mercoledì 28 giugno 2017

Una scuola oltre le mura - Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli


Abbiamo bisogno di comunità, non ci stanchiamo di ripeterlo, ma dovremmo tutti chiederci ogni giorno, mentre tentiamo di crearle, di quali comunità parliamo e di come possiamo rigenerarle prima di tutto nelle città. Ad esempio, se per una volta adottiamo il punto di vista dei più piccoli e dei più giovani possiamo domandarci come coltivare un tessuto sociale nel quale tutti e tutte siano in grado di imparare e in cui ogni forma di apprendimento possa sbocciare. Forse hanno ragione gli autori de La Città educante. Manifesto della educazione diffusa, si tratta di sperimentare le piazze, i cortili, i boschi, le botteghe, i mercati qualsiasi spazio sociale e culturale come luoghi di apprendimento e di abitare in modo diverso gli edifici scolastici. Si tratta di vivere il territorio e la “scuola diffusa”, dove scuola è prima di tutto scoperta, ricerca comunitaria, tempo liberato dalle ossessioni imposte dal mercato. Se la scuola non è più solo quella in aule e tra i banchi e se le materie vengono sostituite da un apprendimento per argomenti, idee, curiosità allora il quadro potrebbe cambiare radicalmente, bambini e ragazzi avrebbero un po’ di più in mano il proprio destino, e anche le architetture e le città si trasformerebbero


