Quando pensiamo all’era digitale, probabilmente la prima cosa che ci viene in mente sono i computer, i telefoni cellulari e altri ovvi elementi di quanto viene chiamato ICT*: tecnologie di informazione e comunicazione. Sembra qualcosa di “etereo”, ma in realtà comporta enormi impatti ambientali ed energetici. Inoltre, l’industria digitale va ben oltre queste prime immagini. È una delle basi fondamentali dello tsunami tecnologico che è già su di noi, ma che difficilmente percepiamo in tutte le sue dimensioni. Tra queste, ad esempio, il rapido sviluppo di “Internet delle cose”, che si propone di sostituire il commercio convenzionale – inclusa anche la spesa settimanale delle famiglie -; la tecnologia digitale che muove i mercati finanziari; le transazioni e le valute digitali; la digitalizzazione dell’agricoltura, con l’uso di automi, droni, satelliti, sensori e big data; l’optogenetica, che si propone di manipolare gli esseri viventi a distanza; l’onnipresenza di videocamere e sensori che comunicano con giganteschi database, che possono includere persino i nostri dati genomici; l’ ”Internet dei corpi”, con la digitalizzazione della medicina e le nuove biotecnologie, e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale che è alla base di tutto questo. Sono tutti settori con forti impatti – scarsamente compresi dalla società – e l’elenco è solo all’inizio.
Uno degli aspetti più pesanti e allo stesso tempo “invisibili” dell’era digitale, è che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli impatti materiali sull’ambiente, sulle risorse e sulla domanda di energia sono enormi. Jim Thomas, condirettore del Gruppo ETC, lo esemplifica in tre settori: l’iceberg dell’infrastruttura digitale, la domanda di archiviazione dei dati e la vorace domanda energetica per l’uso delle piattaforme digitali.
Uno degli aspetti più pesanti e allo stesso tempo “invisibili” dell’era digitale, è che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli impatti materiali sull’ambiente, sulle risorse e sulla domanda di energia sono enormi. Jim Thomas, condirettore del Gruppo ETC, lo esemplifica in tre settori: l’iceberg dell’infrastruttura digitale, la domanda di archiviazione dei dati e la vorace domanda energetica per l’uso delle piattaforme digitali.
L’infrastruttura digitale e delle telecomunicazioni già installata, è molto disuguale. Mentre nella maggioranza dei paesi dell’Africa e degli altri paesi del Sud globale non arriva al 20 per cento di accesso della popolazione, nell’America del Nord supera il 90 per cento. Nel complesso, costituisce ciò che Benjamin Bratton definisce “la più grande costruzione accidentale di infrastruttura che l’umanità abbia mai fatto”. Vale a dire, l’infrastruttura è connessa – o sostiene di esserlo – a tutti gli angoli del pianeta, ma non sono mai state prese decisioni congiunte su di essa, sulle sue molteplici implicazioni e impatti. Gran parte della discussione globale su questo argomento, spesso promossa dalle società di telecomunicazione e big data, riguarda i presunti aspetti di equità (“tutti devono aver diritto di accedere alla rete”), e pertanto quello che propongono è che i governi o gli organismi di sostegno allo sviluppo, devono costruire e finanziare le infrastrutture dove non ci sono, e in molti casi darne la priorità rispetto ad altre necessità. Quello che in genere non si menziona è che l’espansione dell’infrastruttura digitale implica, tra le altre cose, l’aumento della rete di radiazione elettromagnetica ovunque, che ha gravi effetti negativi, ma poco studiati, sulla salute e sulla biodiversità. È, inoltre, un motore di conflitti per l’estrazione dei materiali necessari a costruire telefoni cellulari e altri dispositivi di trasmissione e ricezione.
Al contempo, l’archiviazione di tutta l’informazione digitale generata sul pianeta, è stata stimata per il 2016 in 16,1 zettabyte (un zettabyte è un bilione di gigabyte). Per il 2025, si calcola che saranno richiesti 163 zettabyte, 10 volte di più (IDC) [IDC International Data Corporation].
Per rendere la cifra un po’ più tangibile, sarebbero circa 16 miliardi di dispositivi di archiviazione, approssimativamente due dischi rigidi ad alta capacità per ogni persona sul pianeta. Questo richiede una quantità enorme di materiali, che includono l’estrazione di molti elementi, compresi quelli rari e scarsi, la produzione massiccia di sostanze chimiche sintetiche (e rifiuti tossici) e un’enorme quantità di energia per l’estrazione, la produzione, la distribuzione e l’uso, compreso il funzionamento e la ventilazione dei dispositivi, eccetera.
I fabbisogni energetici sono spesso resi invisibili, perché si suppone che la digitalizzazione richieda meno energia di altre attività, cosa che in alcuni casi potrebbe succedere. Tuttavia, uno degli esempi più convincenti del contrario è l’uso di valute digitali come il bitcoin. Secondo dati recenti, una semplice transazione in bitcoin, richiede la stessa quantità di energia utilizzata da una casa media negli Stati Uniti durante due settimane! (Digiconomist.net)
Questi sono alcuni esempi degli impatti che generalmente non vengono considerati. Tutti implicano anche effetti devastanti sulle comunità e le popolazioni dei luoghi dove si estraggono le risorse, oltre alle conseguenze sulla salute degli utenti e di coloro che stanno vicino alle linee e alle torri di trasmissione, così come sulla fauna, la vegetazione e la biodiversità.
L’enorme fabbisogno energetico dell’infrastruttura e dell’attività digitale si somma ai principali fattori che causano il cambiamento climatico. Per tutto questo, è necessario che dalle basi della società ci assumiamo l’analisi e la valutazione molteplice degli sviluppi tecnologici, incorporando tutti i suoi aspetti, non solamente quelli che le industrie vogliono venderci.
* ICT Information and Communications Technology
Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Impactos invisibles de la era digital
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo
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