Possiamo
provare a leggere la congiuntura politica non semplicemente come una disputa
tra distinti gruppi per il potere, ma come uno scontro tra differenti percezioni della vita sociale,
tra differenti sensibilità della vita in comune? Cerchiamo di farlo poggiandoci
sul concetto suggestivo di “pedagogia
della crudeltà” proposto dall’antropologa Rita Segato.
Lo spiego in modo riassuntivo in seguito.
Nelle nostre società, la vita diventa sempre più
precaria: la
mancanza di difesa e di protezione sono tendenze generali, trasversali. Il
capitalismo oggi non punta semplicemente alla sua riproduzione regolata, ma
cerca incessantemente la conquista di nuovi territori, oggettivi e soggettivi:
nuove terre e nuovi ceti da sfruttare. È un
capitalismo di rapina. Questa
conquista permanente richiede non soltanto l’abolizione delle vecchie regole e
protezioni (molte volte frutto delle lotte dal basso della gente), ma di una
insensibilizzazione radicale.
Nella guerra
di tutti contro tutti, la competenza generale e il si salvi chi può, l’altro dev’essere percepito
innanzitutto come ostacolo e minaccia: come nemico.
Il principio di crudeltà è la diminuzione
dell’empatia: l’altro è
disponibile per un solo uso, se ne può fare a meno, nessun
filo ci unisce, i nostri destini non hanno nulla in comune. Vi è tutta
una “programmazione neurobellica della bassa empatia” nelle nostre società. E la violenza è lo strumento chiave:
lancia il messaggio imbarazzante per cui l’altro (donna, vecchio, migrante,
povero, nero, dissidente) è un di più, si può eliminare.
Ciò che
sostiene quindi le politiche della precarizzazione della vita è una certa
configurazione – o deconfigurazione – della percezione e della sensibilità.
Queste ultime sono questioni politiche di prim’ordine, ma le analisi di
congiuntura non le riguardano, concentrate per come sono nel sottolineare
le manovre di partito e gli
intrighi di palazzo, le relazioni di forza
tra organizzazioni e fazioni, lo stato dei sondaggi e l’“opinione pubblica”. È necessario e urgente
dotarsi di una sensibilità poetica sismografica per addentrarsi e descrivere
questo piano di realtà.
Sradicamento affettivo
Lo si è ripetuto spesso. Il movimento 15M [“gli
indignati”] ha funzionato in Spagna come una “porta antincendio” all’ascesa del
populismo di destra che si estende a livello micro e macro per tutta Europa:
Front National, Brexit, Alternative für Deutscheland, Pegida, Lega Nord, Casa
Pound, Alba Dorata.
Ma che tipo di porta antincendio? Da parte nostra, abbiamo insistito nel pensare e
descrivere il 15M come un effetto di sensibilità. Un fenomeno di sensibilizzazione collettiva.
A partire dal maggio del 2011, si è dispiegato un po’ dappertutto nella società
una specie di seconda pelle dentro e attraverso la quale si avvertiva come
qualcosa di proprio e vicino ciò che accadeva ad altri sconosciuti.
Ciò non vuol dire che tutti fossero presenti ad ogni
sfratto nei quartieri, ad ogni accompagnamento di un migrante privo di carta
sanitaria, ad ogni chiusura di una scuola minacciata di tagli, ma che c’era un
clima sociale generale che abbracciava, connetteva e amplificava ogni azione,
ogni iniziativa. Il 15M ha creato un comune sensibile nel quale era possibile
sentire gli altri e con gli altri, come simili.
Questa pelle se è ritirata o si è addormentata, debilitata in buona misura a causa
di una “verticalizzazione” dell’attenzione e del Desiderio, depositati e
delegati durante la fase dell’“assalto
istituzionale” nella promessa elettorale della nuova politica (Podemos,
confluenze, etc). Incantati dagli stimoli provenienti dall’alto (Tv,
dirigenti, partiti), tralasciando quello che nel frattempo ci accadeva intorno,
la nostra pelle si è strappata.
