Le proposte
della comunità scientifica e della società civile
per un’Italia a zero emissioni e zero veleni
Nell’ultimo
secolo si è imposto e perfezionato un modello di sviluppo mirato unicamente
alla crescita economica e all’accumulazione di profitto con una
caratterizzazione meramente quantitativa.
Ciò che
conta è far crescere il Pil il più possibile, controllare il più possibile le
risorse naturali, produrre in maniera intensiva abbattendo il più possibile i
costi ambientali e del lavoro, consumare il più possibile, smaltire
risparmiando il più possibile.
Questo
sistema ha determinato conseguenze disastrose per la vita del pianeta e delle
comunità umane e ha inasprito le diseguaglianze concentrando la ricchezza in un
sempre minor numero di mani. Il mondo appare oggi diviso in due: da un lato chi
si arricchisce, appropriandosi di risorse e ricchezze senza limiti; dall’altro
chi paga il conto, risultando espropriato di ogni diritto.
Alle
emergenze sociali prodotte si somma una crisi ambientale globale pervasiva e
allarmante: esaurimento progressivo delle risorse, cambiamenti climatici, alti
livelli di contaminazione delle matrici ambientali, gravi impatti sanitari
sulle comunità esposte.
Tale crisi,
diretta conseguenza dell’attività predatoria dell’uomo sul pianeta, è la
plateale rappresentazione del fallimento delle scelte politiche dei governi a
tutti i livelli: non è esternalità casuale, degenerazione di un processo
virtuoso, ma diretto prodotto dell’insieme delle scelte messe in campo, del
quadro delle priorità inseguite, del modello di produzione scelto.
Le politiche
attualmente in campo in termini di sfruttamento delle risorse naturali, di
produzione, consumo e smaltimento degli scarti sono del tutto incompatibili con
ogni istanza di giustizia ambientale, sociale e democratica.
Il nostro
Paese si inserisce perfettamente in questo quadro e ne è attore protagonista:
nonostante gli impegni assunti dai governi in sede europea e internazionale,
l’intera economia italiana risulta ancora fondata su principi di
insostenibilità: il modello energetico è basato in larga parte sullo
sfruttamento di fonti fossili; il modello produttivo è fondato su un sistema
lineare di sfruttamento dell’uomo e della natura; il modello infrastrutturale è
ostinatamente ancorato alla necessità di costruire grandi opere impattanti e
dalla dubbia utilità, la cui principale ratio è la distribuzione clientelare di
appalti; il modello di gestione dei rifiuti è costruito sull’assunto che
l’incenerimento sia parte fondante del processo; il modello sanitario è legato
a una visione in virtù della quale si cura (poco e male) chi è malato senza
immaginare meccanismi di prevenzione primaria; i processi decisionali risentono
di una progressiva tendenza all’accentramento, spogliando le comunità locali e
i cittadini di ogni possibilità di consapevole e attiva partecipazione.
Per queste,
e per molte altre ragioni, la risposta alla crisi ambientale non può e non deve
essere esclusivamente appannaggio della rappresentanza politica e dei soggetti
economici privati ma è necessario innescare un meccanismo collettivo di
ripensamento della società nella sua integralità: c’è bisogno di un’alleanza
tra società civile e comunità scientifica che si ponga l’obiettivo di
immaginare un paradigma alternativo di sviluppo e di dotarsi degli strumenti
per realizzarlo.
Abbiamo
moltissime urgenze sulle quali lavorare, e altrettante proposte per farlo.
La
costruzione di una società ecologica non è più soltanto una necessità ma
un’urgenza.
I DIECI
PUNTI
1) Modello
energetico
La
produzione energetica in Italia è ancora primariamente concentrata sullo
sfruttamento delle risorse fossili, con un aumento negli ultimi anni di nuovi
progetti di ricerca ed estrazione di petrolio e gas in terra e in mare. Il boom
delle fonti rinnovabili, spinto dalle discutibili politiche incentivanti
2004-2013, si è arenato sotto il peso di un drastico taglio alle agevolazioni e
di un quadro riferimento normativo ostile, opaco e instabile. Di contro,
continuano a essere incentivate dai fondi le fonti fossili per 14,7 miliardi di
euro l’anno. Inoltre, una transizione energetica orientata al contrasto
ai cambiamenti climatici, alla sicurezza di approvvigionamento e alla
distribuzione di ricchezza non può ragionare soltanto della fonte energetica ma
deve necessariamente investire in via prioritaria il ripensamento del modello
di produzione, trasformandolo da modello centralizzato e piramidale a modello
“misto”, con una forte prevalenza della generazione distribuita: una reale
democrazia energetica.
