È il 27
gennaio del 2019. Siamo ad Auschwitz,
nella data giusta, per valore del ricordo e, soprattutto, del riverbero che
quest’ultimo dovrebbe avere nella nostra vita. Dove il suddetto verbo,
perdonate la ripetizione, non dovrebbe essere al condizionale. Ecco, è tutta
una questione di tempo, questa nostra comune vicenda che tutti ci lega, dei
verbi come delle storie.
È notte fonda e Claudia è in giro anche stavolta, come spesso le capita. A sedici anni
non è una buona cosa stare fuori fino a tardi, lamenta la nonna, ma è messaggio
che si fa labile, una volta giunto alle orecchie della ragazza.
Da quando i
genitori sono scomparsi in un maledetto incidente d’auto, avvenuto tre anni
addietro, la notte è la sua scenografia preferita, è il colore ideale per
tinteggiare le pareti della sua immaginazione ferita, è la madre che tutti
accoglie e nell’equa oscurità non fa distinzione alcuna tra umano e umano.
Nondimeno,
non è in giro per far danni o per trasgredire qualche regola. La giovane è
semplicemente convinta che le cose più importanti, come la verità e l’amore,
alla stregua dei quadri più riusciti, meritino la luce migliore. Quella della
notte, già.
Così,
malgrado avesse ascoltato attentamente il racconto della guida, insieme agli
studenti presenti alla lodevole visita al campo di concentramento, non ha
resistito al bisogno di osservare i resti dell’abominio
legalizzato con la personale cura.
Non fa tanto
freddo quanto credeva, si dice scendendo dalla bicicletta temporaneamente presa
in prestito, dopo averla già adocchiata nel pomeriggio, al rientro in albergo
con i compagni. Così, avanza
lentamente, assaporando con avidità il silenzio che quella terra esige,
così come uno sguardo ampio e pronto a registrare ogni cosa, prendendo nota di
ciascun dettaglio.
Sarà per
colpa dell’atmosfera lugubre, o forse della sua macabra fantasia, nel tempo
nutrita da quantità industriali di letteratura gotica e film horror, improvvisamente un rumore sinistro
raggiunge le sue orecchie.
Quindi,
magari proprio per la naturale predisposizione a tali inammissibili
apparizioni, Claudia non batte ciglio e anzi avanza
incuriosita scorgendo i fantasmi che in massa avanzano verso di lei,
emergendo in ordine sparso dai casolari abbandonati nel campo. Poi, a un
tratto, si fermano tutti al cancello, evitando accuratamente di oltrepassarlo.
La ragazza, tutt’altro che impaurita, si avvicina, come se si trovasse davanti
qualcuno che conosce da tempo.
Capita
sovente a coloro i quali hanno incontrato la morte degli intimi affetti da
troppo giovani.
“Voi siete
le anime delle vittime, vero?” chiede rivolgendosi a un ragazzo più o meno
della sua età, nell’aspetto. “Sì”, fa lui, accompagnando la parola con il
movimento in avanti del capo. “So che serve a poco, ormai”, mormora la
ragazzina, “ma voglio dirti che mi dispiace tantissimo per quello che vi è
successo”. “Grazie”, fa lo spettro dalle giovanili fattezze. “Ma dimmi,
piuttosto, com’è adesso il mondo, là fuori? La guerra è finita? Siete in pace, ora? Chi governa
sulla terra?”. Claudia ha come l’impressione di non essere la prima a cui
costui rivolge quelle domande. E difatti, solo in quel momento, si accorge che
tutti gli altri la stanno fissando, ansiosi di conoscere la sua risposta.
Sebbene si
renda conto della notevole responsabilità che le tocca, capisce anche che ormai ha l’obbligo di
parlare. Perché è questo che chiedono i caduti, soprattutto coloro rimasti
ingiustamente indietro. La nostra voce, la nostra onesta e consapevole
voce. “La guerra è stata vinta dagli Stati
Uniti, il cui attuale presidente ha spaccato la nazione a metà come mai
prima. Minaccia ogni giorno i paesi, le persone e le culture che non gli
piacciono, e vuole costruire un muro tra il Nord America e il Messico”.
