Famigliari, amici, conoscenti, tante
persone con le quali ho avuto la possibilità di condividere progetti aventi
nessun’altra finalità che quella di migliorare quantità e qualità della
conoscenza hanno sfiorato la possibilità, il 15 e 16 novembre scorsi, di
trovarsi il mio nome – con o senza foto/ritratto – fra i neri annunci delle
pagine più lette de L’Unione Sarda e de La Nuova Sardegna.
Questa lettera aperta è scritta per
dimostrare che, affetti, determinazione, senso di responsabilità, comprensione,
competenza, umanità a volte sconfiggono una morte data quasi per certa. E senza
la necessità di disturbare il “miracolo”. Il 12 novembre, dopo 25 anni di
silenzi, si rifà viva una patologia che nei 20 anni precedenti mi aveva colpito
regolarmente ogni tre anni: la calcolosi renale. Almeno io credo che di quello
si tratti riconoscendone la sintomatologia. Cerco di rifiutare il trasporto in
pronto soccorso su cui mia moglie Sandra insiste molto, ma alla fine cedo.
Optiamo per il Marino perché dovrebbe
essere tra i meno affollati. Registrazione e accettazione alle 13, i dolori non
mi danno tregua. Ingresso per la medicazione dopo 8 ore, alle 21.45. La
“mia diagnosi”, viene confermata senza qualunque altro tipo di accertamento. Un
cocktail di forti antidolorifici mi rimette in piedi. A casa si torna un quarto
d’ora dopo la mezzanotte. Il giorno dopo, il 13, sembro rinato. Solo qualche
segnale di poca consistenza.
Il 14, dall’alba, ritornano i
violentissimi dolori della “colica renale”. Sandra è spaventatissima e si fa
aiutare dalla sorella Stefania che quel giorno è da noi, a chiamare il 118,
nonostante io, continuando a contorcermi, mi dico contrario. Invece di
abbandonarsi alla disperazione loro due si mettono all’opera. Dopo un quarto
d’ora arriva un’ambulanza il cui equipaggio è composto da giovani volontari,
pieni di coraggio, di prontezza di spirito, di coscienza. Il mio colore ormai è
vitreo, vomito sangue. I volontari intuiscono che di fronte a loro c’è qualcosa
di più grave di una colica renale e chiedono l’intervento di una seconda
ambulanza, medicalizzata. Osservazione rapida, decisione immediata: codice
rosso e il più velocemente possibile al Brotzu.
Il primo problema che si pone è come
portare quel corpo, scosso da violenti spasmi, dal sesto a piano terra
utilizzando la lettiga che è più lunga dei gomiti che si formano tra i
pianerottoli della scala. Si ingegnano in tutti i modi per risolvere il
problema e poi via di volata verso il Brotzu. Nessun intoppo burocratico,
immediatamente dentro.
Il compito del 118 termina lì. Il primo,
enorme grazie va a quei ragazzi, dei quali spero di conoscere un giorno i nomi.
Un grazie per aver fatto il lavoro con impegno e dedizione, per aiutare una
persona qualunque. Al pronto soccorso del Brotzu constatano che è in corso una
vasta emorragia intestinale aggravata dal fatto che soffrendo io di una
fibrillazione atriale cronicizzata da anni, sono sottoposto a trattamento di
anticoagulazione. Insomma il range entro cui il PT-INR dovrebbe attestarsi è
2/3; il mio in quel momento è a 9.
Del pronto soccorso il primo ricordo che
ho è quello di un giovanissimo medico, Davide, che si impegna allo spasimo per
tenermi sveglio, per non farmi collassare. E poi quello di due dottoresse,
Francesca – mora, folta capigliatura, in tuta chirurgica – e Giovanna –
giovane, occhialini leggeri con una montatura metallica, i capelli raccolti in
alto da una fascia chiara -. Mi stimolano, mi sollecitano, pretendono che io
collabori. Poi ho saputo che continuavo a reagire nonostante la pressione arteriosa
fosse precipitata a 40 su 30. Stabilito che il disastro è stato causato dalla
rottura di due aneurismi, Francesca e Giovanna intervengono in laparoscopia.
Poi inizia il tempo dell’attesa. Come
reagirà il mio corpo mentre vengo trasferito in rianimazione? A Sandra e sua
sorella la dottoressa Francesca ammette, senza infingimenti, che “le condizioni
sono disperate”. A mia figlia Anna Paola, la dottoressa Giovanna, emozionata,
dichiara “non si possono nutrire buone speranze”. A Francesca e Giovanna, con i
lori collaboratori Francesca e Alessio, che poi sono venuti a trovarmi durante
il ricovero, va il secondo grazie. E porterò sempre con me il senso di colpa
per aver inflitto paura e sofferenze indicibili alle persone più amate.
