Abbiamo bisogno di comunità, non ci stanchiamo di
ripeterlo, ma dovremmo tutti chiederci ogni giorno, mentre tentiamo di crearle,
di quali comunità parliamo e di come possiamo rigenerarle prima di tutto nelle
città. Ad esempio, se per una volta adottiamo il punto di vista dei più piccoli
e dei più giovani possiamo domandarci come coltivare un tessuto sociale nel
quale tutti e tutte siano in grado di imparare e in cui ogni forma di
apprendimento possa sbocciare. Forse hanno ragione gli autori de La
Città educante. Manifesto della educazione diffusa, si tratta di
sperimentare le piazze, i cortili, i boschi, le botteghe, i mercati qualsiasi
spazio sociale e culturale come luoghi di apprendimento e di abitare in modo
diverso gli edifici scolastici. Si tratta di vivere il territorio e la “scuola
diffusa”, dove scuola è prima di tutto scoperta, ricerca comunitaria, tempo
liberato dalle ossessioni imposte dal mercato. Se la scuola non è più solo
quella in aule e tra i banchi e se le materie vengono sostituite da un
apprendimento per argomenti, idee, curiosità allora il quadro potrebbe
cambiare radicalmente, bambini e ragazzi avrebbero un po’ di più in mano il
proprio destino, e anche le architetture e le città si trasformerebbero
[GC] È assolutamente necessario ricorrere a un po’ di fantasia e utopia e
anche a un po’ di realtà per provare a cambiare, mentre ahimè quasi tutti,
esperti compresi, restano ancora aggrappati all’edificio e timidamente si
spingono a superare il concetto di aula, arredo, corridoio. Tutte cose tra
l’altro ampiamente contestate a inizio del 900 sia dalle pedagogie nuove, con i
loro laboratori, le aule all’aperto, le tipografie ecc., o più radicalmente da
figure, tra le molte, come quella di Giovanni Papini, nel suo Chiudiamo le scuole del 1912. Perché non raccogliere la sfida di una
scuola oltre le mura e senza le mura?
Come quando,
un tempo, forse più di oggi, le vere aule erano il campo, il ruscello, il
cortile, la strada, la piazzetta e i nostri mèntori erano tanti altri maestri
oltre a quello ufficiale, formale, non scelto.
Realisticamente
l’edificio scolastico attuale potrebbe divenire la porta di accesso a tanti e
diversi luoghi dove apprendere per ogni cittadino in fase di educazione formale
o informale che sia.
Ogni città
potrebbe avere un “monumento” che conduce a diversi spazi culturali del
territorio urbano, rurale, montano, marino, reale o virtuale, in un sistema
complesso dove si applichi il motto mai superato “non scholae sed vitae
discimus” . Sgombriamo il campo dall’equivoco secondo cui esistono solo spazi
specializzati e funzionalmente dedicati all’apprendimento e alla cultura anche
istituzionali.
Ecco allora la “scuola diffusa”, intendendo per
“scuola” il tempo dedicato alla scoperta, alla ricerca, al gioco, al tempo
libero, alla crescita.
È tempo di
una nuova “scuola dell’arte” e di un’“arte della scuola”: questo accadrà quando
la mente sarà libera da burocrazie quotidiane e pianificazioni
scolastico-aziendali e si riuscirà a pensare che la “memoria” dei veri maestri
del fare “poeticamente” l’architettura della scuola anch’essa ahimè divenuta
preda del mercato, è la stessa del “fare scuola”.
Progettare
con la storia, con l’amore per l’anima dei luoghi e con quell’idea
dell’imprevisto prevedibile e poetico, dell’immaginazione e della creatività è
l’agire più prossimo alla relazione umana che della scuola deve essere il
fondamento.
La scuola è
infatti spazio fisico e intellettuale autonomo culturalmente e giammai
asservibile a una efficienza meccanica: un ambito della scoperta e
dell’introspezione, della comunicazione, del dialogo come della esigenza di
solitudine e di riflessione che non sono più l’aula e il corridoio ma forse la piazza e la strada, il portico
e il cortile.
Come in
qualsiasi azione presente fin dall’origine dell’uomo che si è evoluto con
l’apprendimento e la relazione non sono indifferenti i segni tangibili
dell’“intorno” in cui si apprende: poteva essere una foresta o una caverna, una
capanna, un portico e un cortile, un chiostro, una basilica o un’abbazia: oggi
può essere, altrettanto significativamente, uno spazio “nuovo” anche perché
“antico” e ricolmo dei segni della storia dell’insegnare e dell’imparare a
vivere.
[PM] Noi dobbiamo molto cambiare per poter giungere a qualcosa di simile,
il volto del mondo deve molto cambiare per reimparare
ad ospitare questi corpi in violento sviluppo, questi sguardi ancora aperti,
queste espressioni ancora non conformate completamente, questa “facce
ancora non da fotografo”, Questi “vortici nei capelli” per citare Peter Handke
(1987).
