Trascorriamo
la giornata guardando, ma siamo capaci di vedere qualcosa?
Qual è il rapporto tra vedere e pensare? E in che senso la percezione è un
problema politico? Il dominio degli stereotipi ci rende ciechi e ottusi.
Lo
scrittore Albert Camus ha detto: “Pensare è apprendere di nuovo a vedere e a
prestare attenzione”. È una frase sorprendente perché il pensiero non si
vincola al sapere, al conoscere, all’analisi o alla verità, ma alla trasformazione della percezione e
dell’attenzione.
Apprendere: andare oltre il conosciuto. Di nuovo a vedere: ricreare il
nostro sguardo su qualcosa, vederlo in modo diverso. E a prestare attenzione: prendere in
considerazione una altro piano della realtà, un altro tipo di segnali.
Affronterò
questa immagine del pensiero, come ricostruzione dello sguardo e dell’attenzione, con due esempi
che ho a portata di mano. E incoraggio tutti a immaginare i propri.
Rinominare la realtà
Il
primo è un articolo breve che di recente mi
ha inviato la mia amica Amarela Varela, perché sia pubblicato su eldiario.es. Amarela è una
professoressa di Città del Messico e da molto tempo è impegnata – con la parola
e con il corpo – nei movimenti e nelle lotte dei migranti. L’articolo parla
della carovana di migranti, in maggioranza honduregni, che in questi giorni
attraversa il Messico verso gli Stati Uniti, monopolizzando la visibilità
mediatica globale (l’articolo di Amador è stato scritto a metà novembre, ndt).
Amarela spiega che la massiccia migrazione
centroamericana non è una novità in Messico. La novità è come ora si è
organizzata: dopo
una lunga storia di arresti, deportazioni e massacri, i migranti si sono messi a camminare
assieme, autonomamente, senza i coyotes di
mezzo, con una voce pubblica e propria, accompagnati da organizzazioni per i
diritti umani e da mass media.
L’articolo è un invito a vedere la
politicità di questo gesto di autonomia. A
smettere di guardare ai migranti solo come vittime della fatalità o come
persone manipolate da qualche complotto dei potenti. A prestare
attenzione e ad ascoltare la loro voce, quello che loro stessi dicono della
loro situazione e della loro esperienza.
In
questa nuova politicità, non troveremo sicuramente alcuni degli elementi
classici (programma o slogan anticapitalistici, ecc.), ma una disobbedienza
praticata con il corpo al regime delle frontiere e un interpellare positivo
alla solidarietà del popolo messicano, che sta rispondendo con gesti di ospitalità
radicale molto incoraggianti.
L’articolo
di Amarela conclude dicendo: “Non è una carovana di migranti, ma un esodo di
sfollati, però soprattutto è un nuovo movimento sociale che cammina per una
vita vivibile”.
Qual è la forza di questo articolo? A mio giudizio,
consiste nella sua capacità di rinominare la realtà. Rinominando la realtà, vediamo qualcosa di diverso e la nostra attenzione
si attiva. Penso che quel gesto di spostamento spieghi l’impatto che il
testo ha avuto su tanti lettori.
Ne
posso parlare in prima persona: seguivo quanto accadeva con la carovana di
migranti attraverso le immagini della televisione, ma niente di quanto veniva
detto o mostrato ha rotto, in alcun momento, la barriera degli stereotipi che
anestetizzava la mia percezione: “Ahi, povera gente”. Guardavo, però non vedevonulla.
Niente di particolare, niente che mi colpisse.
Ma all’improvviso c’è qualcosa da vedere.
All’improvviso si apre qualcosa da vedere.
Vista così, come ci propone Amarela, possiamo percepire altre
cose nella carovana. Non si tratta solo di vittime spinte dalla disgrazia o
manipolate dai politici, ma c’è anche capacità politica, intelligenza,
autonomia. E possiamo ascoltare anche un appello: a inventare gesti di solidarietà, ma non più con la disgrazia che ha
toccato gli altri, ma con una lotta che ci riguarda.