Dal 15 la svolta. Al risveglio dal coma
farmacologico mi trovo in un ambiente luminoso, arioso. Chi direbbe mai che sia
la “Rianimazione”, parola che ha sempre fatto sorgere il terrore di trovarsi di
fronte all’anticamera della morte? Non solo gli spazi sono gestiti – diciamo
così – in libertà, in modo da consentire un rapporto diverso tra paziente e
parente, ma anche per abbattere le barriere fisiche oltre che psichiche,
costruite intorno a quei ricoverati. Me lo conferma la responsabile del
reparto, Maria Emilia Marcello, che si batte per la rapida e piena applicazione
delle nuove norme sull’umanizzazione del reparto. A conferma della sua volontà
consente ai parenti di entrare uno per volta a far visita ai ricoverati dalle
14.30 alle 19.30. È proprio grazie a questa scelta che solo poche ore dopo
essere “resuscitato” che io posso riabbracciare Sandra, Anna Paola, Giovanna –
rientrata apposta da Milano -, mia sorella Gisa. E contemporaneamente ritrovo
il tempo e la lucidità per riaccendere la mia passione per la testimonianza.
Scopro così com’è completamente diverso
il lavoro del personale. Da un’infermiere dall’energia esplosiva come quella di
Marco, ogliastrino di Lotzorai, alla posatezza dell’aritzese Gervasio,
all’ironia del campidanese Antonio, alla riservatezza di un giovane magro,
medico di Arzana del quale non ho capito il nome. A quel clima di serenità da
cui la morte sembra così lontana devo un mio terzo grande grazie. Dal
pomeriggio del 16, annunciato dalla visita dei dottori Zonza e Anna Melis che
mostrano ottimismo e serenità, vengo trasferito in chirurgia generale, reparto
diretto dal prof. Fausto Zamboni. Cominciano a rimettermi in sesto.
Anche qui sono immerso in un clima
sorprendente, dominato dal lavoro di ragazzi e ragazze che mostrano intorno ai
trent’anni d’età. Rapidi, efficienti, cortesi. Laura, Stefania, Immacolata,
Giuseppe, Sara, Guendalina, dimostrano la stessa disponibilità, competenza,
propensione all’ascolto di Andrea, alcuni anni e molta esperienza in più. E con
loro anche Caterina e Giuseppe. Rispondono con la stessa serietà e
professionalità sia che tu chieda la padella o una bottiglietta d’acqua. Chi,
figura delicata, porta una treccia bionda raccolta sulla spalla destra, chi ha
un tipico taglio di capelli del tempo, chi un piercing, chi un tatuaggio. E nei
loro taschini c’è sì, uno smartphone, ma sempre, rigorosamente, silenziato.
Dimostrano così che avendo un ruolo, un compito, una missione conoscono bene
l’esatta scala di valori tra qualità della vita e futili accessori. E ti
chiedi: ma allora, perché invece di continuare a lanciare anatemi, scrivere
baggianate, a parlare solo dei giovani che vivono drammaticamente
l’emarginazione e l’esclusione, non si fa di tutto per progettare, costruire,
realizzare occasioni di lavoro? Solo questo può rappresentare un futuro di
crescita e espansione. Alla chirurgia generale del 7° piano del Brotzu va il
mio ultimo, speciale grazie.
Infine, da uomo fortunato, restituito
alla vita, sento di dover rivolgere un appello ai prossimi amministratori
regionali. Finitela di smantellare le eccellenze professionali, tecniche, umane
diffuse nella sanità sarda. Costituiscono un’importante risorsa da valorizzare,
altro che da svendere al Qatar o ai ricchi del mondo. Invece di vederla solo
come un costo, perché non ipotizzare che tutti, dal Businco al Brotzu, dal
Microcitemico alla trapiantistica, dagli ospedali di Sassari e Olbia diventino
centri di riferimento per tutto il meridione d’Italia e per i Paesi che si
affacciano sul Mediterraneo.
E quanto ai sardi, perché non realizzare
vere forme di integrazione territoriale fra strutture principali e secondarie,
tutelando inoltre quelle realtà logistiche isolate e con gravi problemi di
collegamenti? Devo la mia salvezza alle ragioni spiegate all’inizio, ma anche e
molto, alla rapidità degli interventi ai quali sono stato sottoposto. Sarebbe
stata la salvezza anche partendo da Muravera, Isili, Laconi, Ghilarza, San
Gavino nella dissennata evenienza della chiusura di quei presidi?
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