Le città sono implose, fatte a brandelli. In parte gentrificate sotto
l’assalto dei fondi speculativi, in parte degradate,
abbandonate a sé stesse. Non potrebbe essere altrimenti: le città sono le
fedeli concretazioni delle crescenti disuguaglianze sociali e dell’abdicazione
dei poteri pubblici. Sull’utilizzo degli
spazi urbani si gioca una partita fondamentale dell’assetto dei poteri
economici e politici. Protagonisti
sono i movimenti urbani di riappropriazione dei luoghi della socialità,
a partire dalla residenza e di resistenza alla “messa a reddito” delle aree di
pregio (turistiche, residenziali di lusso, commerciali, direzionali di
rappresentanza… dove maggiore é la possibilità di estrarre rendite).
I nodi pulsanti di questi movimenti urbani sono i
centri autogestiti dalle comunità degli abitanti. “Arche di autonomia”, le definirebbe Raul
Zibechi.
Ha scritto
l’urbanista Carlo Cellamare:
“Le città sono attraversate da pratiche e processi di riappropriazione in
cui gli abitanti, organizzati o meno in comitati e associazioni, ‘producono’ o
‘riproducono’ spazi trasformandoli in ‘luoghi’, anche recuperando e
riutilizzando spazi abbandonati, degradati o inutilizzati e rimettendoli nel
‘ciclo di vita’ della città, attraverso azioni di cura, ricostruzione, gestione
responsabile, manutenzione, ecc. […] processi di risignificazione dei luoghi
[…] che ricostruiscono una relazione di significato tra lo spazio e il vissuto”
(Autorganizzazione e riqualificazione delle periferie,
Ananke, n.82, 2017).
Aree verdi e immobili liberati e riattivati per dare
vita a servizi interculturali, welfare mutualistico, piccole attività
economiche cooperatistiche ed ecosolidali, coworking…, insomma, autentica
“rigenerazione urbana”. Ogni città
è punteggiata da lotte per la conquista di questi spazi pubblici, uniche
alternative alla individualizzazione solipsistica delle relazioni umane
nell’età dell’iperliberismo. Nelle
crepe del lacerato tessuto urbano sono nate esperienze di tutti i tipi: dai
centri sociali occupati alle case del popolo, dalle banche del tempo ai
comitati di quartiere, fino ai “beni comuni” riconosciuti tramite percorsi
partecipativi.
Autogoverno in Chiapas e nel
Rojava
A Bologna è
stato creato un Comitato
per la promozione e la tutela delle esperienze sociali autogestite (Esa) che nei giorni scorsi ha organizzato
assieme alla rete dei produttori Fuorimercato un
incontro di “autoformazione” presso la casa del popolo Venti pietre allo scopo
di consolidare i legami di solidarietà tra le varie realtà autogestite
cittadine, aumentare il loro peso contrattuale con le varie controparti
proprietarie e studiare gli strumenti giuridici-normativi più idonei per poter
resistere e gemmare.
Anche
a Bologna ogni esperienza di
autogestione ha storie e contesti diversi. Alcune tengono tenacemente il punto
della occupazione: centri sociali,
come Crash ed XM24. Altre sono riuscite
a strappare convenzioni con gli enti pubblici
proprietari (è il caso del centro sociale Làbas dopo
le imponenti manifestazioni popolari del settembre scorso a seguito dello
sgombro forzato dall’ex caserma Masini) o comodati d’uso gratuiti temporanei
con i proprietari privati di immobili dismessi (è il caso del Venti pietre
nell’ex concessionaria automobilistica di via Marzabotto e dell’associazione
Pianificazioni urbane). Altri usano il regolamento
dell’Amministrazione condivisa, che prevede la stipula di “patti di
collaborazione e sussidiarietà” (art 118 riformato della Costituzione) tra i
cittadini e le pubbliche amministrazioni, promosso da Labsus in
molte città italiane. Per tutti, i modelli culturali generali di riferimento
sono le Giunte
del buon governo zapatiste in Chiapas e le esperienze di
autogoverno federaliste, ecologiste e femministe nella regione curda del Rojava
(vedi il volume di Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, elèuthera, 2017,
presentato all’incontro). Ma esistono molte altre esperienze più vicine a noi
come quelle intraprese a Barcellona, che sono state raccontate da Lucas Ferro
Solè di Podemos Catalugna.
Non esistono modelli unici – è stato detto –, ma il punto
sicuramente più avanzato conquistato dai movimenti urbani in Italia è quello
di Napoli. Descritti da Maria
Francesca Di Tulio e Giuseppe Micciarelli dell’ex Asilo Filangieri, sono oramai
una decina gli immobili di proprietà del Comune partenopeo cui è stato
conferito lo status di “bene comune” in uso collettivo, autonormato dalle
assemblee di gestione e riconosciuti da una serie di delibere comunali.