Per operare
un profondo ripensamento del sistema di produzione energetico è fondamentale:
- Approvare una moratoria sui
nuovi progetti estrattivi riguardanti combustibili fossili
- Abbandonare ogni progetto di
estrazione non convenzionale
- Procedere all’eliminazione dei
sussidi pubblici alle fonti fossili (14,7 miliardi di euro annui solo per
l’Italia, 5300 miliardi a livello globale)
- Introdurre un sistema di
fiscalità ambientale con la previsione di una carbon tax a livello
nazionale, spingendo affinché sia allargata a livello europeo e globale
- Sostenere interventi di
efficientamento energetico nell’agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti
e nel settore manifatturiero, ecc., attraverso risorse pubbliche sottratte
al patto di stabilità e un Piano Straordinario da sostenere con un Fondo
ad hoc gestito, ad esempio, dalla Cassa Depositi e Prestiti, e incisive
politiche di defiscalizzazione
- Implementare a tappe serrate
l’uscita totale dal carbone come fonte di produzione energetica entro il
prossimo decennio
- Adottare e implementare una
road map adeguata per assicurare la completa decarbonizzazione del modello
energetico al 2050
- Legare l’utilizzo dell’energia
da biomasse nella transizione energetica a rigidi criteri di sostenibilità
ambientale e sociale, limitandosi alle sole biomasse di scarto e solo a
usi complementari a quelli ottenibili con altre rinnovabili.
- Promuovere un modello di
produzione distribuito dell’energia, attraverso l’adeguamento e la
completa digitalizzazione delle reti di distribuzione dell’energia e
politiche di incentivazione ai cittadini (cd prosumer)
2) Modello
produttivo
Il settore
industriale italiano è quanto di più lontano ci sia da un sistema produttivo
sostenibile. Un’economia basata sul consumo acritico e su un ciclo di vita lineare
delle materie (estrazione, produzione, consumo e smaltimento) ha costi
ambientali e sociali troppo elevati. Il combinato di crisi economica e
ambientale è un segnale chiaro dell’urgenza di una svolta che deve coincidere
con una radicale conversione ecologica del tessuto produttivo, del modo in cui
produciamo e del modo in cui consumiamo, a favore di un’economia in grado di
produrre (meno) beni e (più) servizi con modalità che rispettino l’ambiente e
la salute. Gli elementi necessari a questa transizione sono il passaggio dal
gigantismo delle strutture proprie dell’economia fossile alla diffusione,
differenziazione e interconnessione delle attività produttive e alla
diminuzione dell’orario di lavoro. Tale modello ridurrebbe al contempo le
disuguaglianze economiche e sarebbe a maggiore densità di lavoro rispetto a
quello attuale, creando occupazione degna e di qualità.
Affinché
tale cambiamento sia possibile è necessario agire in queste direzioni:
- Promuovere il riavvicinamento
sia fisico (“Km0”) sia organizzativo tra produzione e consumo grazie ai
rapporti diretti fra cittadinanza attiva, imprenditoria locale e governi
del territorio che devono avere il controllo congiunto dei servizi
pubblici e partecipare alla definizione delle risorse a sostegno della conversione
ecologica
- Sottrarre ai vincoli del patto
di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle
conversioni produttive e ridurre il debito pregresso nell’ambito dei
servizi locali in misura sufficiente a non essere di ostacolo a questi
processi
- Rivedere il Piano Nazionale
Industria 4.0 che si limita alla mera digitalizzazione dei processi
produttivi prevedendo incentivi all’efficientamento e alla
decarbonizzazione e affrontando le ricadute sociali e ambientali del
modello produttivo attuale.