“E la Russia?” la incalza il ragazzo.
“È guidata da un uomo che dimostra di non avere alcun rispetto per i diritti
umani e per la democrazia, mentre il suo governo, come quello degli USA, si
intromette nelle elezioni straniere sistematicamente, per dividere e creare
caos a suo vantaggio”.
“Vai
avanti”, esclama il fantasma di una donna accanto al ragazzo. “Perdonate”, fa
Claudia sentendo i propri occhi farsi umidi. “Scusatemi
davvero, vorrei darvi buone notizie. Vorrei dirvi che i nazisti non ci sono
più, ma non è così. Sono ovunque, hanno facce diverse, modi nuovi di
parlare, e in alcuni Stati siedono perfino in parlamento. E malgrado usino
altri nomi e altri simboli, il loro messaggio razzista e disumano è lo stesso.
Alcuni sono al governo del mio paese, oggi, come in Austria… sì, proprio dove è nato
lui, ma anche in Ungheria e pure in Brasile. Perfino qui in Polonia… sì, lo so, è folle, è
incredibile, ma è tutto vero. Questa è la vera assurdità, non i fantasmi
innanzi a me, con cui sto parlando in questo momento, bensì la realtà che c’è
alle mie spalle”.
“E gli ebrei?”. Chiede un vecchio
dal fondo della folla. “Sono ancora perseguitati?”. “No, ma ogni epoca ha le
sue vittime preferite. Oggi sono i migranti”. “Chi
sono i migranti?” domanda il ragazzo. “I migranti sono esseri umani che
vengono discriminati e umiliati, sacrificati e strumentalizzati, uccisi o
lasciati morire, proprio come è accaduto a voi”. “Se non sono ebrei”, chiede un
bambino facendosi largo tra il ragazzo e la donna. “Di
cosa li accusano?”. “Di
essere ciò che sono, ovvero migranti, gente che tenta di sopravvivere al
meglio lasciando la propria terra per quella nuova”.
“Ma gli
ebrei sono arrivati nella terra promessa?”. “Non tutti, ora sono sparsi per il
mondo, ma quelli che sono in Israele vivono sotto un governo che fa di tutto
per essere in guerra con il più vicino e, malgrado ciò che entrambi gli
schieramenti sostengano, maggiormente simile popolo sulla terra, ovvero i Palestinesi.”
Claudia non
ha quasi più fiato e la voce è stremata dal pianto che con fatica ha
trattenuto. Non ho diritto di mostrare lacrime di fronte al dolore di costoro,
si è detta per darsi forza.
“Ma uscite
da qui”, aggiunge un attimo dopo. “Siete liberi, ormai”. “No”, risponde
immediatamente e con strenua fermezza il ragazzo, parlando anche a nome degli
altri. “Noi siamo liberi, ma voi non lo siete
affatto. E di fronte all’immane tragedia che è accaduta qui avete fatto
la scelta peggiore”. “Quale?”. “Sull’altare delle offerte a vostra
disposizione, da un lato c’eravamo noi, i morti e le nostre illuminanti storie
da cui trarre insegnamento e dall’altro il campo stesso, con i suoi strumenti
di tortura e i suoi ottusi recinti. E voi avete scelto di far sopravvivere
quest’ultimo”. Ora siamo noi nel
campo, pensa Claudia, non voi.
Quindi, come
se fosse la cosa più naturale del mondo, attraversa la soglia e si unisce ai
fantasmi. C’è ancora tempo prima che farà giorno,
c’è tempo per tornare all’albergo, c’è tempo per ascoltare e capire ancora di
più di quel che abbiamo perso. Perché, malgrado tutto, per nostra
fortuna, anche se non sarà per sempre. Siamo
ancora in tempo.
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