatica
I
climatologi hanno calcolato quante tonnellate di CO2 possono
ancora essere emesse nell’atmosfera se vogliamo limitare il riscaldamento
climatico a soli 1,5°C in più rispetto ai valori pre-industriali come sancito
dall’Accordo di Parigi. Tale quantitativo è noto come “budget di carbonio”. La questione su cui occorre interrogarsi
ora è come ridistribuire questo limitato budget intanto che compiamo la
transizione energetica verso fonti rinnovabili. Dovremmo assegnare ad ogni
persona nel mondo la stessa quota del budget di carbonio? Ci sono due buone
ragioni per rispondere negativamente a tale interrogativo.
In primo
luogo, come spiegato in precedenza, il
totale di emissioni dalla rivoluzione industriale ad oggi è stato emesso in
modo ineguale dai vari paesi. I paesi che per primi si sono industrializzati
nella seconda metà dell’800 e nella prima metà del ‘900, grazie all’accesso ad
una tecnologia capace di trasformare i combustibili fossili in una fonte di
energia costante e affidabile, hanno innescato un processo senza precedenti di
sviluppo economico. Mentre questi paesi possono vantarsi di aver sviluppato
tale tecnologia, essi si sono appropriati di una parte sproporzionata di un
“bene comune” globale rappresentato dalla capacità dell’atmosfera di assorbire
la CO2. Questa appropriazione eccessiva è nota come
“debito climatico” e quindi ci sono paesi, come l’Italia, che sono debitori
verso il Sud globale. I paesi che solo oggi si stanno industrializzando si
trovano nella situazione di non poter emettere tanta CO2quanta quella emessa dai paesi che per primi si sono
accaparrati questo bene comune. Quindi, per lo meno, hanno diritto ad una quota
superiore del budget di carbonio restante.
In secondo
luogo, il beneficio di una tonnellata di
emissioni di CO2 aumenta il benessere umano più nei paesi
poveri di quanto faccia in quelli ricchi. Un incremento delle emissioni
nel Sud del mondo sarebbe probabilmente destinato a soddisfare dei servizi
primari, come ospedali e scuole, piuttosto che consumi di lusso dei singoli. Ad
esempio, in Italia non si costruiscono molti nuovi ospedali e scuole poiché la
popolazione è pressoché costante e la penetrazione di tali servizi sul
territorio è ormai piuttosto capillare. Ma lo stesso non si può dire di un
paese dell’Africa che invece ha ancora ampi margini di miglioramento di tali
servizi e che ha una popolazione in crescita. Tuttavia al fine di evitare la
continuazione della tendenza analizzata da Malm nel contesto cinese, dovremmo cominciare a registrare le
emissioni non in funzione della produzione ma piuttosto del consumo di merci,
in modo che il bilancio del carbonio destinato ai paesi in via di sviluppo non
sia interamente assorbito dalle merci per l’esportazione.
È quindi
ormai tempo che dopo due secoli d’ingiustizie climatiche i paesi ricchi
facciano spazio per i miliardi di persone che nel Sud del mondo non hanno
ancora accesso ai servizi fondamentali sanciti dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibileformulati dall’ONU nel
2015. Infatti, come sostiene l’antropologo Jason Hickel, l’idea che i paesi poveri possano
seguire la stessa traiettoria di industrializzazione tracciata dall’Occidente
così che un giorno tutto il mondo possa avere lo stesso attuale stile di vita
dell’europeo medio dimostra la follia del nostro presente sistema economico.
Questo implica una riduzione drastica dell’impronta di carbonio nei paesi
ricchi per assicurare giustizia fra i popoli su di un pianeta dal clima sempre
più fragile.
*Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca presso lo
Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de
Barcelona
Nessun commento:
Posta un commento