martedì 5 giugno 2018

Via la maschera! - Rita



Se bastasse raccontare alle persone la realtà dello sfruttamento degli animali per convincerle di quanto sia ingiusto, come se ciò fosse un processo razionale, allora probabilmente saremmo già sulla buona strada perché l'unico vero ostacolo da combattere sarebbe quello economico delle lobbies e delle aziende che lucrano sugli animali. Potremmo comunque contare su una massa crescente di persone convinte - e convinte poiché raggiunte dall'informazione corretta - disposte a lottare. 
Ma i processi cognitivi non sono del tutto razionali. Le persone, generalmente, cercano conferma del proprio sistema di valori. Nessuno ama sentirsi dire che con le proprie scelte sta in realtà partecipando alla violenza sugli animali. Perché nessuno definirebbe sé stesso come una persona violenta in generale. Così, sostanzialmente, quando comunichiamo, nella stragrande maggioranza dei casi, ci troviamo di fronte a un blocco pressoché inespugnabile, che è dato dall'insieme dei pregiudizi e delle menzogne sugli altri animali, dalla necessità del mangiar carne e dalla definizione di noi stessi in quanto specie e in quanto individui singoli. 
Ora, quando qualcuno si trova di fronte a qualcun altro che sta mettendo in discussione tutto ciò, la sua prima reazione è di entrare in una modalità di "congelamento" dei propri canali ricettivi in quanto, ciò che sta ascoltando, primo, non conferma le proprie certezze, secondo, provoca una frattura dolorosa, quella che viene definita dissonanza cognitiva, ossia un indebolimento delle proprie strutture mentali - e della propria idea di sé stesso - che fino a quel momento potevano poggiare sulla sicurezza di un tappeto solido composto dall'insieme di scelte corrispondenti ai propri valori morali. Ciò che disturba di più le persone è sapere di fare cose non in linea con i propri principi morali, tant'è che quando "deviano" dalla propria personale idea di giustizia si danno un gran da fare per cercare tutte le giustificazioni possibili (non avevo scelta, sono stata costretta dalle necessità, l'ho fatto per un fine superiore: è ciò che si racconta chiunque prenda una decisione che non è in accordo con i propri valori più profondi).
La messa in discussione di ciò che si è sempre ritenuto giusto, esige una risposta mentale veloce: prendere atto di aver fatto scelte che si pensavano giuste, ma che non lo erano, e quindi cambiare di conseguenza; oppure, la via più facile, negare e rimuovere la nuova realtà che viene presentata per non scardinare le radici su cui è stata fondata anche la propria identità, dal momento che noi siamo anche quello che facciamo e ci definiamo in base alle scelte etiche e morali che prendiamo ogni giorno.
Per questo non basta raccontare a una persona cosa accade agli animali per riuscire a ottenere una sua presa di posizione immediata. Non è così semplice. Per scalfire credenze così radicate servirebbe, primo, una controinformazione talmente capillare e martellante, paese per paese, piazza per piazza, vicolo per vicolo, giorno dopo giorno e protratta nel tempo da fare in modo che la realtà si sostituisca alla menzogna radicata. Secondo, questa campagna massiccia e capillare dovrebbe comunque arrivare a sostituire quella pervasiva dell'industria che lucra sui corpi degli animali e che trova un terreno fertile di ascolto, non solo per l'enormità di mezzi e forze messe sul campo, ma soprattutto perché è più rassicurante e confortante in quanto conferma e rafforza il sistema di credenze culturali in cui siamo nati e cresciuti.

Poi c'è un secondo ostacolo: vero che l'oppressione sugli animali è sostanzialmente di tipo economico e politico, ma è anche vero che per giustificarla abbiamo dovuto, come specie, inventarci tutta una serie di attributi negativi, funzionali all'oppressione da una parte, e tutta una serie di attributi positivi, funzionali a innalzarci come specie superiore che fa cose giuste, dall'altra. Ora, poiché il nostro cervello è plastico, queste pratiche di oppressione e dominio si sono in un certo senso naturalizzate, ossia sono diventate parte fondante delle nostre strutture identitarie profonde. E per scardinarle serve qualcosa di più di una controinformazione capillare. Se tutto andasse bene, ossia se non avessimo le risposte continue ancora più convincenti dell'industria della carne, ci vorrebbero comunque decenni. 
Quindi stiamo combattendo non solo contro chi lucra sugli animali, ma contro la nostra stessa definizione di umani. E questo è un lavoro che enorme, che, come ho già avuto modo di dire altre volte in passato, è culturale in senso ampio e va fatto senza tralasciare nessun campo delle attività umane.

Due cose vanno fatte: combattere il mostro economicamente, cambiare l'identità individuale e collettiva della nostra specie. 
Come accelerare questo processo, dal momento che ci sono individui che soffrono costantemente e vengono uccisi ogni secondo?

Sappiamo che si è disposti a cambiare più facilmente quando viene meno il consenso sociale. Quando quello che facciamo ottiene giudizi negativi. La collettività cambierà quando sull'atto di addentare una salsiccia si abbatterà lo stigma sociale. Per molti, legalità equivale a giustizia. Penalizzare chi fa certe cose, d'altro canto invece serve a rafforzare lo stigma sociale.