Un’immagine
allontana e raffredda: “Sono le disgrazie altrui”, “Non bisogna fidarsi degli
altri perché sono manipolati”. Mentre l’altra avvicina e invita: “Qui c’è una
potenza, c’è qualcosa che non conosci”, “Presta attenzione e torna a guardare”.
Qualcosa
che altrimenti non è chiaro. Perché l’articolo non cambia
un’etichetta con un’altra, affermando per esempio: “Non sono vittime, ma un
altro movimento sociale”. Questo “nuovo movimento sociale” che è la carovana,
non è ovvio, non è evidente, non è un classico movimento sociale. Il testo ci propone di avvicinarci per vedere
e pensare qualcosa che ancora non è stato visto e pensato.
Chiameremo
“immagine feconda”,
quest’immagine che ci dà qualcosa da vedere. L’immagine che ci commuove e ci
colpisce. L’immagine che ricrea il
nostro sguardo e che ci dà da pensare. L’immagine aperta e incompiuta che
richiede da noi un movimento.
Non c’è niente da vedere: gli stereotipi
Queste
immagini possono provenire dai luoghi più diversi, dal cinema o dal saggio,
dalla fotografia o dalla poesia, dal teatro o dalla letteratura, si possono
fabbricare con materiali molto differenti (parola, colore, gesto, movimento),
ecc.
Il problema, pertanto, non è che viviamo in mezzo a un’inflazione di immagini, ma a
un’inflazione di immagini sature e saturanti: gli stereotipi.
Lo stereotipo è un senso impacchettato. Che dice, cosa fa? “Qui non c’è niente
da vedere”. Vale a dire: non c’è nulla che non avessimo già visto. Il mondo è
già-visto, già-sentito, già-pensato.
Lo stereotipo è una risposta automatica. Il risultato dell’applicazione di un codice sulla
realtà: mediatico, politico, ideologico, ecc. In questo modo non vediamo o
pensiamo più, ma semplicemente riconosciamo. Non vediamo o
pensiamo, ma solo ricordiamo ciò che sta nel codice.
I codici non sempre sono consci, ma funzionano attraverso
di noi: siamo visti, pensati e agiti da loro. Balzano fuori automaticamente lì dove non c’è
un lavoro di elaborazione propria. Durante la maggior parte del tempo, noi
siamo ripetitori di stereotipi. Ci riteniamo unici, ma siamo fatti in serie.
Cos’è che vediamo se presupponiamo la realtà a
partire da un codice?Solamente illustrazioni del
nostro racconto precedente, metafore della nostra spiegazione
del mondo, riflessi servili del codice applicato. Ogni volta lo stesso:mai oggetti o
avvenimenti unici, sempre casi di una serie. Un’altra disgrazia ancora,
un’altra manipolazione ancora, un altro movimento sociale ancora….
Dal
codice, lo sguardo vede sempre ciò che vuole vedere. La realtà si appiattisce, si semplifica, si
riduce: scartiamo come rumore tutto ciò che non rientra nel codice, che
è proprio tutto ciò che potrebbe darci da pensare. Le ombre, le
contraddizioni, le impurità, la confusione del reale.
Secondo
il filosofo, la dignità di qualsiasi cosa – da un essere vivente fino a un
evento – consiste nell’essere trattata come un fine e non come un mezzo. Lo sguardo codificato è tuttavia uno sguardo
che strumentalizza: non vede nient’altro che pezzi e mezzi dei fini. Niente
ha valore o potenza in sé, la potenza di dare origine a nuovi
sguardi, idee o azioni.
Ci indigniamo quando vediamo come i codici altrui
trattano la dignità delle cose che conosciamo e che amiamo. Perché le forzano fino a farle rientrare
nelle forme precedenti e le violano fino a far loro dire quello che si vuole
che dicano. Molto di rado, però,
riesaminiamo in modo critico i codici stessi.
