Tra i motivi
di tensione nella Repubblica democratica del Congo ce n’è uno di cui poco si
parla. Si tratta di un grande progetto idroelettrico: una mega diga sul fiume
Congo, pensata per produrre ed esportare energia in tutta l’Africa. Però farà
trentasette mila sfollati, secondo i progetti ufficiali, e toccherà anche molti
che vivono a monte e a valle. La storia della diga Inga 3 è esemplare, in
negativo.
La
centrale idroelettrica Inga 3 è progettata in una zona di
cascate spettacolari nel
basso bacino del fiume Congo, circa 225 chilometri a sud-ovest della capitale
Kinshasa, per generare 11 mila MegaWatt di energia elettrica. Se ne parla
da almeno un decennio, e nei piani del governo (quello del presidente
uscente Joseph Kabila) rientra in un progetto più ampio di centrali
idroelettriche chiamato Grand Inga.
Per il
governo è un’opera indispensabile per lo sviluppo dell’economia
congolese, in particolare per sconfiggere la penuria energetica che
limita la crescita dell’industria mineraria (la Rdc è il maggiore produttore
mondiale di rame e il secondo produttore di cobalto, minerale la cui domanda
mondiale sta schizzando in alto da quando è usato nelle batterie delle auto
elettriche).
L’inizio dei
lavori al progetto Inga 3 è imminente – o almeno così è stato detto quando
nell’ottobre 2018 il governo della Rdc ha firmato un accordo esclusivo con un consorzio
sino-cinese (la parte cinese è guidata dalla China Three Gorges Corporation e
Power China, quella spagnola da Actvidades de Construccion y Servicios SA e AEE
Power Holding). La costruzione costerà 14 miliardi di dollari – salvo lievitare
come spesso accade per simili grandi opere.
Per gli
abitanti di Inga però la nuova diga non promette nulla di buono. Il fatto è che i futuri
sfollati «non hanno dove andare», spiega Rudo Sanyanga, attivista di International Rivers (organizzazione internazionale
per la salvaguardia dei fiumi), che ho incontrato di recente a Johannesburg, in
Sudafrica, durante una sessione del Tribunale permanente dei popoli sul potere delle
multinazionali estrattive nell’Africa meridionale. Sanyanga spiegava che
né il governo né le imprese costruttrici hanno mai fatto un vero
studio dell’impatto ambientale e sociale del progetto Inga 3, e non c’è alcun
piano per risistemare e risarcire le 37 mila persone destinate a sloggiare per
fare posto al cantiere e al lago artificiale. Nessuno è stato informato, tanto
meno consultato.
Se gli
abitanti hanno una vaga idea di come la diga cambierà la loro vita, è perché
l’hanno già visto. Infatti,
molti dei villaggi della zona interessata erano già stati sfollati dalle prime
due dighe costruite in quella zona del fiume Congo: Inga 1 (nel 1972) e Inga 2
(1982). Allora gli sfollati hanno avuto poco o nulla per
compensare le case e la terra che hanno perso. Comunità che vivevano di
agricoltura e di pesca sono rapidamente precipitate in quella che alcuni
chiamano “povertà indotta dallo sviluppo”.
Lo spiegano
bene le testimonianze sentite a Johannesburg: «Abbiamo dovuto abbandonare la
terra. Avevamo buona terra, rendeva bene, facevamo diversi raccolti di fagioli
e potevamo venderne al mercato: ma questo era prima di Inga 1. La terra che ci
hanno dato in cambio non è buona, ed è molto lontano da dove abitiamo. Vivere
della terra ormai è molto difficile”, ha spiegato una donna. Anche la pesca è
crollata, perché la diga ha distrutto i luoghi più pescosi. La diga ha creato
lavoro? «Quando hanno cominciato a costruire Inga 1, i reclutatori giravano nei
villaggi di tutta la regione per cercare uomini che lavorassero nel cantiere»
spiega un’altra testimone, Angelique: lei è nata a Inga perché suo padre era
uno di quei lavoratori. «Ma è stato un lavoro temporaneo, perché finita la
costruzione i nativi sono stati messi da parte, la centrale idroelettrica da
lavoro solo a gente qualificata che viene da fuori». Solo che ormai erano là, e
ci sono rimasti.