Dobbiamo
mutare profondamente, dobbiamo restituire loro ospitalità, creare le condizioni
per riceverli, perché vivano con
noi, partecipino con noi, decidano con noi, siano finalmente membri a pieno
titolo dello spazio e del tempo comune e non figure impoverite, fuori gioco,
in prova, in panchina.
L’energia
che questa popolazione reclusa potrebbe imprimere alla vita sociale è
incalcolabile, se solo si potesse metterla davvero in moto e non tenerla in
scacco, stagnante, incatenata.
Se
provassimo a rimuovere dal nostro campo di abitudini mentali quel luogo di
detenzione che si dice a fin di bene e che chiamiamo scuola, potremmo vedere prendere forma un altro
mondo, un altro mondo possibile, un mondo giovane, dai bagliori
imprevedibili, un mondo ricco, colorato, carico di futuro.
È pensando a
un mondo così che occorre oltrepassare i muri della scuola e guardare diversamente,
verso ciò che qui vorremmo chiamare, come già detto, educazione dell’esperienza
diffusa, o, più semplicemente, educazione diffusa, o ancora scuola ma scuola
diffusa.
Si potrebbe mantenere il termine “scuola”, rimanendo
però fedeli al suo etimo nativo di libertà e tempo libero e quindi di spazio
oltre i limiti di qualsiasi manufatto architettonico definito e delimitato (come un carcere, un convento,
un nosocomio, una chiesa, un museo), senza cadere nelle ipocrite palliative
innovazioni e flessibilità tecnologiche delle pareti mobili, delle scuole
verdi, degli spazi di aggregazione, delle architetture per educazione e cultura
simili a centri commerciali o open spaces in
chiave archistars.
[GC] Già per Adolf Loos, architetto
fuori dal coro nella Vienna del primo novecento, quando un uomo incontra in un
bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione “poetica” della natura
quella è architettura.
Il locus è
un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati
d’uso, di memoria, di racconti, di amore… Anche la
scuola dovrebbe essere un locus: uno spazio pieno di storia e di poesia, senza
tempo e senza confini e artifici e, per questo, potrebbe essere un bosco, una
piazza, un campo, una radura. Oltre l’urbanistica, oltre l’edilizia e
anche oltre la scuola che sono i termini burocratici per gerarchizzare i
luoghi, le persone e le loro menti.
Anche per un
maestro di architettura come Aldo Rossi, i luoghi e le architetture erano
indifferenti a una funzione cristallizzata e ripetitiva ma dovevano cambiare in
un dialogo continuo con la città e con chi li frequenta, quando li frequenta.
Architettura è il segno dell’uomo in ogni luogo, anche un segno non permanente,
flessibile e una specie di non luogo che evolve, si muove e si trasforma.
Un circolo in un campo dove tanti ragazzi o adulti
leggono e si scambiano idee su ciò che leggono e riflettono e pensano diventa
una biblioteca, un’aula, un museo e un insieme di momenti di appredimento e di
crescita. E allora è
architettura ed è scuola insieme.
Sulla scia
della “discreta organizzazione”, in una città, si può cominciare ad immaginare
la nuova scuola e la nuova educazione in diverse dimensioni: quella storica e
architettonica, quella logistica, quella organizzativa e quella pedagogica e
culturale, senza scindere più tra spazi per apprendere, per comunicare, per
esibire, per documentare, per vivere. Questo sarà il teatro di un nuovo
racconto fatto di parole, disegni e storie. La narrazione non sarà una
descrizione della costruzione di un progetto architettonico ma quella di una
giornata scolastica nella città dal punto di vista del bambino,
dell’adolescente, dello studente universitario, dei docenti, del preside, del
sindaco, accompagnata, sullo sfondo, dalle scenografie degli spazi dedicati ad
apprendere e ad “errare” ma non solo e non sempre.
Se si trasformano gli edifici scolastici per un uso
misto, flessibile (museo e scuola, biblioteca e scuola, terziario e scuola,…) e
mimetico; se si usano gli spazi di cultura e di lavoro, pubblici e privati
della città per un diverso “fare scuola”, non scandalizzerà l’educazione
persino nei bar, nei negozi e negli aborriti centri commerciali, nuove piazze
del consumismo e del passeggio; se si abolissero le materie e si apprendesse
per argomenti, idee, curiosità e racconti, il quadro potrebbe cambiare
radicalmente e anche le architetture e le città si trasformerebbero.
Una rete di
luoghi per apprendere comprenderebbe anche parte dei vecchi edifici scolastici
(il restante numero sarebbe demolito, alienato o riutilizzato per altre
funzioni) trasformati e resi fruibili anche per attività a tempo pieno,
pubbliche o private che siano: una rete collegata da nodi costituiti dagli
accessi distinti per ogni ordine di esperienze di apprendimento.
(Tratto dal libro La Città educante. Manifesto della educazione diffusa (Asterios)
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