- Applicare la Direttiva Europea
sull’ Economia Circolare promuovendo distretti produttivi simbiotici e
rendendo obbligatorio l’uso razionale e il riuso delle materie prime e
delle risorse tramite eco-progettazione (a monte), filiere sostenibili e
corretto trattamento degli scarti (a valle);
- Incentivare la conversione
lavorativa attraverso la riqualificazione professionale e la formazione
dei lavoratori affinché possano usufruire delle nuove opportunità date dai
settori industriale, edile, artistico e dei servizi che usano soluzioni e
tecniche di produzione ecosostenibili.
- Varare politiche di inclusione
sociale, favorendo l’inserimento di categorie vulnerabili e soggetti in
condizioni di difficoltà e di svantaggio.
- Prevedere azioni di controllo
contro politiche di greenwashing, riferibili alle aziende, organizzazioni
e istituzioni politiche che costruiscono un’immagine di sé ingannevolmente
verde danneggiando consumatori, aziende e ambiente.
3) Modello
agricolo e alimentazione
Il modello
di produzione agricolo, in Italia come altrove, è sempre più basato su sistemi
di coltivazione intensiva e sull’utilizzo massiccio di agrotossici. Tali
pratiche impoveriscono i terreni, rendono insalubri e spesso tossici gli
alimenti prodotti e contribuiscono ad alimentare un sistema di sfruttamento
intensivo non solo dei campi, ma anche della forza lavoro, attraverso il
ricorso al caporalato e con condizioni di lavoro inaccettabili per i
braccianti. Si assiste inoltre alla progressiva concentrazione di grandi
quantità di terre in poche mani. Stesse considerazioni valgono per i sistemi
intensivi di allevamento zootecnico, che si traducono nella produzione di cibo
di scarsa qualità, con l’aggravante del trattamento disumano degli animali. Tra
le varie attività umane, il settore dell’allevamento è quello che richiede il
maggiore utilizzo di terreni, e contribuisce in maniera sensibile al consumo di
acqua e alle emissioni di gas climalteranti. Occorre infine considerare che in
totale lo spreco alimentare domestico annuo in Italia ha un valore calcolato di
13 miliardi di euro, che corrispondono all’1% del Pil.
Per
l’affermazione di un modello agricolo sostenibile dal punto di vista ambientale
e sociale sarebbe necessario:
- Privilegiare produzioni di
piccola scala, sia nelle coltivazioni che nell’allevamento di bestiame
- Vietare l’utilizzo di pesticidi
e sostanze chimiche e prediligere sistemi organici e biologici
- Estendere in maniera capillare
le maglie del controllo sullo sfruttamento dei lavoratori agricoli in modo
da eradicare la pratica del caporalato
- Non limitarsi a vietare
l’utilizzo di sementi Ogm ma vietare altresì l’importazione e la vendita
in Italia di prodotti provenienti da colture Ogm.
- Non implementare colture
energetiche dedicate privilegiando la produzione di cibo di qualità
- Rendere accessibile il cibo di
qualità attualmente proibitivo per le fasce di popolazioni più vulnerabili
- Creare sistemi di tracciabilità
dei prodotti in etichetta affinché sia possibile per i cittadini risalire
alle informazioni relative al luogo di produzione, alle sostanze
utilizzate per la produzione, alla distribuzione del valore attraverso la
filiera etc.
- Tutelare la diversità genetica
dei semi a livello locale promuovendo e foraggiando le tecniche
tradizionali di cura e rigenerazione delle sementi da parte degli
agricoltori
- Sottrarre alla Grande
Distribuzione il monopolio del mercato del cibo, rafforzando relazioni di
prossimità tra produttore e consumatore, ad esempio attraverso i Gruppi di
Acquisto Solidale e la messa a sistema delle reti esistenti di
distribuzione sostenibile.
- Modificare le produzioni
agricole per ridurre drasticamente l’impronta idrica e andare verso produzioni
agricole carbon neutral incrementando il carbonio organico nei suoli.