Lo
stereotipo anestetizza la nostra percezione, ma non in modo freddo e
spassionato. Al contrario: quasi
nulla ci produce più godimento e ardore che il ripetere gli stereotipi. Li replichiamo come se stessimo
affermando quanto di più intimo, più profondo e più autentico del nostro
essere. Ci emozionano, ci
infiammano, ci portano fino alle lacrime. C’è una vera passione per la
ripetizione, la conferma, la mimesi, l’adesione. È il godimento del
riconoscimento e dell’identità.
Infine, lo stereotipo cerca il potere:
riprodursi, diffondersi, convincere, vincere, occupare l’intero spazio
di attenzione. È un potere di saturazione, di assimilazione, di
normalizzazione. Vuole di più di sé stesso, eliminare tutto il resto. Che non
rimanga nulla da vedere, che non rimanga nulla da pensare.
Pensare a partire dai dettagli
Un
secondo esempio, questa volta una storia personale. Pochi giorni dopo che il
15M era emerso nelle piazze di tutta la Spagna, ho sentito il desiderio di
scrivere su quanto stavamo vivendo. Di solito, si scrive per condividere ciò
che si è capito, ma in questo caso si trattava di scrivere per capire, scrivere proprio perché non capisci.
E come scrivere su quello che non capisci? Al riguardo, nelle conversazioni con
gli amici alla Puerta del Sol, uno di loro mi cita una frase dello storico
greco Erodoto sul suo metodo: “Annoto
tutto ciò che non capisco”. Comincio allora a registrare dettagli della
piazza che richiamano la mia attenzione e che mi danno da pensare: micropercezioni,
sensazioni, domande, appunti di conversazioni, una certa scena, un certo
slogan, un certo dipinto, balbettii di interpretazione o riflessione alla luce
di quanto succede, un certo intervento in assemblea, un grido, una vibrazione,
un tono affettivo…
Compongo
così un “quaderno di dettagli”,
che pubblico a puntate (fino a nove) nel mio blog del giornale Público con
il nome di “Apuntes de acampadasol”.
Vedere è la cosa
più difficile, perché prima bisogna fermare il mondo. Quello che dice lo stregone Don Juan al
suo apprendista Carlos Castaneda in quella serie di mitici libri degli anni
60-70 . Cosa significa fermare il mondo? Fermare la descrizione che gli dà forma giorno dopo giorno, la
descrizione che condividiamo e che costruisce una percezione del mondo
consensuale e normalizzata. Fermare gli automatismi.
Nel mio
caso, fermare il mondo ha significato anche fermare le teorie
filosofico-politiche tra le quali vivo – per vocazione e professione – e che
sono state subito dispiegate per spiegare quello che succedeva. Perché qualsiasi cosa può trasformarsi in codice e
non lasciarci vedere, anche una teoria molto sofisticata che è nata per rendere
conto della complessità sociale. Applicarla sulla realtà può essere un modo come un altro di presupporreciò
che succede con schemi precedenti e non ascoltare. Quindi, invece
di vedere la piazza 15M o quel che si vuole, vediamo il codice di Jacques
Rancière, di Toni Negri o di Ernesto Laclau. E la materialità delle cose vive
si dissolve in astrazioni spettrali.
Mettere un po’ tra parentesi le teorie e pensare a
partire dai dettagli:questo
è stato il mio modo particolare di fermare il mondo al fine di vedere.
Un modo di entrare in contatto, lasciarsi toccare e colpire da quanto accadeva.
Mentre
applicare un codice qualsiasi è un modo di dematerializzare la
realtà, il dettaglio è al
contrario un colpo di colore, di voce, di affetto o di
intensità. E dico colpo perché non lo scegliamo esattamente noi: è il dettaglio
che richiama la nostra attenzione, non la nostra attenzione che scopre il
dettaglio. Ci richiede un’attenzione che non è di caccia e cattura,
quanto piuttosto di attenzione galleggiante.