[GC] È assolutamente necessario ricorrere a un po’ di fantasia e utopia e anche a un po’ di realtà per provare a cambiare, mentre ahimè quasi tutti, esperti compresi, restano ancora aggrappati all’edificio e timidamente si spingono a superare il concetto di aula, arredo, corridoio. Tutte cose tra l’altro ampiamente contestate a inizio del 900 sia dalle pedagogie nuove, con i loro laboratori, le aule all’aperto, le tipografie ecc., o più radicalmente da figure, tra le molte, come quella di Giovanni Papini, nel suo Chiudiamo le scuole del 1912. Perché non raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura?
Come quando, un tempo, forse più di oggi, le vere aule erano il campo, il ruscello, il cortile, la strada, la piazzetta e i nostri mèntori erano tanti altri maestri oltre a quello ufficiale, formale, non scelto.
Realisticamente l’edificio scolastico attuale potrebbe divenire la porta di accesso a tanti e diversi luoghi dove apprendere per ogni cittadino in fase di educazione formale o informale che sia.
Ogni città potrebbe avere un “monumento” che conduce a diversi spazi culturali del territorio urbano, rurale, montano, marino, reale o virtuale, in un sistema complesso dove si applichi il motto mai superato “non scholae sed vitae discimus” . Sgombriamo il campo dall’equivoco secondo cui esistono solo spazi specializzati e funzionalmente dedicati all’apprendimento e alla cultura anche istituzionali.
Ecco allora la “scuola diffusa”, intendendo per “scuola” il tempo dedicato alla scoperta, alla ricerca, al gioco, al tempo libero, alla crescita.
È tempo di una nuova “scuola dell’arte” e di un’“arte della scuola”: questo accadrà quando la mente sarà libera da burocrazie quotidiane e pianificazioni scolastico-aziendali e si riuscirà a pensare che la “memoria” dei veri maestri del fare “poeticamente” l’architettura della scuola anch’essa ahimè divenuta preda del mercato, è la stessa del “fare scuola”.
Progettare con la storia, con l’amore per l’anima dei luoghi e con quell’idea dell’imprevisto prevedibile e poetico, dell’immaginazione e della creatività è l’agire più prossimo alla relazione umana che della scuola deve essere il fondamento.
La scuola è infatti spazio fisico e intellettuale autonomo culturalmente e giammai asservibile a una efficienza meccanica: un ambito della scoperta e dell’introspezione, della comunicazione, del dialogo come della esigenza di solitudine e di riflessione che non sono più l’aula e il corridoio ma forse la piazza e la strada, il portico e il cortile.
Come in qualsiasi azione presente fin dall’origine dell’uomo che si è evoluto con l’apprendimento e la relazione non sono indifferenti i segni tangibili dell’“intorno” in cui si apprende: poteva essere una foresta o una caverna, una capanna, un portico e un cortile, un chiostro, una basilica o un’abbazia: oggi può essere, altrettanto significativamente, uno spazio “nuovo” anche perché “antico” e ricolmo dei segni della storia dell’insegnare e dell’imparare a vivere.
[PM] Noi dobbiamo molto cambiare per poter giungere a qualcosa di simile, il volto del mondo deve molto cambiare per reimparare ad ospitare questi corpi in violento sviluppo, questi sguardi ancora aperti, queste espressioni ancora non conformate completamente, questa “facce ancora non da fotografo”, Questi “vortici nei capelli” per citare Peter Handke (1987).
Dobbiamo mutare profondamente, dobbiamo restituire loro ospitalità, creare le condizioni per riceverli, perché vivano con noi, partecipino con noi, decidano con noi, siano finalmente membri a pieno titolo dello spazio e del tempo comune e non figure impoverite, fuori gioco, in prova, in panchina.
L’energia che questa popolazione reclusa potrebbe imprimere alla vita sociale è incalcolabile, se solo si potesse metterla davvero in moto e non tenerla in scacco, stagnante, incatenata.
Se provassimo a rimuovere dal nostro campo di abitudini mentali quel luogo di detenzione che si dice a fin di bene e che chiamiamo scuola, potremmo vedere prendere forma un altro mondo, un altro mondo possibile, un mondo giovane, dai bagliori imprevedibili, un mondo ricco, colorato, carico di futuro.
È pensando a un mondo così che occorre oltrepassare i muri della scuola e guardare diversamente, verso ciò che qui vorremmo chiamare, come già detto, educazione dell’esperienza diffusa, o, più semplicemente, educazione diffusa, o ancora scuola ma scuola diffusa.
Si potrebbe mantenere il termine “scuola”, rimanendo però fedeli al suo etimo nativo di libertà e tempo libero e quindi di spazio oltre i limiti di qualsiasi manufatto architettonico definito e delimitato (come un carcere, un convento, un nosocomio, una chiesa, un museo), senza cadere nelle ipocrite palliative innovazioni e flessibilità tecnologiche delle pareti mobili, delle scuole verdi, degli spazi di aggregazione, delle architetture per educazione e cultura simili a centri commerciali o open spaces in chiave archistars.
 [GC] Già per Adolf Loos, architetto fuori dal coro nella Vienna del primo novecento, quando un uomo incontra in un bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione “poetica” della natura quella è architettura.
Il locus è un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati d’uso, di memoria, di racconti, di amore… Anche la scuola dovrebbe essere un locus: uno spazio pieno di storia e di poesia, senza tempo e senza confini e artifici e, per questo, potrebbe essere un bosco, una piazza, un campo, una radura. Oltre l’urbanistica, oltre l’edilizia e anche oltre la scuola che sono i termini burocratici per gerarchizzare i luoghi, le persone e le loro menti.
Anche per un maestro di architettura come Aldo Rossi, i luoghi e le architetture erano indifferenti a una funzione cristallizzata e ripetitiva ma dovevano cambiare in un dialogo continuo con la città e con chi li frequenta, quando li frequenta. Architettura è il segno dell’uomo in ogni luogo, anche un segno non permanente, flessibile e una specie di non luogo che evolve, si muove e si trasforma.
Un circolo in un campo dove tanti ragazzi o adulti leggono e si scambiano idee su ciò che leggono e riflettono e pensano diventa una biblioteca, un’aula, un museo e un insieme di momenti di appredimento e di crescita. E allora è architettura ed è scuola insieme.
Sulla scia della “discreta organizzazione”, in una città, si può cominciare ad immaginare la nuova scuola e la nuova educazione in diverse dimensioni: quella storica e architettonica, quella logistica, quella organizzativa e quella pedagogica e culturale, senza scindere più tra spazi per apprendere, per comunicare, per esibire, per documentare, per vivere. Questo sarà il teatro di un nuovo racconto fatto di parole, disegni e storie. La narrazione non sarà una descrizione della costruzione di un progetto architettonico ma quella di una giornata scolastica nella città dal punto di vista del bambino, dell’adolescente, dello studente universitario, dei docenti, del preside, del sindaco, accompagnata, sullo sfondo, dalle scenografie degli spazi dedicati ad apprendere e ad “errare” ma non solo e non sempre.
Se si trasformano gli edifici scolastici per un uso misto, flessibile (museo e scuola, biblioteca e scuola, terziario e scuola,…) e mimetico; se si usano gli spazi di cultura e di lavoro, pubblici e privati della città per un diverso “fare scuola”, non scandalizzerà l’educazione persino nei bar, nei negozi e negli aborriti centri commerciali, nuove piazze del consumismo e del passeggio; se si abolissero le materie e si apprendesse per argomenti, idee, curiosità e racconti, il quadro potrebbe cambiare radicalmente e anche le architetture e le città si trasformerebbero.
Una rete di luoghi per apprendere comprenderebbe anche parte dei vecchi edifici scolastici (il restante numero sarebbe demolito, alienato o riutilizzato per altre funzioni) trasformati e resi fruibili anche per attività a tempo pieno, pubbliche o private che siano: una rete collegata da nodi costituiti dagli accessi distinti per ogni ordine di esperienze di apprendimento.
(Tratto dal libro La Città educante. Manifesto della educazione diffusa (Asterios)


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