Si potrebbe
pensare che l’immiserimento della natura abbia riflessi anche
sull’immiserimento della lingua. Oggi le immagini, le parole, i ritmi non sono
più suggeriti dalla Natura, ma dalla Rete. E così abbiamo una lingua e una
politica che sa di chiuso. Bello sfuggire alla tentazione dello sguardo apocalittico
sull’Italia di oggi. Bello cercare i
luoghi che non sono stati riempiti, i luoghi che non interessavano a
nessuno, quelli poveri, impervi, fuori mano. In questi luoghi l’Italia si dà
ancora. E allora ti puoi stupire guardando il
muso delle vacche nel bosco di Accettura, guardando un vecchio in un orto del Salento o un contadino che ara in un pomeriggio
sardo. Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o
di denuncia. Andare in giro,
guardare come cambiano città e paesi, Torino oggi è molto diversa da
come era negli anni settanta, l’Aquila è una città doppia: la città dei
monumenti e quella delle rovine. E doppia è anche Taranto, città di mare
circondata dalla città dell’acciaio. Nel guardare l’Italia tenere insieme
l’occhio di Leopardi e quello di Pasolini, il Pasolini che teneva insieme
Casarsa e Caravaggio, quello che scrisse nel 1959 La lunga strada di sabbia, un viaggio costiero da
Ventimiglia a Trieste, un atto di amore verso un’Italia dalle cento province
non ancora devastata dal “genocidio culturale” che ha prodotto il paesaggio italiano che
attraversiamo adesso.
Non mi piace
l’Italia costruita negli ultimi decenni, quella delle città, ma anche quella
dei paesi. Mi irrita vedere tante case sparse nelle campagne. E non mi
piacciono neppure i paesi imbellettati, quelli con le pietre finte, quelli che
non sono paesi, ma trappole per turisti.
L’Italia che
cerco è quella che sa di Italia e di altrove. Penso ad Aliano, ai suoi calanchi
che mi fanno pensare all’oriente. Mi piace molto l’Italia ionica. Mi piacciono
i paesi che hanno un residuo arcaico, un nodo che non si è fatto rovistare
dalla modernità incivile.
Sto male
negli areoporti, tutta quella gente che crede di andare chissà dove, non mi
piacciono neppure i silenziosi viaggiatori della
freccia rossa, l’Italia che fila dritta e ignora il canto, ignora che la
vita prende spazio quando sbaglia, quando s’incaglia.
Mi piace incontrare i vecchi dei paesi. Sto bene
quando li ascolto. Non credo
di avere più strada e più di futuro di loro. Il mio secondo è sempre in bilico,
nessun attimo in me ha una fiducia assoluta, è come se dovessi ogni giorno
patteggiare col tempo un altro poco di tempo. Nel mio girare per l’Italia non
perdo mai di vista il corpo. È il corpo che guarda, è il corpo che prende
avvilimenti ed euforie, è il corpo che incontra gli altri o li sfugge.
Mi
piacerebbe vivere in un’Italia in cui la maggioranza sia fatta di percettivi e
non di opinionisti. Non mi piace
l’Italia che si è seduta sui divani, quella che guarda la televisione,
che va in pizzeria, che tiene il bicchiere in mano davanti al bar, l’Italia dei
giovani che prendono la notte a branchi, i giovani che mettono in posa
compagnie che non hanno, vicinanze che non ci sono.
Gli Italiani
che amo sono quelli che mettono assieme poesia e impegno civile, malinconia e
ardore, indugio e frenesia. Abbiamo
bisogno di creature rivoluzionarie, non di manovali del rancore. Non mi
piacciono gli scoraggiatori militanti, i luminari del disincanto, i piromani
dell’entusiasmo. Mi fa schifo il sentire stitico, il rimanere rigidi perfino
nel calarsi.
Non credo al
centro, non credo ai potenti, ai famosi. Credo che il successo sia una forma di
sventura, che rovina la pace e la lingua. Mi interessano i paesi e le persone
arrese. La resa che non sa di rassegnazione, ma qualcosa che somiglia alla
disperazione senza sgomento di cui parla Giorgio Caproni.
Abbiamo bisogno di un’Italia attenta alle cose che
coltiva, attenta a quello che accade nelle scuole, negli ospedali. Un’Italia che sa ammirare e sa
essere devota, alta e libera, e non laida e meschina.
Credo che
non dobbiamo aspettare niente, non dobbiamo aspettarci niente. Nessuno ce la
regala l’Italia che vogliamo. Bisogna andare avanti in quello che c’è, sentire la terra sotto i piedi, sapere
che ovunque c’è aria e ci sono gli alberi, e c’è tanto da guardare.
A me più di
tutto danno fiducia questi due gesti: guardare e camminare. Mi pare che
possiamo accedere a una qualche forma di grazia fino a quando possiamo guardare e camminare.
Abbiamo
bisogno di immettere un po’ di sacralità nella nostra immiserita compagine
civile. Non si può andare avanti col gioco del
consumare e del produrre. La letizia può arrivare solo dall’amore e
dall’immaginazione, viene quando non esci ai caselli stabiliti, ma ti apri
all’impensato, sfuggi anche ai tuoi progetti, alle tue mire. Essere umani in un
tempo autistico e vorticoso è un mestiere molto difficile. Non ci sono rotte
definite, te le devi costruire attimo per attimo, devi cucire e strappare nello
stesso tempo, devi capire che stiamo guarendo e stiamo morendo, stanno
accadendo le due cose assieme.
Abbiamo
bisogno di stare in ginocchio, di pregare, abbiamo bisogno di pensare a Dio,
alla morte, alla poesia. Non sono pensieri da poeti, sono pensieri utili per
essere buoni cittadini, semplici essere
umani che passano il tempo dentro il tempo, che filano la vita per fare
un vestito che indosseranno altri.
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