Il dettaglio non lo possiamo riconoscere o ricordare. Non è illustrazione, una metafora o
il riflesso di un codice precedente. È quello che c’è da vedere e da
pensare. Non è la conclusione di
qualcosa, bensì un’apertura, un inizio del viaggio. Non ha già un senso: è
ciò che apre la via alla creazione di senso.
Il
dettaglio è sempre unico: non è mai il caso di una serie, ma sempre tale,
così, questo, questa, qui, adesso.
E una
singolarità alquanto opaca o misteriosa. È ciò che non torna, ci fa domande, ci pone problemi, ci mette a disagio,
ci induce a smuoverci. Per questo motivo, quelli che vogliono
elevare la “chiarezza” e la “comunicabilità” a regola generale dell’espressione
o della creazione, in realtà non vogliono vedere o pensare nulla: solo il già
visto e pensato è chiaro e trasparente, “immediatamente comunicabile”.
Il dettaglio passa per il corpo, ma in maniera
diversa dal godimento dello stereotipo. Non ci conferma di fronte alla
realtà, ma ci pone in relazione con essa. Ci commuove: ci tira fuori dalle nostre
caselle e ci apre all’altro. Ci incita, ci apre gli occhi, attiva la nostra
curiosità, ci connette e ci coinvolge con il mondo. Non è il godimento della
stabilità, ma il piacere di una certa destabilizzazione.
Infine, il dettaglio non vuole il potere:
un dettaglio non si oppone agli altri e possono esserci tanti dettagli quanti
sono i viaggi del pensiero. Il dettaglio non satura il visibile, ma lo apre.
Non pretende di dire ciò che si deve pensare, ma dà da pensare.
Intensificare un sapore
Tutta una venerabile tradizione di pensiero diffida
dei dettagli in modo radicale. Platone diceva: “Per pensare bisogna strapparsi gli
occhi”. Ciò che è sensibile porta all’errore: vediamo una cosa, ma la verità è
altrove. Bisogna sospettare di quanto accade e perseguire
l’eterno, il fisso e l’immutabile. I dettagli sono solo apparenze o sintomi di
ciò che è essenziale e vero. Si tratta di astrarli, vedere il mondo
con l’occhio della mente.
Seguendo questa tradizione, nelle nostre accademie e
università, oggi si obbligano gli studenti che fanno un lavoro a elaborare
anzitutto un “quadro teorico”. In primo luogo, fabbricarsi delle lenti. Quindi,
applicarle a questo o quell’oggetto di pensiero. In realtà, ciò che così si insegna è a diffidare
di quello che si vede. Di quello che uno può vedere per conto suo,
dei dettagli che lo colpiscono e che possono attivare il pensiero.
Due sono le conseguenze nefaste di questa procedura.
In primo luogo, lo studente rimane, così, insicuro e fragile: il quadro teorico non sarà mai
sufficientemente solido, mancheranno sempre riferimenti e letture. Nell’idea
del sapere come accumulazione saremo sempre in deficit, in difetto. In secondo
luogo, lo studente si trasforma in
un ripetitore: vede solo quello che il quadro teorico
(un autore o una serie di autori) lo lascia vedere. Non si permette di vedere
da solo, di trasformarsi lui stesso in autore.
Pensare è fuggire da questa prigione. Autorizzarci a
pensare a partire dai dettagli che ci colpiscono, come il solo modo di produrre
qualcosa di diverso e di nostro.
Il
dettaglio non è il piccolo, l’isolato, ciò che trova il suo senso in un’altra
parte (la parte di un tutto), bensì quel che contiene in sé il mondo (il
tutto sta nella parte). Possiamo distendere il dettaglio:
tirarlo e tirarlo fino a dispiegare il mondo intero che contiene.
