La discesa in campo di un movimento mondiale di
donne che riempie la scena politica e sociale degli ultimi anni – di cui il
corteo di sabato scorso 24 novembre a Roma era solo un’articolazione –
induce a ritenere che quel movimento sia destinato ad essere uno dei
protagonisti principali di ogni possibile processo di trasformazione dei
rapporti sociali nei decenni a venire.
L’irruzione
di tematiche, pur legate alla “questione sociale” e agli obiettivi della lotta
di classe dei due secoli scorsi, ma sostanzialmente estranee ai modi
tradizionali di fare e vivere la politica, spiazza fino all’irrilevanza le
forze delle diverse sinistre, ma anche, più in generale, l’arena dove si è
svolta gran parte del conflitto politico a cui siamo stati abituati. Questo
impone a noi maschi il compito di mettere in discussione e rivedere –
continuamente, e non una tantum – il modo in cui ci rapportiamo all’altra “metà
del cielo” e, in particolare, a quella parte di essa che frequentiamo
personalmente per i più svariati motivi; ma anche quello di capire come mettere a frutto gli strumenti
teorici e pratici che il femminismo ci fornisce – o ciò che
riusciamo a coglierne – in una rivisitazione generale di tutti i nostri
riferimenti. Non si tratta di
fare i “femministi”, di scimmiottarne le pratiche: sarebbe ridicolo. Ci
mancherà sempre l’esperienza dell’essere donna e di tutto ciò che ogni donna
può ricavare dalla conoscenza del proprio corpo e dal proprio vissuto. Ma ciò che il femminismo ci mette a
disposizione può aprirci uno spiraglio sulle strutture del potere di cui bene o
male siamo parte. Quello spiraglio, destinato a farsi voragine, è il
patriarcato; il suo indissolubile nesso con realtà pervasive come la proprietà,
il dominio, lo sfruttamento, la sovranità; il suo essere fondamento e cornice
di tutte le forme che quelle realtà hanno assunto nelle diverse fasi della
storia, compreso, ovviamente, il capitalismo finanziario, estrattivo e
predatorio(non uso il temine neoliberismo, che considero del tutto
inappropriato) attuale.
La radice del patriarcato è la “proprietà” dell’uomo
sulla donna, la sua pretesa di considerarla e il potere di farne una cosa “sua”. Su di
essa si sono modellate tutte le altre forme di proprietà che hanno accompagnato
il succedersi delle civiltà: sugli animali addomesticati, sui campi, sui pascoli
e le foreste, sugli schiavi, sui palazzi, sul denaro, sui mezzi di produzione,
sulla conoscenza, sul genoma: tutte forme di accaparramento di ciò che è
fecondo o ritenuto tale, di ciò che “produce” o promette di produrre. Il
modello è la fecondità della donna, la produzione della propria prole, ritenuta
da sempre la forma fondamentale della ricchezza: la perpetuazione, in altre
vite, della propria esistenza. Non solo. La proprietà di una, diverse o tante
donne è forse la ragione ultima dell’appropriazione di tutte quante le altre
cose considerate degne di accaparramento. Tutta la ricchezza del mondo, le
proprietà accumulate nel corso dei secoli, non servivano e non servono che a
questo: in forma diretta o simbolica. E la sovranità, non di una comunità,
piccola o estesa, che si autogoverna condividendo oneri e benefici della
convivenza, ma di una “patria” (la cui assonanza con patriarcato è stata più
volte rilevata), cioè di uno Stato, i cui membri sono tenuti insieme dal
dominio di un Leviatano (un tiranno) o da una “volontà generale” che ha bisogno
di qualcuno che la interpreti per estrinsecarsi – i “gestori” della sovranità –
non è che un’estensione a livello sociale di quella forma elementare di dominio
che è la proprietà: una delle tante condizioni per garantire quella degli
uomini sulle donne. Sopra quei sovrani c’è solo un dio, anch’esso Padre. Un papa che aveva ipotizzato che
dio fosse anche madre morì subito…
Persino la
rivolta delle classi oppresse contro i loro dominatori ha assunto spesso i connotati
di una lotta per mantenere, senza dover ricorrere a una proprietà di cui non
disponevano, un potere sulle “proprie” donne che la ricchezza altrui metteva a
repentaglio. Oggi la guerra del fondamentalismo
islamico contro l’Occidente evidenzia che la posta in gioco di
quello “scontro di civiltà” è la conquista o riconquista di un potere sulle
donne che il femminismo o l’emancipazione della donna nel mondo occidentale
mettono in forse. Senza vedere che molta di quella emancipazione, in
particolare in campo sessuale, ma soprattutto l’uso e l’esibizione del corpo della donna per motivi
commerciali, non sono che l’altra faccia di un dominio sulla donna che
ha cambiato forma, ma viene riaffermato in nuove modalità.
Il dibattito sul rapporto tra capitalismo e
patriarcato ha messo in luce che l’accettazione o la legittimazione dei
rapporti di dominio e sfruttamento nelle società in cui viviamo hanno radici,
come già aveva colto Marx nei Manoscritti economico filosofici, nel
rapporto tra uomini e donne. La permanenza a ogni latitudine, e nelle forme più
diverse, di varie forme di violenza – aperta o mascherata, e persino
inconsapevole – nei confronti delle donne, fino al femminicidio, rivela la
profondità di queste radici ed è ciò che impedisce di prospettare o praticare una vera alternativa a
una società il cui fine ultimo è l’acquisizione di reddito, ricchezza o potere
come condizioni irrinunciabili per conservare in qualche forma una proprietà
degli uomini sulle donne.
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