4)
Cementificazione e consumo di suolo
Secondo
l’ultimo rapporto sul consumo di suolo elaborato dall’Ispra, tra il 2013 e il
2015 la cementificazione ha invaso 250 km2 di territorio, 35 ettari al giorno.
In Italia si perdono circa 4 metri quadrati di suolo ogni secondo. Sebbene nel
2016 sia stato approvato un DDL sul contenimento del consumo di suolo, esso
risulta parziale e poco efficace per raggiungere gli obiettivi auspicati: per
rendere il provvedimento efficace occorrerebbe anzitutto includere all’interno
della definizione di consumo di suolo, tra le altre, le superfici destinate ai
servizi di pubblica utilità di livello generale e locale, le aree destinate
alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari, le aree in cui sono
previsti gli interventi connessi in qualsiasi modo alle attività agricole.
L’esclusione di tali categorie è il primo ostacolo per il raggiungimento degli
obiettivi di contenimento fissati per legge.
Per tali
ragioni urge:
- Stabilire obiettivi di
riduzione del consumo di suolo sempre più stringenti di anno in anno in
modo tale da garantire il raggiungimento dell’obiettivo “consumo di suolo
zero al 2050”
- Promuovere e sostenere il
recupero del patrimonio esistente e la rigenerazione urbana, in modo da
scoraggiare il nuovo edificato su suolo vergine e mirando tali processi
all’inclusione sociale e la riconversione ecologica dell’esistente.
- Evitare ulteriore
cementificazione degli spazi urbani e industriali da recuperare e
aumentare il livello di rinaturalizzazione.
- Incentivare il monitoraggio
partecipativo del consumo di suolo.
- Incentivare il coinvolgimento
delle realtà locali nei processi di pianificazione urbana e di
rigenerazione.
5) Grandi
opere e infrastrutture
Il solo
decreto Sblocca Italia varato nel 2014 ha sbloccato 14 grandi opere per un
valore stimato di quasi 29 miliardi di euro, sostenendo uno schema di
investimenti pubblici che favorisce la costruzione di infrastrutture impattanti
e dalla dubbia utilità a scapito di interventi diffusi di risanamento del
dissesto idrogeologico dilagante nel paese. Tale orientamento della spesa
pubblica comporta una consistente diminuzione del welfare, cui si sommano, gli
impatti ambientali, sociali prodotti dalle opere finanziate. Ulteriore elemento
di criticità riguarda il carattere impositivo insito nella definizione e
implementazione delle mega infrastrutture, che depauperano sistematicamente le
comunità impattate dalla possibilità di partecipare ai processi decisionali.
Cambiare il
modello infrastrutturale necessita di un profondo ripensamento, che non può non
partire dal:
- Ripensare le infrastrutture
strategiche per il paese in un’ottica low carbon, come indicato tra gli
altri dal Report della Global Commission on Economy and Climate presieduta
da Nicholas Stern.
- Rinunciare alla costruzione di
mega infrastrutture energetiche legate all’utilizzo delle fonti fossili
- Rinunciare ai progetti
infrastrutturali connessi alla difesa militare, a partire da quelli
stranieri e legati a servitù militari, ripristinando la sovranità
nazionale sul territorio
- Riorientare gli investimenti
pubblici per le mega opere impattanti in investimenti per il risanamento
idrogeologico del territorio. Il dissesto interessa l’82% dei comuni
italiani, circa 30.000 kmq di territorio da nord a sud del paese ed è
costato in termini di danni causati da calamità naturali tra il 1944 e il
2011 più di 240 miliardi di euro di fondi pubblici, circa 3,5 miliardi di
euro all’anno. (Fonte: Anci-Cresme).