In realtà
non siamo usciti da nessuna crisi: semplicemente si è perso il contatto
sensibile tra i “sommersi” e i “salvati” (o coloro che si credono salvati al
momento). La ritirata degli “antincendio” 15M lascia il via libera alle forze
che sono sempre lì: l’approfondimento e il consolidamento della precarietà
esistenziale generale, la guerra di tutti contro tutti e il si salvi chi
può. Il veleno del rancore che si annida in
ogni angolo a causa delle tante umiliazioni ricevute nel quotidiano –
siano esse grandi o piccole, reali o immaginarie – si converte nel pungiglione
del risentimento vittimista che circola oggi a piacere per le reti sociali.
La “destrizzazione” di cui si parla ultimamente,
soprattutto la radice di quello che ha “risvegliato” in tutta la Spagna il
conflitto in Catalogna, non è in primo luogo una questione ideologica,
identitaria e politica, ma una esasperazione sociale e affettiva. Un
indurimento della percezione e della sensibilità.
Lo sfondo
del contenuto delle bandiere spagnole che è ancora possibile vedere in tanti
balconi (ormai valgono per il Mondiale…) è la paura, l’amarezza, la solitudine,
un Desiderio reattivo di ordine, consumo e mano dura contro tutto quello che
devia e destabilizza la finzione di normalità, con l’anti-catalanismo come
elemento agglutinatore primario.
È
indubbiamente Ciudadanos [con forti risonanze di Macron] il partito che in modo
più disinovolto agita questa “passionalità oscura” (Diego Sztulwark) al fine di
raccoglierla più tardi elettoralmente e di fare di essa la base del progetto
politico di convertire la società in una impresa totale. Dove vi sia spazio
solo per i vincenti, dove non abbiano spazio
gli avversari (destituiti come interlocutori mediante la repressione, la
censura e la criminalizzazione), e neanche le “anomalie” (come le comuni urbane
o gli ambulanti).
Su questo sfondo oscuro ed esasperato appaiono senza
dubbio voci e movimenti che convocano un’altra sensibilità, attivano un’altra percezione e
danno vita ad un’altra pelle. Senza alcuna idea esaustiva o totalizzante, mi
focalizzerò su tre esempi (ve ne sono di più). L’Otto marzo e le mobilitazioni
intorno alle morti di Gabriel Cruz e di Mame Mbaye.
Il mandato della mascolinità
Secondo Rita Segato, la prima espressione della
pedagogía della crudeltà è la violenza sessista. Il capitalismo di rapina installa un campo di
battaglia nel corpo delle donne.
Nella
precarietà generale, la posizione dell’uomo è resa più fragile: non può provvedere,
non può avere, non può essere. Ma allo stesso tempo deve provare che è un
uomo. Noi maschi siamo sottoposti a un
“mandato di mascolinità”che ci obbliga, per essere, a dimostrare forza e
potere: fisico, intellettuale, economico, morale, bellico, ecc. Il mandato di
mascolinità si traduce così oggi in un
mandato di violenza.
Lo stupro non è erotico o di piacere, ma una
dimostrazione di potere. Il potere
dell’impotente, ansioso di dimostrare che è, che continua ad essere un uomo. È
un messaggio che un uomo manda ad altri uomini: posso, sono capace, sono
padrone delle vite. Non è un fatto eccezionale, cosa di alcuni maschi mostruosi
o “psicopatici”. Poggia su di una base composta da mille violenze quotidiane e
trasversali: nello spazio pubblico e in quello intimo, nella strada e in casa,
nel lavoro e nelle relazioni.
La donna non è semplicemente un corpo-vittima della
violenza. Ciò che si aggredisce in essa è precisamente la sua forza
disubbidiente al mandato della mascolinità, la capacità di creazione di
vincoli, di lacci, di reti, di complicità, di empatia e di comunità.
L’8M ha reso visibili migliaia di donne in tutta la
Spagna, che hanno detto basta, in una giornata inaudita di sciopero e di
manifestazioni seguite in maniera massiccia. I canti e i manifesti possono essere letti come un
registro dettagliato delle mille violenze quotidiane che abitano nella
“normalità”. Le donne non tornano a questa normalità nello stesso modo dopo
aver vissuto una giornata così eccezionale, ma semmai più relazionate e più
forti. L’8M è solo la cresta della spuma di un’onda di fondo che spinge per
cambiare completamente la vita quotidiana, questo “brodo di coltura” della
violenza più spettacolare che vediamo nei giornali.
