mercoledì 12 dicembre 2018

Un clima di grande ingiustizia - Riccardo Mastini


È in corso in questi giorni nella città di Katowice in Polonia la conferenza climatica COP24 organizzata dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). Questo summit ha il compito di definire le politiche necessarie per raggiungere l’obbiettivo sancito dall’Accordo di Parigi nel 2016, ossia limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Tale assise potrebbe essere l’ultima opportunità per la comunità internazionale di adottare le misure necessarie per evitare l’apocalisse ecologica.
Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) ha infatti pubblicato il mese scorso un nuovo rapporto in cui suona il campanello di allarme sulla nostra attuale traiettoria climatica: se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C dobbiamo dimezzare le emissioni globali nei prossimi 12 anni e ridurle a zero entro la metà del secolo. Tale traiettoria di decarbonizzazione è ambiziosa oltre ogni dire. La sfida è immane e la posta in gioco lo è ancora di più. Come ha detto il co-presidente dello IPCC, «i prossimi anni sono probabilmente i più importanti della storia umana».
Quando si parla di ridurre le emissioni di CO2 per fermare il riscaldamento globale lo si fa spesso menzionando gli obbiettivi di decarbonizzazione che l’umanità deve perseguire. Ma tale formulazione offusca le “comuni ma differenziate responsabilità” (per utilizzare il linguaggio dello UNFCCC) che i vari paesi del mondo hanno nell’averci condotto sul baratro di una catastrofe climatica. Infatti secondo l’ONU i paesi ricchi hanno l’imperativo morale di decarbonizzare le loro economie più celermente che i paesi del Sud del mondo poiché i primi hanno maggiormente contribuito alla presente situazione climatica.
Se consideriamo le emissioni cumulative nel periodo 1850-2011, vediamo che il 27% è stato emesso dagli USA, il 25% dall’UE, l’11% dalla Cina, l’8% dalla Russia, il 4% dal Giappone, e il 3% dall’India. Mentre gli altri 162 paesi del mondo messi insieme ammontano a solamente il 22% di emissioni. Dei paesi elencati qui sopra gli unici considerati “sviluppati” secondo i criteri delle Nazioni Unite sono gli USA, la UE, e il Giappone.
Tuttavia nel 2006 la Cina è diventata il paese che annualmente emette più CO2, un titolo che detiene tutt’oggi. Inoltre guardando ai dati per il 2017 si scopre che il quantitativo annuo di emissioni di anidride carbonica per capita emesso in Cina coincide con quello emesso nella UE (7 tonnellate di CO2). Tale dato si ottiene dividendo il totale di CO2 emessa da un paese nel corso di un anno per il numero totale della popolazione di tale paese. Questi dati potrebbero sollevare interrogativi sulla nozione che la Cina sia ancora un paese in via di sviluppo e che quindi abbia diritto a ridurre le proprie emissioni più lentamente rispetto all’UE o agli USA. Ma la domanda che ci dobbiamo porre a questo punto è la seguente: perché la Cina emette così tanta CO2?

La Cina è la fabbrica del mondo
L’aumento delle emissioni da parte della Cina a partire dagli anni ’90 può essere direttamente attribuito all’accelerazione del processo di globalizzazione. Secondo uno studio, quasi il 50% delle emissioni di questo paese nel periodo 2002-2008 sono state generate dal settore delle esportazioni. Sulla base di un altro studio si evince che altri fattori socio-economici sono stati relativamente insignificanti: per il periodo 2002-2005, la crescita della popolazione e il cambiamento degli stili di vita hanno contribuito rispettivamente al 2% e all’1% della crescita delle emissioni, mentre le spese governative e quelle delle famiglie hanno contribuito in totale solo il 14%. Detto in parole semplici, il fumo che esce dalle ciminiere cinesi è per la maggior parte per produrre beni di consumo per l’Occidente.
Partendo proprio da queste considerazioni, un gruppo sempre più nutrito di ricercatori ed attivisti sostiene che sia necessario cambiare il modo in cui registriamo le emissioni: non più attribuendole al paese in cui una merce viene prodotta, ma piuttosto al paese in cui tale merce viene comprata. Un tale sistema di contabilità fornirebbe un’immagine più realistica della responsabilità dei vari popoli riguardo al riscaldamento globale.
Dopotutto perché la Cina dovrebbe essere ritenuta responsabile per le emissioni di CO2 generate a beneficio dei consumatori occidentali?L’impronta di carbonio di una persona non è in funzione di ciò che questa persona produce, ma piuttosto di ciò che consuma. Se un lavoratore cinese produce una maglietta che poi indosso io, perché dovrebbe essere responsabile per le emissioni di un bene che va a mio beneficio?
Ma quale dinamica ha causato questa scissione fra l’impronta di carbonio di una persona e la responsabilità climatica del suo paese di appartenenza? Nel libro Fossil Capital, Andreas Malm -professore di Ecologia Umana presso la Lund University in Svezia- indaga il ruolo svolto dagli investitori stranieri in questo processo. Egli sostiene che il miracolo delle esportazioni cinesi non sarebbe avvenuto senza la loro presenza. Negli anni ’80, le imprese a capitale straniero (cioè joint venture o società interamente di proprietà straniera) producevano solo lo 0,1% delle merci esportate dalla Cina. Nel 2001, tale quota ha superato per la prima volta il 50% dell’intera produzione cinese, ed è rimasta al di sopra di tale soglia per tutto il decennio.