6) Gestione
dei rifiuti
Il modello
nazionale di gestione dei rifiuti è caratterizzato da gravi inefficienze e,
soprattutto, dall’incapacità di costruire strategie basate sulla corretta
gerarchia di gestione dei rifiuti: riduzione a monte, riuso, riciclo, recupero
energetico, smaltimento. Nonostante le gravi conseguenze sanitarie e ambientali
– provate da una vasta letteratura scientifica – discariche e inceneritori
restano infatti i cardini della gestione rifiuti a livello nazionale. Con il
decreto Sblocca Italia, il dicastero dell’Ambiente ha elevato gli inceneritori
a “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale” dichiarando di
fatto una precisa volontà politica: incentivare e favorire il business
dell’incenerimento dei rifiuti. L’attuazione di una gestione sostenibile dei
rifiuti passa al contrario e necessariamente per l’applicazione delle direttive
comunitarie (come la Direttiva 2008/98/CE), per il rispetto del principio di
precauzione e per la messa a sistema di una corresponsabilità tra enti,
cittadini e imprenditoria.
Per
intraprendere la strada della sostenibilità occorre:
- Applicare la corretta gerarchia
della gestione in un’ottica Rifiuti Zero.
- Dismettere gli impianti di
incenerimento, eliminando gli incentivi economici pubblici per qualsiasi
forma di combustione dei rifiuti e abbandonando i processi di combustione,
prima causa della scadente qualità dell’aria nel nostro paese.
- Abrogare l’articolo 35 del
decreto Sblocca Italia e rinunciare alla costruzione della nuova
impiantistica prevista dal Decreto Inceneritori.
- Potenziare la raccolta
differenziata porta a porta con il sistema di tariffazione puntuale.
- Sviluppare strumenti fiscali
per incentivare la raccolta differenziata di qualità
- Sviluppare una gestione
orientata alla massima efficienza economica dei servizi di raccolta e
smaltimento.
- Riorganizzare il sistema dei
consorzi CONAI con una regolazione pubblica dei contributi per renderli
inversamente proporzionale alla riciclabilità dei materiali immessi a
consumo.
- Promuovere e incentivare la
realizzazione di impianti finalizzati al recupero di materia: impianti a
freddo per il trattamento di materiali accoppiati (come il tetra-pak) e multimateriali
non recuperabili con il porta a porta.
- Privilegiare la realizzazione
di impianti di compostaggio aerobico eventualmente accompagnato da
digestione anaerobica di qualità
- Incentivare e promuovere
iniziative, incentivi, azioni e progetti che consentano di prevenire a
monte la produzione dei rifiuti.
- Incentivare buone pratiche di
riuso, riciclo, riduzione come il compostaggio domestico e di comunità.
- Tenere in considerazione, in
fase di progettazione dei prodotti, la scomponibilità e recuperabilità
degli oggetti per favorire la re-immissione dei materiali nei cicli
produttivi.
- Disincentivare l’acquisto di
prodotti non riciclabili e usa e getta.
7) Mobilità
Il modello
di trasporti può dirsi sostenibile quando risponde efficacemente alle esigenze
dei cittadini, riduce il traffico, migliora la qualità dell’aria, taglia i
consumi energetici. Il sistema di trasporto pubblico in Italia è invece
caratterizzato da gravi inefficienze, dall’insufficienza di offerta di sistemi
di mobilità sostenibile (trasporti su rotaie, piste ciclabili, sistemi di car
sharing etc.) e dalla netta prevalenza di sistemi di trasporto su gomma, con
preminenza dei veicoli privati anche per gli spostamenti quotidiani. Altrove,
la direzione verso la mobilità sostenibile ha preso da tempo la via della
multimodalità: integrare modelli di trasporto diversi e a basso impatto, una
direzione ancora molto lontana dal modello diffuso nel nostro paese.
Per
promuovere un modello di trasporti realmente sostenibile occorrerebbe
anzitutto:
- Rafforzare le reti di trasporto
pubblico, con preferenza per i veicoli elettrici e su rotaia in
riferimento sia alle reti urbane sia alle reti extraurbane per gli
spostamenti pendolari, contribuendo così a ridurre smog, rumore, ingorghi
e ritardi.
- Investire, dal punto di vista
della politica industriale, sull’ampliamento del parco autobus elettrico.
- Implementare una vasta rete per
la ciclabilità urbana ed extraurbana, come risposta alle esigenze di
trasporto urbano e alla domanda di turismo “dolce”
- Implementare sistemi di
monitoraggio della qualità dell’aria con particolare attenzione a sorgenti
significative (autostrade/tangenziali) e agli inquinanti non rivelati come
le particelle ultrafini (0.1 micron).
