lunedì 17 dicembre 2018

Muretti a secco, in Sardegna quanto sangue dietro - Francesco Casula



I muretti a secco sono stati riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. Bene. Purché non si dimentichi di che lagrime grondino e di che sangue. Almeno in Sardegna.
Gli editti delle chiudende irruppero sulle comunità, implacabili come castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità sopraffazioni e violenze, di persecuzioni assassinii carcerazioni e torture, di imbrogli frodi e corruzioni, furono chiusi, con la conni­venza criminale dello Stato, magistrati polizie ed esercito, migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminati­vi, case ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche.
Ma ecco la storia. In data del 6 ottobre del 1820 Vittorio Emanuele emette il regio Editto sopra le Chiudende, con nove articoli. Quello fondamentale è il 1° che recita testualmente: “Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe o di muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o abbeveratoio .
Questo in teoria. La pratica sarà ben diversa. A rendersene conto le stesse autorità che, con qualche ipocrita considerazione critica e sia pure solo a livello di documento «riservato», – e comunque senza trarre le dovute conseguenze – ammetteranno abusi colossali e violazioni sistematiche in merito alla osservanza dell’articolo primo in specie, in seguito alla massiccia chiusure dei terreni, che avverrà dopo il 1830. Nei primi anni, dopo l’emanazione del Decreto, le chiusure saranno molto poche.
Ecco cosa scrive lo stesso viceré di Sardegna, nella sua relazione sulle Chiudende presentata alla Corte il 22 settembre 1832: “E’ veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle Chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale nel Nuorese. Si chiusero a muro e a siepi boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per obbligare i pastori a pagare un fitto altissimo e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge … Questa (legge) giovò nella sua esecuzione solo ai ricchi e ai potenti, i quali non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreno d’ogni natura, senza idea di migliorare il sistema agrario, ma al solo oggetto di far pagare dai contadini e dai pastori la facoltà di seminarli e il diritto di far pascolare i loro armenti”.
Altro che disiato rifiorimento! Sarà un disastro: unu disacatu mannu!.
Nel suo romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scriverà di Una legge famigerata,che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli.
E che causerà gravissime crisi economiche e sociali. E ribellioni violente contro la recinzione delle terre comunitarie: tanto che, soprattutto nel Nuorese, o comunque dove l’opposizione fu più decisa, soprattutto i pastori riuscirono a “conservare” molto “cumonale”. Fu in conseguenza di quella lotta che ancora oggi in Sardegna e nelle zone interne pastorali in particolare, le terre comunali indivise occupano il 15% circa dell’intera superficie (353.000 ettari) cui occorre aggiungere 227.000 ettari di terre appartenenti a Enti Pubblici. Sempre Giuseppe Dessì scrive che “con la creazione forzata della proprietà privata dovuta alla Legge delle chiudende e la conseguente decadenza dei Monti granatici ai poveri non restava altro che rivolgersi agli usurai che la fecero da padroni in tutti i paesi dell’isola, favoriti anche dalla disastrosa crisi bancaria” 1.
Mentre un altro Dessy, Ugo questa volta, anche lui valente saggista, scrittore e romanziere, in modo duro e radicale, con toni ironici e anche sarcastici, denuncia la legge e i risultati che produrrà: “«il disiato rifiorimento» riguardava le casse della con­sorteria al potere: la nuova nobiltà, la nascente e affamata borghesia e il clero trasformista. Ma anche in un periodo di assolutismo monarchico, finché si può, gli atti di rapina dei ceti dominanti vengono mascherati come interventi per instaurare l’ordine, incrementare la produzione, creare il benessere generale. Prosegue Ugo Dessy: ”si deve alla resistenza popolare, al sacrificio di tante vite  umane se  l’economia pastorale e la civiltà di cui è espressione non furono cancellate dalla faccia della terra. I danni  inferti alla economia isolana dalle Chiudende furono ingenti. Dal 1790 al 1805 la quantità di grano (in starelli)  prodotta in Sardegna va da 1.793.894 a 1.192.103; dal 1842 scende da 1.074.597 a 530.111. La produzione del grano dopo le Chiudende si dimezza, in un primo tempo, e poi si riduce a circa un quarto. Dal 1790 al 1795 (mancano i dati relativi ai primi anni del 1800) la produzione dell’orzo (in starelli) va da 588.708 a 438.987; dal 1842 al 1847 scende da 537.144 a 170.970. Il patrimonio ovino risulterà dimezzato”2. Soprattutto nel Nuorese, zona prevalentemente pastorale, la resistenza e la lotta dei pastori sarà furibonda e non li scoraggeranno neppure le fucilazioni sommarie e la repressione violenta da parte dell’esercito.
“La conseguenza – scrive Ignazio Pirastu, gran conoscitore del banditismo sardo – fu che centinaia di contadini e pastori si diedero alla macchia per sfuggire agli arresti e alle condanne deliberate senza maturo giudizio. Le accuse aperte e le delazioni segrete aprirono una nuova catena di vendette, mentre la Commissione alternava arresti e pene severissime, anche di morte, alla revoca delle chiusure, alla restituzione delle terre usurpate all’uso pubblico cui spesso erano stati sottratti ponti, strade, fontane … “3. La resistenza da parte dei pastori deriva dalla consapevolezza che quell’Editto li avrebbe di fatto cancellati.
Scrive ancora Pirastu a tal proposito: “Che l’editto fosse diretto non solo a ridurre, limitare la pastorizia ma a distruggerla, è provato dal fatto che, se non vi fossero state le rivolte contro le chiusure e la demolizione violenta delle recinzioni, i pastori, quasi nessuno dei quali era proprietario del terreno, sarebbero stati estromessi dai pascoli che sarebbero stati recintati e sottoposti a coltivazione; per sopravvivere si sarebbero dovuti ridurre a far pascolare le greggi nei terreni peggiori o piegarsi a pagare fitti esosi: è infatti quello che in definitiva è avvenuto, non pacificamente. È importante notare il fatto che, in gran parte della Sardegna, l’ usurpazione, elevata a metodo, è stata il mezzo normale di formazione della proprietà e non in tempi remoti, ma relativamente recenti; ciò spiega da una parte la grettezza e la propensione all’’assenteismo della pro­prietà in Sardegna e, dall’altra, il nessun rispetto dei ceti popolari per la proprietà terriera, la cui origine di rapina non si perde nel lontano passato ma è presente nella storia di famiglia di pastori e contadini defraudati poco più di un secolo fa … In conclusione si può affermare che la legge sulle Chiudende ebbe conseguenze nefaste. da essa nacque la proprietà assenteista attuale, con essa non si rea­lizzò il «rifiorimento della Sardegna» sognato dal Gemelli; le coltivazioni agricole non ebbero alcun rilevante in­cremento e le chiusure altro non ottennero che segna­re i limiti di una proprietà assenteista e parassitaria nel­la quale i pastori continuarono ad esercitare la loro at­tività primitiva per di più gravata da un nuovo insostenibile onere, il canone di affitto” 4.

Note Bibliografiche
1.      Giuseppe Dessì, Paese d’ombre, prefazione di Sandro Maxia, Ed. Ilisso, Nuoro 1998, pagina 276.
2.      Ugo Dessy, Quali banditi? – Controinchiesta sulla società sarda, volume secondo, Bertani Editore, Verona, 1977, pagine 341.
3.      Ignazio Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Editori Riuniti, 1974, Roma, pagina 29.
4.      Ibidem, pagina 30.



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