In sei ore
ne capitano di cose, stando insieme. Raramente nella nostra vita privata
dobbiamo stare nella stessa stanza con qualcun altro ore e ore, senza pause.
Oggi è tale la paura che un ragazzino si spacchi il naso durante un intervallo
che certi dirigenti scolastici addirittura vietano di fare l’intervallo nei
corridoi e negli atrii! Chiusi in classe! Oppure spuntano cartelli di VIETATO
CORRERE! VIETATO USARE IL CELLULARE! VIETATO FUMARE! (questo diventa attuale
ormai dalle classi terze della media, dove i maschi credono di farsi fighi
svapando nei bagni…). La mia innata propensione alla provocazione mi spinge più
volte a voler appendere qualche altro cartello, tipo: VIETATO RIDERE! VIETATO
ABBRACCIARSI! VIETATO STARE BENE! Lo so lo so, i pericoli ci sono: a me in
prima media hanno spaccato il naso; resta uno dei rari ricordi della mia
infanzia; immenso atrione alla scuola media Majorana; orde di classi mescolate,
scatenamento scimmiesco generalizzato; un tizio con rincorsa salta in groppa a
un altro tizio che mi precipita sul naso con la tempia; svengo, e quando riapro
gli occhi vedo il mio sangue per terra dappertutto; risvengo, e quando mi
sveglio in pronto soccorso un medico cerca di raddrizzarmi con i pollici il
naso. Ne so qualcosa, ma niente è più difficile che spiegare ai bambini, ai
ragazzi, e agli adulti l’inesorabile concatenazione di causa-effetto. Niente da
fare. Respiro tutt’ora con una narice alla volta, e ho troppa paura di farmi
operare al naso.
Quindi,
capisco che un dirigente scolastico tenda a trasformare una scuola in un
carcere di massima sicurezza: prevenire, proibire, visto che al punire ci sono
ancora poche alternative e non si può più. Ma ogni passo che facciamo nella
direzione di bloccare i loro corpi ne facciamo uno indietro lontano
dall’affettività; se loro non possono correre, noi non possiamo toccarli. Guai
se un professore sfiora con il suo corpo un allievo! Chiunque può denunciarti
per pedofilia, se gli dai una carezza sulla nuca (spesso infestata di pidocchi)
o per violenza sui minori se lo allontani con energia dalla zuffa con un
rivale. Se oggi dovessimo osservare ogni possibile effetto accidentale o legale
di un nostro comportamento in una scuola potremmo tranquillamente passare alle
videoconferenze in assenza. A che serve il mio corpo di prof in una scuola o in
una classe se non posso camminare con loro, abbracciarli se piangono, dare una
pacca sulla spalla se stiamo ridendo, spingerlo lontano se si sta
schiaffeggiando? Se devo restare una voce che “fa la lezione” e enumera
le regole e le proibizioni passiamo pure alla robotizzazione: ce ne stiamo a
casa e ci colleghiamo in videodiretta mentre qualche domatore mantiene i loro
corpi zitti e muti in classe.
Detta così
sembra che la scuola sia un posto tristissimo. Ma effettivamente i ragazzi
ridono. In continuazione. Non ridono per niente entrando, poi in inesorabile
drop techno ridono in classe durante la lezione, ridono a crepapelle uscendo. Non
è piacevole stroncare una risata in un ragazzino e sistemare l’apprendimento
nella colonna delle non-risate. Un altro ricordo della mia scuola media è
appunto quello delle risate (a crepapelle spesso) che ci facevamo in classe. In
seconda media eravamo solo due piemontesi: la scuola media Ippolito Nievo aveva
appena fatto ingresso nella nuovissima e quasi bella sede in Largo Mentana, in
zona pre-collinare, che oggi è ovviamente una scuola piuttosto chic. Ma quello
era il primo anno in cui la vecchia sede vicino alla stazione centrale di Porta
Nuova, fatiscente, era stata definitivamente chiusa. 20 studenti su 22 in
quella seconda (beh, sì, dopo la rottura del naso avevo cambiato scuola…) erano
figli di immigrati italiani meridionali. Usai e Palladino erano multiripetenti;
erano altissimi, giganteschi rispetto a noi, e almeno Usai per me era un figo
assoluto: aveva capelli lunghi sino alle spalle e fumava. Palladino era meno
figo ma facevano coppia. Durante l’ora di Tecnologia una volta con metodica
lentezza avevano cominciato ad impilare tutte le sedie della classe, mentre il
povero prof urlava a squarciagola vietandoglielo. La pila cresceva… era
diventata una piramide… altissima… quindi? A un certo punto Usai prende la
sedia più sotto… e la strappa via! Un boato spaventoso! E io, Franti, risi.
Ridevamo tutti. E Usai e Palladino si presero l’ennesima nota.
Se un mio
allievo oggi provasse a fare una cosa del genere non riderei proprio. Quindi,
quello che fa ridere un ragazzino quasi mai fa ridere un prof. Li trovo
stupidini e scemini, ma non posso dirlo se no sono anti-pedagogico eccetera. Ma
quando sono lì, tutto socratico che cerco di condividere con loro (non si dice
più “fare lezione”, loro dicono “il prof ci spiega”) il tema dei Paesi ricchi e
di quelli poveri nel mondo, quando cerco di attirare la loro attenzione
spiegando che colonialismo imperialismo e guerre non sono che la versione
statale della prevaricazione o del bullismo che loro quotidianamente possono
agire o subire come individui, e ne vedo 2-4-6 che tra di loro ridono per
Dio-sa-solo-cosa, a me non vien da ridere e devo cercare di non arrabbiarmi. Mi
sento offeso! Sì, certo! Ragazzi, 80 anni fa mio padre per andare a scuola ha
dovuto lasciare il suo villaggio di montagna e scendere in città, oggi avete
l’istruzione gratuita e in classe ridete? Allora, invece di urlare, mi offendo
e sto zitto e li guardo. Un minuto, due minuti, tre minuti… qualcuno comincia a
urlare “state zitti!” e per ora si arriva ancora agli ultimi due o tre che nel
silenzio dicono una sciocchezza, ridono, si guardano intorno, e hanno la vaga
sensazione di essere fuori dal coro. E tacciono, e mi guardano.
Le uniche
volte in cui ridono per qualcosa che dico io è quando acchiappano un doppio
senso volgare. Huda non ha il libro, come al solito, e io sto facendo leggere a
turno. Sekou il libro ce l’ha, ma è uno di quelli che ridacchiano perché quando
vuole leggere legge così male che si vergogna e non va oltre una frase. Allora
Huda – che quando smette di litigare con Mwaka vuol farmi vedere che oltre che
carina è pure brava - vuol leggere. Ma Sekou, visto che lei civetta e si
punzecchia e si dà schiaffetti con Mwaka e non con lui, non vuol condividere il
suo libro con lei manco morto. Allora Huda mi urla “prof! Sekou non mi fa vedere
il suo libro!” e quando io dico “Sekou , faglielo vedere!” viene giù la classe
dalle risate. Maschi e femmine. Vabbeh, mi scappa un sorriso quando arrivo
anch’io a quel punto al doppio senso. Grazie al cielo suona l’ultima
campanella.
Devo trovare
il modo di ridere con loro.
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