E può essere
assunto anche come un’occasione per gli uomini che desiderano disubbidire al
mandato di mascolinità e uscire da questo circolo funesto tra l’indigenza
esistenziale e l’obbligo di dimostrare potere. Come un invito alla metamorfosi.
Le buone azioni
La scomparsa
e la
ricerca del bambino Gabriel Cruz, il pesciolino, è stato un fenomeno
altamente mediatizzato.
I mezzi di comunicazione e le reti sociali sono oggi – soprattutto da qualche tempo
a questa parte – i veicoli
privilegiati della pedagogia della crudeltà. Le tendenze alla
spettacolarizzazione (il morbo), la semplificazione della realtà (il giudizio e
non il pensiero) e la polarizzazione sociale (la logica delle fazioni, buone e
cattive) li attraversano trasversalmente. Ma è la stessa cosa che la realtà si
strumentalizzi a favore della destra o della sinistra: in ogni caso si contribuisce alla distruzione della
sensibilità, del pensiero e dell’autonomia.
Nonostante
tutto, i mezzi di comunicazione e le reti hanno facilitato per diversi giorni
l’attivazione di molta gente che ha aiutato nella ricerca di Gabriel e che ha
voluto far sentire in qualche modo alla famiglia calore e solidarietà.
L’appoggio si è capovolto in odio quando si è incontrato il corpo del piccolo e
si è conosciuta l’identità dell’assassino: donna, straniera e di colore. In
questo contesto, la voce di Patricia Ramírez, la madre di Gabriel, è risuonata
come se provenisse dall’altro mondo, quando in realtà proveniva dall’amore più
comune che esiste: l’amore di madre.
Il suo
messaggio principale: non porre il fuoco nella rabbia e nel nemico, ma nella
solidarietà e nelle “buone azioni”. Spostare l’attenzione sui gesti di sostegno
che avevano “preso il meglio delle persone” durante quei giorni. Che quello che
rimanga, nel non senso assoluto della morte di Gabriel, sia il ricordo caloroso
dell’abbraccio sociale. “Perché altre persone ne avranno bisogno in futuro”.
Da dove
traeva Patricia le forze per non lasciarsi avvelenare dal Desiderio di
vendetta? È la domanda che le facevano i giornalisti tutte le volte, perplessi
e impressionati. E lei rispondeva sempre la stessa cosa: “In onore del
‘pesciolino’, lui non era così e io neanche”. Questo non vuol dire che Patricia
abbia conservato l’“assennatezza” e la “testa fredda”, come se gli affetti
conducessero direttamente all’odio e alla rabbia, e solo “la ragione” potesse
contenerli. Questa è la tipica visione maschile. In realtà la cosa giusta è il
contrario: la voce di Patricia veniva fuori dall’amore verso suo figlio, dal
ringraziamento per coloro che si erano mossi per lui e dal Desiderio che il suo
ricordo non fosse associato alla rabbia della vendetta. Dagli affetti.
Parola
precisa e preziosa, caricata di umanità e tenerezza, ricca di metafore
estremamente fisiche (molte volte relazionate con l’acqua: il fiume aperto, la
marea di solidarietà, la risacca del dolore…), la
voce di Patricia è riuscita a disarmare a momenti la voracità dei mezzi di
comunicazione e delle reti sociali, fondati sulle logiche della
spettacolarizzazione, semplificazione e polarizzazione sociale.
E ci ha
fatto cadere, indirettamente e come per un regalo, alcune delle indicazioni che
ognuno può convertire in modi di resistenza
alla distruzione dell’empatiae alla coltivazione di un’altra
sensibilità: circondarsi da
vincoli di cura, cercare l’intimità e il silenzio, ringraziare la dolcezza,
trasformare gli affetti reattivi in affetti attivi, evitare la
strumentalizzazione, non lasciare che altri parlino a nostro nome, non assumere
eccessivo protagonismo, “puntare sempre al cuore”.