- Istituire aree verdi e zone
pedonali per disincentivare l’uso di vetture private nei centri urbani.
- Investire nella multimodalità,
prevedendo l’integrazione e l’interconnessione tra diversi sistemi di
mobilità sostenibile.
- Implementare e promuovere
sistemi di uso condiviso, come bike sharing e car sharing elettrico,
agevolandone l’utilizzo massiccio attraverso misure incentivali.
- Spostare il traffico merci su
ferro ed evitare la costruzione di nuove strade a larga percorrenza
- Come da indicazioni del
Parlamento Europeo ridurre le emissioni di ossidi di azoto e di
particolato sottile (<2.5 micron) su tutti i territori del 65% e del
50% e nelle aree ad alto inquinamento almeno del 75% (NO2) e del 60%
(particolato) per ridurre la mortalità da smog.
8) Acqua e
servizi pubblici essenziali
Il modello
di gestione del servizio idrico e, più in generale, dei servizi pubblici
essenziali, è stato oggetto nel 2011 di un referendum abrogativo che ha portato
all’affermazione di un’idea di gestione pubblica e ha sancito il carattere
dell’acqua quale bene comune e diritto umano universale, prevedendo peraltro
che non potesse essere inserita in bolletta alcuna quota di profitto per il
gestore. Da allora si è tuttavia assistito a una rinnovata strategia di
rilancio dei processi di privatizzazione del servizio idrico e degli altri
servizi pubblici locali. Attualmente, attraverso processi di aggregazione e
fusione, quattro colossi multiutilities – A2A, Iren, Hera e Acea – già
collocati in Borsa, stanno progressivamente inglobando la totalità delle
società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici.
Per
invertire la rotta e restituire alle autorità pubbliche e alle comunità il
controllo sui servizi pubblici essenziali occorre:
- Ripubblicizzare il servizio
idrico favorendo la partecipazione popolare diretta alla pianificazione e
gestione del servizio idrico integrato e che consenta l’accesso ai dati e
alle informazioni.
- Prevedere sistemi di gestione
pubblica e partecipata dei servizi pubblici essenziali in generale,
rafforzata dallo sviluppo di processi di partecipazione dei cittadini e
dei lavoratori.
- Promuovere investimenti
indirizzati prevalentemente alla ristrutturazione della rete idrica, con
l’obiettivo di ridurre strutturalmente le perdite di rete, e verso le
nuove opere, in particolare del sistema di depurazione e di fognatura.
- Garantire sistemi di controllo
della qualità delle acque con accesso ai dati per la popolazione e rapidi
interventi di risanamento ove necessario.
- Promuovere un nuovo sistema di
finanziamento del servizio idrico basato sul ruolo fondamentale, oltre che
della leva tariffaria, della finanza pubblica e della fiscalità generale;
in altre parole il servizio idrico deve tornare a essere una delle
priorità nel bilancio statale.
9) Ambiente
e diritto alla salute
L’emergenza
sanitaria legata alla contaminazione ambientale in Italia è grave, conclamata e
capillarmente diffusa. Tale situazione di grave violazione del diritto umano
alla salute, costituzionalmente garantito, è stato indagato nel rapporto
epidemiologico S.E.N.T.I.E.R.I. realizzato dall’ISS in 44 delle aree vaste
contaminate identificate come SIN (Siti di Interesse Strategico Nazionale per
le bonifiche) dal Ministero dell’Ambiente. I risultati del rapporto mostrano le
gravi conseguenze in termini di incidenza di malattie, ricoveri e morti premature
sulle popolazioni insediate. L’emergenza tuttavia va ben oltre i perimetri dei
SIN ed è elevata in ogni zona che ospita impianti contaminanti, centrali
energetiche, poli estrattivi, produttivi, di smaltimento, etc. Alla mancanza di
politiche di prevenzione primaria si somma l’insufficienza del sistema
sanitario nel garantire accesso alle cure e standard comparabili nelle varie
regioni italiane.