In questa
discesa nella povertà di solito sono le donne a garantire la sopravvivenza delle famiglie, spiega
Blandine Bonianga dell’organizzazione Femmes Solidaires. «Si inventano
piccolissime attività, ad esempio prendere verdure a credito e poi rivenderle
al mercato, ricavando un minuscolo surplus che permetterà loro di comprare del
cibo per la famiglia. Altre vanno a cercare tra gli scarti nel posto
peschereccio per tirare su qualcosa da cuocere. Si occupano dei malati, dei
vecchi. È questo lavoro invisibile delle donne che permette alle famiglie di
tirare avanti, mentre gli uomini sono disoccupati».
Racconta di
donne che si alzano prima dell’alba per andare ad attingere acqua, preparare la
colazione ai bambini, poi camminare chilometri per andare a lavorare i piccoli
campi avuti in risarcimento prima di tornare a occuparsi della cena.
«I nostri
villaggi non hanno tratto nessun vantaggio dallo sviluppo», dice Bonianga: «Ora
tutti temono che la nuova diga, la terza, peggiorerà tutti i problemi».
Inga 3
infatti allagherà un’ampia zona di terra molto fertile. Di nuovo, gli abitanti
perderanno case, campi da coltivare, zone di pesca; saranno ricollocati chissà
dove, col rischio di perdere l’accesso ai servizi essenziali e al mercato
del capoluogo. «Ora viviamo nell’incertezza. Gli abitanti non sanno cosa
succederà, né quando cominceranno i lavori, né dove andranno»,
continua Bonianga: «La preoccupazione di tutti è il diritto alla terra. Perché
terra significa non solo raccolti e mezzi di sussistenza; per noi è in pericolo
anche la convivenza, il tessuto sociale, la nostra cultura».
I cittadini
della Rdc pagheranno il prezzo della mega-diga anche in un altro senso. Per costruire Inga 1 e 2 e
inseguire i suoi sogni grandiosi, il governo dell’allora presidente Mobutu si
era fortemente indebitato. La Rdc (allora si chiamava Zaire) è entrata in
una crisi del debito che ha comportato aggiustamenti strutturali, taglio della
spesa pubblica, mancato investimento nello sviluppo sociale. Per ironia, le
dighe Inga 1 e 2 producono meno della propria capacità, causa la cattiva
gestione. Del resto, l’84 per cento degli abitanti della repubblica democratica
del Congo non hanno accesso all’energia elettrica – neppure i villaggi della
regione di Inga hanno corrente elettrica.
La nuova
Inga 3 però non porterà luce elettrica agli abitanti della regione. L’energia
prodotta è destinata più che altro alle zone minerarie e soprattutto
all’esportazione. Anzi, da quando nel 2016 la Banca Mondiale si è ritirata dal
progetto (citando la mancanza di trasparenza e interferenze da parte
dell’ufficio di presidenza della Rdc), il governo ha ridisegnato il progetto
per farne una fonte di energia da esportare. Così oggi il progetto Inga 3 è appeso
a un accordo con il Sudafrica, che si è impegnato a comprare circa 2.500 MW
(cosa che implicherà costruire gigantesche linee di trasmissione della corrente
elettrica). Il trattato Rdc-Sudafrica ha permesso al governo congolese di
rassicurare potenziali investitori sulla fattibilità del progetto. Resta però
da definire il Contratto d’acquisto, che stabilirà quantità e tariffe.
La
fattibilità economica del progetto Inga 3 è molto discussa (come ben sintetizzano i dossier di International Rivers). I critici
sottolineano il rischio finanziario per il paese. Molti nella Rdc sostengono
progetti alternativi: una diga più piccola in ogni regione della paese
servirebbe molto meglio a dare energia ai congolesi (ma non è il genere di
progetto che attira i grandi investitori). Molte organizzazioni sociali
congolesi, gruppi di donne come Femmes Solidaires, organizzazioni per la
giustizia ambientale, stanno conducendo una campagna per fermare il progetto
Inga 3. Chiedono di fare pressione sul Sudafrica perché ritiri il suo impegno;
hanno inviato petizioni alla Corte africana per i diritti umani in nome delle
decine di migliaia di futuri sfollati. Rivendicano il diritto a scegliere che
tipo di sviluppo sia meglio per il paese. Rivendicano il diritto a dire di no a
un’opera di cui pagheranno tutti i costi, senza vedere benefici.
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