Favorire forme di riuso
degli immobili abbandonati
Da qualche
tempo – su proposta del giurista Ugo Mattei, intervenuto in videoconferenza – è
stata proposta la stesura di una Carta d’uso civico dei beni comuni urbani
e una proposta di legge popolare nazionale
che possa favorire le forme di riuso degli immobili abbandonati o mal
utilizzati. Anche il Diritto deve diventare un campo di battaglia
sociale per la conquista di nuovi strumenti giuridici (per produrre nuova
legalità dal basso) per il “diritto alla città”, all’abitare e al vivere
degnamente. I temi cruciali in discussione sono l’accesso e la gestione. È
necessario liberare le amministrazioni pubbliche dal cappio del “pareggio di
bilancio”. La scelta sugli usi del patrimonio
immobiliare – ad iniziare da quello pubblico, ma non solo – deve tornare ad
essere una decisione discrezionale politica, cioè urbanisticamente, socialmente
ed eticamente orientata, non condizionata dai “benefici economici” immediati
realizzabili. Al “danno erariale” e ai “mancati introiti”, che la Corte
dei Conti, ultimo anello della catena tesa dalla Troika, puntualmente contesta
alle amministrazioni pubbliche che si rifiutano di “fare cassa” con la svendita
dei beni pubblici, va contrapposto il concetto di “redditività sociale” dei
beni comuni. Vanno, cioè, calcolati e misurati gli “impatti positivi” non
monetari, extra-finanziari, quali la crescita del “capitale” umano e sociale,
la reputazione e la bellezza dei luoghi. Concetti che vanno presi sul serio e
fatti uscire dalla retorica corrente. Non serve scomodare premi Nobel (come la
economista Elinor Ostrom) per capire che una
comunità locale ricca di relazioni sociali solidali e di sistemi di
auto-mutuo-aiuto crea più benessere duraturo per la popolazione che non una
città privatizzata, attraversata da conflitti classisti, ostile nei
confronti delle donne e degli stranieri, produttrice di disagi sociali e
psicologici, inaffettività e violenza.
Certo, la
condizione preliminare per consolidare e allargare le esperienze di
autogestione è la mobilitazione popolare che denuncia lo scandalo dello spreco
anche economico degli immobili in disuso (otto
milioni di edifici abbandonati in Italia, hanno riportato Isabella Inti
e Verther Albertazzi di Temporiuso e Planimetrie culturali). Va poi dimostrato
attraverso azioni concrete (creazione di centri polivalenti, sportelli legali e
servizi di welfare di prossimità, empori e mercati contadini, sistemi di
scambio non monetari e piattaforme tecnologiche collaborative…) quali possono
essere i benefici realizzabili se a gestirli sono le comunità locali. “Domini
collettivi” (come recita la nuova legge che finalmente riconosce gli usi civici
consuetudinari delle antiche comunaze), “Comunità patrimoniali “ (come recita
la Convenzione di Faro sui beni colturali, mai ratificata dall’Italia) che
adottano, curano e fanno propri luoghi e immobili percepiti come beni utili
alla collettività, necessari a rendere effettivi i diritti fondamentali
individuali all’abitare dignitosamente. I beni comuni sono quindi una forma di
possesso che tutela i beni e socializza i benefici.
Non si
tratta di sgravare gli enti proprietari (pubblici o privati) dalle loro
responsabilità anche costituzionali (l’Articolo 41 sull’utilità sociale
dell’iniziativa economica, privata e pubblica, è l’emblema della “Costituzione
inattuata e tradita”), ma al contrario di farli uscire da uno stato di
colpevole passività. In concreto: manutenzioni straordinarie, allacciamenti,
guardiania e altri servizi onerosi vanno mantenuti in capo all’ente
proprietario. Le autogestioni non devono nemmeno essere cavalli di Troia per
l’esternalizzazione di servizi al “terzo settore”. Le assegnazioni tramite bandi, gare e concessioni
(procedure apparentemente trasparenti e neutrali, che piacciono tanto ai tutori
della legalità astratta e dell’equilibrio contabile del bilancio dello stato)
in realtà sono trappole ideologiche che mettono in competizione i gruppi
socialmente attivi, li obbligano ad aziendalizzarsi e li assoggettano alla
logica del clientelismo. Per fare comunità capaci di autogoverno (dotate
di capatibilities, direbbe Martha Nussbaum ) è necessario
– al contrario – facilitare forme di gestione aperte, dirette, libere,
responsabilizzanti. Il modello è quello delle assemblee di gestione ben
organizzate in tavoli tematici e gruppi operativi, aperte a tutte e a tutti
coloro che hanno qualche progetto da realizzare, la volontà di relazionarsi con
l’altro da sé e il desiderio di non
smettere di imparare dagli altri.
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