In nome di
Stefano Rodotà, in continuità con i referendum contro la privatizzazione
dell’acqua e dei servizi pubblici locali e, soprattutto, a sostegno delle mille
battaglie in corso per il riconoscimento dei beni comuni, un gruppo di
giuristi (Ugo Mattei, primo firmatario) ha deciso di avviare una campagna di
raccolta di firme (ne serviranno mezzo
milione) per ripresentare sotto forma di proposta
di legge di iniziativa popolare il testo di riforma del Codice civile elaborato
dieci anni fa da una apposita commissione di esperti del ministero di Grazia e
Giustizia e presieduta – appunto – dal professore Rodotà.
Il
Comitato promotore ha indetto la prima assemblea dei sostenitori sabato 19
gennaio, presso la Casa internazionale delle Donne a Roma.
La proposta
di legge originaria, fatta propria dalla Regione Piemonte e ripresentata la
scorsa legislatura da un nutrito gruppo di senatori (primo firmatario Felice
Casson), si è insabbiata nei meandri parlamentari. Intenzione
del Comitato promotore è riaccendere l’attenzione sullo scandalo della svendita
del patrimonio pubblico – l’ultima finanziaria prosegue bellamente su questa
sciagurata strada -, ma vuole anche indicare le modalità giuridiche per
giungere ad una gestione alternativa alle leggi del mercato dei beni e dei
servizi di interesse sociale e collettivo.
L’idea di
Rodotà e del gruppo di giuristi che lo seguirono era quella di modificare il
Codice Civile risalente al regime fascista e più vicino nei contenuti ai Codici
napoleonici che non alla Costituzione italiana. Attraverso
una nuova classificazione dei beni verrebbero rafforzati i vincoli di
inalienabilità e di destinazione d’uso dei beni pubblici demaniali: sia quelli
necessari allo stato e agli enti territoriali per svolgere i loro compiti
istituzionali, sia quelli funzionali al soddisfacimento di interessi
collettivi, sociali e civili dei cittadini. Quindi, le infrastrutture, gli
ospedali, gli edifici pubblici, le reti locali di pubblico servizio, l’edilizia
residenziale pubblica ed altro ancora che Parlamento e Governo potranno
indicare. Inoltre, la vera innovazione prevista dalla legge è l’introduzione
nell’ordinamento giuridico della nuova categoria dei “beni comuni”, ossia:
“cose che [a prescindere dal titolo di proprietà a persone giuridiche pubbliche
o private] esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali,
nonché al libero sviluppo della persona”. A titolo esemplificativo la legge
Rodotà indicava come beni comuni le risorse naturali, le acque, i boschi, la
fauna e la flora selvatiche, i beni archeologici, le zone paesaggistiche e
altro ancora.
In tal modo
si alzerebbe un argine alla “messa a reddito” del patrimonio pubblico e si
aprirebbe una varco attraverso il quale le
innumerevoli esperienze di rigenerazione in atto in molti luoghi d’Italia di
immobili dismessi e di aree agricole abbandonate potrebbero trovare una chiara
soluzione giuridica.
Già molti Comuni e alcune Regioni hanno inserito la
nozione di “beni comuni” nei loro statuti e regolamenti amministrativi. Per gli “usi civici” e le antiche
proprietà collettive il riconoscimento è avvenuto con la legge sui Domini
collettivi del novembre 2017. Altre esperienze di gestione diretta da parte di
gruppi di cittadini di immobili di proprietà pubblica sono state possibili
grazie all’utilizzo dell’art. 118 della Costituzione modificato con
l’inserimento della “sussidiarietà orizzontale”. Le iniziative sicuramente più
avanzate sono state quelle dell’amministrazione comunale di Napoli che ha proceduto alla
ripubblicizzazione dei servizi idrici e alla gestione diretta di altri servizi
comunali ed ha approvato una serie di delibere che individuano numerosi
complessi immobiliari autogestiti dalle collettività locali, le comunità
afferenti degli abitanti che li utilizzano.
Una legge
nazionale sui beni comuni risolverebbe molti contenziosi e darebbe uno
strumento decisivo nelle mani dei movimenti che si battono contro la
speculazione urbana e fondiaria e tentano di praticare una rigenerazione con
modalità condivise e solidali del patrimonio abbandonato o male utilizzato,
pubblico o privato che sia. Ricordando che la Costituzione italiana (articoli
41, 42, 43) riconosce il diritto di proprietà privata solo se “assicura
una funzione sociale”. Mentre invece
il Codice civile del 1942 ancora in vigore stabilisce che: “Il proprietario ha
il diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo” (art. 832). Forse
è giunto il momento cambiare!
Più ancora,
ritengo che riaprire il dibattito sul concetto di
beni comuni, far entrare la nozione dei commons nell’agenda
politica italiana avrebbe un grande valore anche culturale. I beni
comuni, infatti, prima di essere delle “cose”, dei beni e dei servizi, indicano
un principio generale di organizzazione della società fondato su relazioni
solidali orientate alla reciprocità e alla mutualità. Il riconoscimento dei
beni comuni sottende un progetto politico di fuoriuscita dal dispotismo
proprietario, dall’individualismo egoista, dall’economicismo che
nell’ubriacatura liberista ha guidato anche le politiche economiche
pubbliche. I beni comuni, prima di essere una
formula giuridica per indicare un’appartenenza collettiva e una condivisione
non escludente dei benefici dovuti all’uso di determinati beni, sono una sfida
alla mercificazione di ogni cosa.
Certo, la classificazione più o meno estensiva
dei beni comuni aprirà non poche controversie, anche tra di noi. Così
come la definizione delle modalità di gestione e del grado di coinvolgimento
delle comunità afferenti. Ma sarà un bel dibattito, perché finalmente giuristi,
ecologi (pensiamo ai beni e ai servizi ecosistemici), sociologi e filosofi
(pensiamo a qual è il valore simbolico che attribuiamo alle cose) potranno
finalmente contendere agli economisti il monopolio della decisione politica.
Come ebbe a scrivere Stefano Rodotà:
“I beni
comuni sono una sfida ai dati fondativi della modernità: la proprietà e la
sovranità”.
Come dire,
la rottura della gabbia d’acciaio che ha impedito alle persone di
autodeterminare i propri comportamenti e di scegliere i sistemi di governo comunitari.
I prossimi sei mesi utili per la raccolta delle
firme potranno quindi costituire l’occasione per tornare a parlare di una
diversa idea di società.
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