Questa invasione di capitali stranieri in Cina ha causato la massiccia crescita del consumo energetico cinese tra il 1987 e il 2007 e, di conseguenza, delle sue emissioni. Ricapitolando: gli investitori stranieri fanno profitti vendendo merci a consumatori stranieri, mentre gli operai cinesi offrono manodopera a basso costo e vengono ritenuti responsabili per le emissioni di CO2 generate nel processo produttivo.
Ma l’ironia più crudele è che l’aumento delle emissioni globali è stato superiore a quello che sarebbe avvenuto in assenza del processo di globalizzazione. Infatti i paesi ricchi tendono ad avere una “intensità di carbonio” (ossia il quantitativo di CO2 emesso per unità di energia consumata) inferiore rispetto a quelli poveri: si emette più CO2 a produrre una maglietta in Bangladesh che a produrla nella UE o negli USA.
Ma il capitale ormai affrancato dai confini nazionali (uno dei pilastri del progetto di globalizzazione) può essere investito in paesi dove il lavoro è a buon mercato sebbene questi siano meno efficienti da un punto di vista ecologico. La Cina ha bassi salari e alta intensità di carbonio, mentre i paesi occidentali hanno alti salari e bassa intensità di carbonio. Ma seguendo l’imperativo di massimizzare i profitti, il capitale cerca tassi più elevati di plusvalore sebbene ciò implichi maggiori emissioni per unità di merce prodotta. Questo circolo vizioso non si può arrestare poiché il sistema capitalistico deve continuamente espandersi per mantenersi in equilibrio. E l’espansione implica trovare lavoro a costo sempre più basso.
Questa dinamica si sta ripetendo oggi in altri paesi poiché conviene sempre meno produrre in Cina. Quindi quando leggete notizie riguardo alla Cina che fa investimenti verdi per abbattere le emissioni, tenete a mente che anche i salari degli operai cinesi sono in rialzo. E così gli investitori stranieri si spostano in altri paesi, meno verdi ma con salari più bassi. Un’inarrestabile spirale di crescita economica e distruzione ecologica.

L’imperativo morale della giustizia climatica
I climatologi hanno calcolato quante tonnellate di CO2 possono ancora essere emesse nell’atmosfera se vogliamo limitare il riscaldamento climatico a soli 1,5°C in più rispetto ai valori pre-industriali come sancito dall’Accordo di Parigi. Tale quantitativo è noto come “budget di carbonio”. La questione su cui occorre interrogarsi ora è come ridistribuire questo limitato budget intanto che compiamo la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Dovremmo assegnare ad ogni persona nel mondo la stessa quota del budget di carbonio? Ci sono due buone ragioni per rispondere negativamente a tale interrogativo.
In primo luogo, come spiegato in precedenza, il totale di emissioni dalla rivoluzione industriale ad oggi è stato emesso in modo ineguale dai vari paesi. I paesi che per primi si sono industrializzati nella seconda metà dell’800 e nella prima metà del ‘900, grazie all’accesso ad una tecnologia capace di trasformare i combustibili fossili in una fonte di energia costante e affidabile, hanno innescato un processo senza precedenti di sviluppo economico. Mentre questi paesi possono vantarsi di aver sviluppato tale tecnologia, essi si sono appropriati di una parte sproporzionata di un “bene comune” globale rappresentato dalla capacità dell’atmosfera di assorbire la CO2. Questa appropriazione eccessiva è nota come “debito climatico” e quindi ci sono paesi, come l’Italia, che sono debitori verso il Sud globale. I paesi che solo oggi si stanno industrializzando si trovano nella situazione di non poter emettere tanta CO2quanta quella emessa dai paesi che per primi si sono accaparrati questo bene comune. Quindi, per lo meno, hanno diritto ad una quota superiore del budget di carbonio restante.

In secondo luogo, il beneficio di una tonnellata di emissioni di CO2 aumenta il benessere umano più nei paesi poveri di quanto faccia in quelli ricchi. Un incremento delle emissioni nel Sud del mondo sarebbe probabilmente destinato a soddisfare dei servizi primari, come ospedali e scuole, piuttosto che consumi di lusso dei singoli. Ad esempio, in Italia non si costruiscono molti nuovi ospedali e scuole poiché la popolazione è pressoché costante e la penetrazione di tali servizi sul territorio è ormai piuttosto capillare. Ma lo stesso non si può dire di un paese dell’Africa che invece ha ancora ampi margini di miglioramento di tali servizi e che ha una popolazione in crescita. Tuttavia al fine di evitare la continuazione della tendenza analizzata da Malm nel contesto cinese, dovremmo cominciare a registrare le emissioni non in funzione della produzione ma piuttosto del consumo di merci, in modo che il bilancio del carbonio destinato ai paesi in via di sviluppo non sia interamente assorbito dalle merci per l’esportazione.
È quindi ormai tempo che dopo due secoli d’ingiustizie climatiche i paesi ricchi facciano spazio per i miliardi di persone che nel Sud del mondo non hanno ancora accesso ai servizi fondamentali sanciti dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibileformulati dall’ONU nel 2015. Infatti, come sostiene l’antropologo Jason Hickel, l’idea che i paesi poveri possano seguire la stessa traiettoria di industrializzazione tracciata dall’Occidente così che un giorno tutto il mondo possa avere lo stesso attuale stile di vita dell’europeo medio dimostra la follia del nostro presente sistema economico. Questo implica una riduzione drastica dell’impronta di carbonio nei paesi ricchi per assicurare giustizia fra i popoli su di un pianeta dal clima sempre più fragile.
*Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca presso lo Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona


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