Forse dovremmo iniziare a lavorare di più sul fattore dello "stigma sociale". Sul formare un movimento, anche se in minoranza, che si fa sentire di più e che chiede cose precise. 
Vi racconto un piccolo aneddoto per chiudere: durante l'ultimo presidio NOmattatoio a Passo Corese siamo stati tre ore a osservare, in un forte dissenso silenzioso, il lavoro dei macellai che entravano e uscivano dal mattatoio. Alcuni di loro hanno reagito con rabbia (scherno, derisione, aggressività verbale) perché sapevano che qualcuno li stava giudicando. Per un attimo, nel breve lasso di tempo di una mattinata, qualcuno gli ha mostrato un'altra prospettiva dalla quale osservare le loro azioni. Il fatto che uno di loro, davanti a noi, abbiamo sentito l'urgenza di schernire degli agnellini, significa che per un momento ha comunque visto quegli agnellini per quello che sono, ossia individui e non prodotti. La derisione e lo scherno sono funzionali all'oppressione, giacché non si può opprimere senza svilimento dell'altro. Ma se si sente il bisogno di svilire, significa che l'altro non è ancora del tutto oggettificato. Dobbiamo inserirci lì. Cogliere il tentennamento, l'esitazione e poi rovesciarci sopra tutto il nostro stigma sociale.
Abbiamo avuto fin troppa paura di apparire come moralisti, come fanatici di una setta, come aggressivi, come estremisti. E così abbiamo giocato al ribasso. 
Ora è tempo di alzare la posta in gioco. Non siamo noi che dobbiamo temere lo stigma e l'accusa di estremismo, ma gli altri.

Mi piacerebbe che un giorno i carnisti divenissero, metaforicamente parlando, portatori di una lettera scarlatta sul petto, una lettera di infamia e vergogna per ciò che fanno. Non è moralismo (anche se mi rendo conto che ho usato una metafora estrapolata da un noto romanzo che diceva l'esatto contrario, ma in quel caso a ragione in quanto Hawthorne metteva in guardia dal moralismo del puritanesimo, mentre la mia è una riappropriazione semantica che ne distorce il significato originario), ma battaglia di giustizia sociale perché mangiare i corpi degli animali non può essere definita semplicemente una scelta personale in quanto ci sono altri soggetti coinvolti: le vittime.

Perché temiamo così tanto di essere definiti "giudicanti"? Sì, giudichiamo, ma ci teniamo sempre a specificare che non stiamo giudicando le persone, bensì la pratica di sfruttare e mangia animali. Questo perché altrimenti verremmo tacciati di moralismo, ossia di giudicare qualcuno per ciò che fa e non semplicemente quello che fa, lasciando intatta la sua persona, senza lasciare che venga sfiorata dal giudizio; ciò avviene in parte perché anche noi abbiamo mangiato animali e perché continuano a farlo persone cui vogliamo bene e che stimiamo in altri campi.
E non vogliamo alienarci chi amiamo e dalla società.

In questo modo però continuiamo a scindere e a giustificare, a considerare inferiore la nostra battaglia (tanto che per darle dignità dobbiamo sempre associarla ad argomentazioni indirette e ad altri movimenti di liberazione) e a rafforzare inconsciamente lo specismo. 
Insomma, scindereste una persona nazista da quel che ha fatto? Direste mai, ha fatto una cosa terribile e sbagliata, ma nel complesso era una brava persona? 
Eppure riguardo quello che vien fatto agli altri animali tendiamo sempre a dare troppe giustificazioni, troppe attenuanti. 
A volte servono per strategia, ma spesso le diamo perché noi in primis ci vogliamo autoassolvere per quel che abbiamo fatto e vogliamo assolvere chi ci sta accanto. 
E, soprattutto, ho come il dubbio che lo facciamo anche perché a nessuno di noi piace davvero pensare a quanto schifo facciamo come specie. 
È tutto un prendere le distanze. Tutto un giustificare. Tutto un parlare di redenzione e progresso morale. 
E se fossimo davvero dei mostri? Non tutti, ovvio. Ma il cervello è plastico e a forza di opprimere, mentire, ingannare, mistificare, dominare siamo, di fatto, diventati dominatori, oppressori, assassini. 
Ci sono azioni e pratiche di una gravità talmente enorme che inquinano e contaminano la persona che le compie. L'assassinio è una di queste. La violazione dei corpi altrui è un'altra di queste. Le molestie, le violenze, le torture, le uccisioni non sono azioni come le altre, non sono azioni neutre. Le abbiamo giustificate per troppo tempo perché è ciò che, come specie, facciamo dalle origini. E questo ci fa immensamente paura. Ci fa paura ammettere come siamo.
Temiamo di dire al vivisettore che è un assassino perché se ci guardiamo allo specchio temiamo di esserlo un po' anche noi e quindi giustifichiamo gli altri per giustificare un po' anche noi stessi, dal momento che siamo tutti coinvolti. 
Vorrei che riflettessimo su questo. 
Su quanto siamo indulgenti con gli altri perché proviamo vergogna per ciò che siamo come specie. E questa vergogna la copriamo con una maschera.
Ma è da qui che dobbiamo partire. Dal fare i conti con noi stessi e con quella che, a forza di praticarla (ricordate: il cervello è plastico) è diventata la nostra natura. Non è uno stigma irreversibile. Ma dobbiamo ammetterlo e accettarlo.

Io ho potuto scegliere di diventare vegana e antispecista solo dopo aver provato un'immensa vergogna per ciò a cui, con le mie scelte, stavo collaborando.

La vergogna è il sentimento che ci salverà.

da qui

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