Il Burkina Faso è uno dei paesi più poveri al mondo, ma rappresenta
un sito di particolare interesse per l’esportazione di oro, metallo tra i più
ricchi al mondo.
Nell’Africa subsahariana, il Burkina Faso confina a nord con il Mali
e ad est con il Niger, da cui provengono gruppi armati di Boko Haram che dal
2016 stanno intattaccando la stabilità sociale della nazione a colpi di Stato
militari. A sud, confina con il Togo e il Ghana, dove sono presenti numerosi
attori di traffici illegali, che saccheggiano le risorse del posto per
importarle a basso costo nel mondo occidentale. Il panorama della
regione appare come una grande distesa rurale dove si scavano miniere
artigianali di villaggio in villaggio, e le persone sono costrette a vivere
negli insediamenti a contatto con le polveri nocive e i siti minerari scavati,
che vengono abbandonati poco tempo dopo l’estrazione e la lavorazione dell’oro.
Le statistiche fornite dalle autorità locali parlano di circa 200mila
lavoratori che percepiscono un guadagno diretto dal lavoro di estrazione
dell’oro nelle cave, mentre un numero cinque volte maggiore è investito in
maniera indiretta nella scoperta di nuovi siti di estrazione, del tutto
illegali, e nell’esportazione dell’oro. Ma il dato più
sconcertante riguarda i bambini: su un campione di cinque siti minerari, la manodopera è
composta dal 30% al 50% di minori, tra gli 8 e i 18 anni, che
non hanno mai frequentato il sistema scolastico e hanno l’unico interesse
materiale di percepire uno stipendio.
Secondo quanto prevedrebbe la legge in Burkina Faso, è vietato ai
minori di 16 di lavorare in miniera e ai minori di 18 anni l’esposizione a
lavori pericolosi, anche se la realtà è ben diversa e la divisione del lavoro,
che cambia in ogni sito minerario, richiede che siano proprio i bambini a
lavorare con maggiore dinamicità in tutti i ruoli del settore: a loro viene ordinata
la discesa nei sotterranei anche fino a 170 metri di profondità, e dunque lo
scavo e l’estrazione di minerali attraverso sostanze chimiche dannose come
cianuro, mercurio ed esplosivi; inoltre, non vengono sottratti neanche al
trasporto di sacchi di minerale da trattare con macchinari
pesanti e pericolosi, e senza alcuna attrezzatura di sicurezza come caschi,
scarpe anti-infortunistica, maschere respiratorie e occhiali protettivi.
Alle
vittime di incidenti sul lavoro non è garantita alcuna assistenza sanitaria e
la sola consolazione preventiva che viene concessa sul posto di lavoro è una
notevole scelta di sostanze stupefacenti, dall’alcol, cannabis,
alle anfetamine, somministrate per contrastare attacchi di panico e determinare
dall’infanzia il coraggio necessario per affrontare ogni giorno gli
innumerevoli rischi del mestiere. In una delle miniere più rinomate, Alga, nel
2015 morirono 46 minatori a seguito della caduta di un albero.
Le
leggi burkinabé in materia di sfruttamento minorile appaiono del tutto
inefficienti, e con il beneplacito silenzio di tutto il mondo, a occuparsi
dell’oro una volta estratto dalle cave, sono i trafficanti e i businessman
dell’esportazione, che a loro volta aggirano ogni regola
di tassazione del prodotto da importare dal Burkina Faso. Secondo un report
investigativo dal nome A Golden Racket, a guadagnare i
massimi profitti dall’oro estratto dai bambini al lavoro sembra essere
soprattutto la Svizzera, oggi in cima alla classifica globale
per l’esportazione di oro. Nel Canton Ticino, infatti, vi si trovano le società
che si occupano della rifinitura del 70% dell’oro in tutto il mondo, arrivato
soprattutto dal Congo, Mali, Perù.
Tra
queste la società Valcambi è stata al centro dell’interrogazione delle
“iniziative multinazionali” in merito al rispetto dei parametri dell’Ocse
per il riconoscimento dei diritti umani. Il report A Golden Racket dimostra che solo tra gli anni
2012 e 2014 oltre 7mila chili di oro, proveniente dal Togo, sarebbero finiti
presso la Valcambi attraverso il mercato di contrabbando.
Il Togo, paese non classificato come produttore d’oro, gioca un ruolo
fondamentale nell’importazione a basso costo delle risorse dal Burkina Faso.
Dalle miniere di estrazione, l’oro viene spedito alla Wàfex Sarl, compagnia subordinata del Gruppo
Ammar, società di famiglia libanese con sede presso Lomé in Togo. Dal Togo, la
Wàfex Sarl spedisce il prodotto a una filiale con base a Ginevra, la MM
Multitrade SA, rispettando la sola politica di non chiedere alcuna
documentazione riguardo la provenienza del metallo da rifinire,
in nessuna fase dell’esportazione.
Attraverso questo meccanismo e con la politica di aumentare i
profitti senza alcuna regola, non solo vengono violate le leggi nazionali del
Burkina Faso, ma il danno economico corrisposto solo nel 2014 valeva una perdita dello
Stato burkinabé di oltre 6 milioni di franchi svizzeri, 5,3 milioni di euro,
solo di tasse sull’esportazione, che la Ammar Group avrebbe
risparmiato fino a dieci volte rispetto alle imposte che vengono regolate in
Togo. Vale a dire soldi regalati alle aziende private, considerando che il 98%
dell’oro esportato a minor costo dal Togo sarebbe in realtà oro estratto dalle
braccia dei bambini minatori in Burkina Faso.
Il
Burkina Faso produce ufficialmente mille chili di oro all’anno,
mentre le stime reali dell’importazione nei paesi occidentali parlano di circa
8mila di oro all’anno che, come dichiarato da un
rappresentante del ministero delle Miniere del Burkina Faso, arrivano in Europa
in via del tutto illegale.
Sembrerebbe assurdo che i numeri che documentano le importazioni di
oro nel mondo superino di gran lunga i dati che invece riguardano
l’esportazione del metallo. Se non fosse che questo mercato di certo non
risponde ai bisogni reali delle migliaia di lavoratori iper-sfruttati nelle
miniere, in stragrande maggioranza affamati e assetati di salari minimi, ma
risponde invece alla domanda/offerta dei grandi imprenditori capitalisti, tra
cui India, Cina, Turchia e Emirati Arabi.
Così questa industria accresce d’importanza, da un lato garantendo il
trasporto dell’oro su scala internazionale; poi certificando la qualità e
dividendo il condizionamento in lingotti e monete; ne riparte l’uso in
settore di lusso, di finanza, settore industriale e istituzionale; lavora allo
stoccaggio per assicurarne le condizioni ottimali; e infine ripulisce il
metallo riciclato e proveniente da circuiti del tutto
illeciti di reti mafiose locali, spesso riconducibili a gruppi armati, che
senza fornirne la provenienza si assicurano un posto in uno dei mercati più
redditizi al mondo.
Gli attori protagonisti di questo business non hanno altro interesse
che far brillare i propri guadagni. Ma dietro le quinte, o meglio nella
profondità delle vite di chi scende oltre 100 km nelle miniere in Burkina Faso,
accorgendoci dello sfruttamento intensivo di migliaia di lavoratori da un lato,
e della devastazione ambientale di immense aree rurali dall’altro, insomma, non
è proprio tutto oro quel che luccica.
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