I
riferimenti esistenti possono servire per intensificare i
dettagli. Proviamo a pensare che
il dettaglio sia un sapore. Quali condimenti intensificano quel
sapore? Ci sono condimenti (e modi di combinarli) che cancellano il sapore, lo
annullano. Ma altri lo possono prolungare e raffinare. Un certo
autore o una certa teoria valgono se e solo se intensificano
il sapore unico del dettaglio.
È una
questione di cucina. Il buon
condimento coglie e valorizza il sapore del dettaglio. E quello cattivo lo
copre: non ci permette di apprezzare la materialità di una
situazione, la particolarità di questo o quel dettaglio della realtà. Non ci fa
assaporare il mondo da una prospettiva singolare, la prospettiva di qualcuno.
Lo schema teorico sostituisce il dettaglio invece di intensificarlo. E allora
tutti i dettagli hanno lo stesso sapore. Riconosciamo così un cattivo
autore.
Credere nel mondo
Comprendere senza pensare, pensare senza ascoltare,
ascoltare senza sentire: il dominio degli stereotipi è profondamente nichilista.
Ci aliena dal mondo. Come
mai? In che senso?
Nulla
di ciò che c’è si prende in modo affermativo, per la sua
potenza di dar luogo a, ma sempre in funzione del nostro codice, di quello che
vogliamo vedere. Con lo stereotipo
non succede mai nulla, torna sempre qualcosa.
L’importante
non è mai qui e ora, davanti agli occhi, ma nelle linee del nostro
codice. Il mondo e i suoi dettagli non ci importano più, non ci richiedono
più: è la vittoria
dell’indifferenza e della sfiducia verso quanto c’è, verso quanto accade.
Al contrario, l’immagine feconda fa
succedere qualcosa, rilancia e condivide qualcosa che ci è successo. Ci
permette così di tornare a “credere nel mondo”: ci sono cose da vedere,
cose da pensare, cose da fare.L’immagine feconda ci apre alla ricchezza di quanto
viene dato come ovvio, di quanto è catturato nello stereotipo. Quello che (ci)
succede, importa. Il mondo è pieno di dettagli, quindi è pieno di punti di
potenza. Possiamo averne fiducia.
La
povertà o la nullità di una situazione si trova prima nel nostro sguardo
stereotipato rispetto alla situazione stessa. Pensare (e dar da pensare) è imparare di nuovo a vedere e a porre
attenzione. È, in definitiva, apprendere a essere presenti nel
mondo, a essere vivi nella vita.
Riferimenti:
Questa
è una versione delle note che ho letto di recente in due contesti di lavoro
sull’immagine cinematografica: Zineleku (Vitoria) e Cine por Venir (Valencia).
I
migliori riferimenti, come sempre, sono le conversazioni con tutti gli amici e
maestri nell’arte del vedere: Marta Malo, Hugo Savino, Amarela Valera, Miriam
Martín, Arantza Santesteban, Diego Sztulwark, Juan Gutiérrez, Jun Fujita, Lucía
Gómez, José Miguel Fernández-Layos, Franco Ingrassia (al quale rubo
l’espressione “immagine feconda”), Francisco Jodar (che mi ha fatto vedere la
questione di “credere nel mondo” a partire da Gilles Deleuze).
Il
sapore dei dettagli e gli stereotipi si è intensificato con i
concetti di “segni” e “tensori” di Jean François Lyotard in Economia libidinale.
L’immagine
in alto è un dettaglio dell’opera Esto es lo verdadero, di Rafael
Sánchez-Mateos Paniagua e Fernando Baena, anche loro maestri nel vedere,
nel lasciar vedere.
Articolo
pubblicato su eldiario.es con il titolo “Dar a ver, dar que
pensar: contra el dominio de lo automático“.
Traduzione
per Comune-info: Daniela Cavallo
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