Per
garantire il diritto alla salute è dunque prioritario:
- Garantire il pieno e integrale
rispetto del principio di precauzione e dunque di politiche di prevenzione
primaria attraverso la chiusura e la conversione in senso ecologico degli
impianti gravemente contaminanti.
- Garantire programmi di
prevenzione e di screening (monitoraggio sanitario e prevenzione
secondaria) nei territori ritenuti a rischio o già contaminati.
- Garantire programmi di ricerca
e analisi che aiutino a individuare e prevenire le ricadute sanitarie
della contaminazione.
- Non soffermarsi alla previsione
delle linee guida ma implementare lo strumento della V.I.S. – Valutazione
di Impatto Sanitario obbligatoria per tutti i progetti di sviluppo,
infrastrutturale, industriale, energetico, ecc.
- Provvedere a rapidi ed efficaci
processi di bonifica dei territori attraverso il coinvolgimento attivo
delle popolazioni.
- Garantire massima applicazione
al principio “chi inquina paga”, assicurandosi che siano le stesse aziende
responsabili della contaminazione a finanziare le bonifiche dei territori
inquinati.
- Riformare radicalmente il
sistema dei monitoraggi ambientali e sanitari, sottraendo le figure
apicali degli enti di controllo a procedure di nomina politica e
caratterizzandone le attività per trasparenza, indipendenza, efficacia e
continuatività. Le risultanze di tali rilievi devono essere recepiti senza
esitazione nella formulazione di politiche a tutela della salute pubblica.
- Adeguare i livelli essenziali
di prestazioni in ambito sanitario alle necessità dei territori cui essi
sono applicati, estendendo la gamma degli interventi di prevenzione,
monitoraggio e cura delle patologie connesse all’esposizione ambientale.
10) Comunità
e democrazia
Elemento
dirimente per garantire una corretta e sostenibile gestione dei territori, la
salubrità dell’ambiente e la tutela della comunità insediate è l’esistenza di
strumenti di partecipazione popolare e di inclusione della cittadinanza nei
processi decisionali. Da questo punto di vista, all’insufficienza degli
strumenti esistenti si unisce la tendenza a un progressivo accentramento dei
processi decisionali e di depotenziamento degli enti di prossimità, erodendo la
possibilità di garantire alle comunità reale incidenza nelle scelte che
riguardano il proprio destino. Ciò riduce pericolosamente lo spazio democratico
favorendo un modello di delega incapace di rispondere alle istanze
partecipative. Accanto a ciò, la prassi di governo continua a individuare nel
ricorso a stato d’emergenza e a decretazione d’urgenza ulteriori strumenti per
imporre dall’alto decisioni spesso invise alla cittadinanza.
Per colmare
il gap democratico e rispondere alla richiesta di partecipazione cittadina è
necessario:
- Provvedere a fornire
informazioni adeguate e complete riguardo nuovi progetti di sviluppo,
infrastrutturale, industriale, energetico, etc. con impatti potenziali sul
territorio.
- Garantire in generale pieno
accesso alle informazioni in campo ambientale, precondizione per
esercitare a pieno le facoltà e i diritti connessi alla cittadinanza.
- Istituire e implementare
strumenti partecipativi, soprattutto a livello locale, in merito alle
politiche ambientali, garantendo la capillare partecipazione della
cittadinanza e degli stakeholders sociali attraverso la previsione di
strumenti deliberativi e non meramente consultivi.
- Garantire accesso alla
giustizia per l’opposizione a progetti invisi, per la riparazione del
danno prodotto e per il perseguimento delle responsabilità penali, ove
presenti.
- Rinunciare alla riforma nel
procedimento di V.I.A. – Valutazione di Impatto Ambientale in discussione,
evitandone lo svilimento e rafforzandone al contrario la funzione di
garanzia di tutela ambientale e protezione delle comunità insediate.
- Rafforzare anziché depotenziare
il ruolo degli enti di prossimità nei processi decisionali.
- Rafforzare le fattispecie di
ecoreati recentemente introdotte nel codice penale per garantire una piena
applicazione del principio Chi Inquina Paga.
RE.S.E.T.
– Rete Scienza e Territori per una società ecologica
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