Guerra tra poveri
Mame Mbaye, di origine senegalese, vicino di casa di
Madrid e lavoratore ambulante, è morto il 15 marzo nel contesto di un
inseguimento di polizia nel quartiere di Lavapiés. Senz’ombra di dubbio, lo ha
ucciso un sistema di maltrattamento quotidiano che inietta quotidianamente la
paura, sradica la
felicità e ammala, distruggendo il diritto umano alla spensieratezza, al riposo
e alla serenità, come spiega Sarah Babiker.
Questo sistema di maltrattamento quotidiano – legge
di cittadinanza, disuguaglianza economica, retate di polizia, ecc. – è
esattamente la “pedagogía della crudeltà”. Più che perseguire obiettivi concreti, come lo
sradicamento dell’ambulantato, quello che si cerca di fare è produrre
insensibilità: marchiare e farci vedere l’altro come altro, distinguere tra i
sommersi e i salvati, tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori,
rompere l’empatia ed ogni possibile solidarietà.
Aizzare una
guerra tra poveri, quando in realtà il collettivo degli ambulanti è solo la
punta più estrema delle tendenze generali per le quali oggi nulla è in salvo:
la precarizzazione, la mancanza di protezione e di difesa della vita.
Un giorno
dopo la morte di Mame Mbeye, i discorsi che si sono improvvisati nella
concentrazione di Piazza Nelson Mandela di Lavapiés mescolavano la degna rabbia
(per una morte intollerabile) e le parole che richiamavano ancora una volta
all’uguaglianza, alla comune umanità, all’empatia.
Contro il mandato della crudeltà: non sentire, non sentire insieme ad altri,
non commuoversi.
Gli oratori
hanno parlato in non meno di tre lingue (inglese, francese, spagnolo),
mostrando così di passo la potenza che c’è nelle vite migranti: l’energia, le
capacità e i saperi che abitano in questi corpi abituati alle traiettorie più
difficili, all’apprendistato e alla realfabetizzazione costanti, alla creazione
di reti di appoggio e di complicità.
Non sono solo poveri o vittime che meritano la
nostra compassione, ma in loro abita una grande ricchezza, un grande potenziale
che la nostra società non sa né vuole accogliere. Come ha ricordato Malick Gueye, portavoce del
sindacato degli ambulanti, Mame non era solo “ambulante”, ma anche una persona
impegnata nella lotta per i diritti sociali e un artista, a cui non si è
permesso di esercitare la sua professione in Spagna.
Lacrime felici
Lo confesso.
Mi sono venute le lacrime agli occhi l’8M vedendo di prima mattina un
“picchetto” di ragazzine con meno di sedici anni (e di ragazzini,
di dietro) mentre si inseguivano con energia, di corsa e infinita lucidità
nelle loro consegne.
Mi sono
salite le lacrime agli occhi ascoltando Patricia Ramírez mentre chiedeva alla
gente che “si togliesse la strega dalla testa” e si ricordasse meglio le “buone
azioni” che ebbero luogo durante la ricerca di Gabriel.
Mi sono
venute le lacrime agli occhi ascoltando gli oratori della Piazza Nelson Mandela
di Lavapiés che facevano appello, solo un giorno dopo la morte (morte politica)
di Mame, all’umanità condivisa, all’uguaglianza di tutte le persone.
Il filosofo
e scrittore Georges Bataille diceva che vi sono “lacrime
felici”. Non sono esattamente lacrime di gioia, ma di emozione per
vedere accadere qualcosa di “miracoloso”: imprevedibile, inaspettato,
impensabile, impossibile ma sicuro.
È
“miracoloso” ascoltare chi ha sofferto il male più grande parlare di lottare
per più vita e non per più morte, per più umanità e non per meno, per più
empatia e non per più guerra di tutti contro tutti. Che ci si inumidiscano
continuamente gli occhi con queste lacrime, per risvegliare e riattivare la
nostra pelle indurita dal principio di crudeltà.
Grazie a
Marga, Marta, Diego, Ema, Guille, Jabuti, Miriam, Juan e Leo per le nostre
conversazioni.
(Traduzione
di Gianfranco Ferraro)
Nessun commento:
Posta un commento