Appena sveglio mio figlio mi dice che c’è il sole come
se fosse un miraggio. Ho la faccia gonfia per un dente infiammato. Ho la testa
piena di cattivi pensieri. Dopo molti giorni davanti al computer ho voglia di
andare all’aperto a prendere aria. Vado ad Andretta, il paese più vicino,
l’unico che d’estate riesco a raggiungere in bicicletta.
Quindici chilometri senza incontrare una macchina. Arrivo
e parcheggio davanti a un camion di un venditore di frutta. Una voce registrata
annuncia la merce in vendita, ma per il momento non accorre nessuno. Passa una
macchina con un’altra voce registrata: l’arrotino che fa pure l’ombrellaio. In
piedi, nella cornice di una porta, un uomo anziano si sistema l’aggeggio
acustico intorno all’orecchio. L’operazione pare più laboriosa del previsto. Mi
fermo a osservare. Dall’altra parte della strada c’è una Punto grigia col
motore acceso da molti minuti. Un uomo anziano prende il sole in una Volvo. Mi
accorgo che il bar in cui sono stato varie volte è privo di nome. Come si
chiama? Dico alla signora che sta lavando a terra. Solo bar, mi risponde. Prima
di allontanarmi noto l’insegna dei gelati Algida sbiaditissima, si legge solo
la parola cornetto. Davanti al bar c’è un
uomo col naso mangiato da una malattia e un altro che mi guarda con aria
dimessa, sfinita. In mezzo alla strada due donne di mezza età parlano di
ospedali e malattie. Per quanto posso capire una delle due ha avuto di recente
un lutto.
Noto davanti al bar e poi davanti a un minimarket
adiacente dei tavolini rotondi di cemento con intarsi di marmo. Non ci avevo
mai fatto caso. Ecco, ce ne sono ancora altri due più avanti. Il proprietario
del minimarket mi risponde svogliatamente che li fanno qui.
Incontro uno dei tanti che conobbi ai tempi della
battaglia vittoriosa contro la discarica alla fine degli anni novanta. Mi
chiede se è mia la telecamera sul cavalletto. Si, è mia, l’ho lasciata sul
marciapiedi, cento metri più su. Vado a riprendermela senza timore che qualcuno
me l’abbia rubata.
Poco lontano dal bar senza nome ce n’è un altro che si
chiama l’Australiano.
Davanti a una porta una bottiglia di plastica piena
d’acqua. Se ne trovano tante nei paesi. Non si sa come si sia sparsa la voce
che tengono lontani cani e gatti: la bottiglia li distoglierebbe dal fare i
loro bisogni. Penso che anche il cosiddetto pensiero magico abbia subìto un
evidente impoverimento se questa adesso è la sua più diffusa manifestazione.
Ancora un bar, questa volta è un bar elegante. Dentro
ci sono solo due anziani che stanno con le carte in mano, ma senza giocare.
Esco fuori a guardare un po’ d’insegne, è quello che
preferisco quando non ho voglia di parlare. Abbigliamento 0-12, Intimo per
tutti, l’Oasi piante fiori, Bottega della carne, Digital Miele: niente di
particolare.
È il momento dei manifesti funebri.
A Pozzuoli (Na) è venuto a mancare all’età di 69 anni
Angelo Acocella.
In America è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari
Michelina D’Ascoli (vedova Antolino).
A 83 anni in Arisson (Usa) è venuta a mancare
all’affetto dei suoi cari Francesca Acocella (vedova Di Guglielmo).
La lista è lunga. Leggo ancora di una donna morta a
You Kers (New York) il 23-02-06 e di un’altra morta il 3 marzo 2006 a Toronto
all’età di 83 anni.
I manifesti sono in parte oscurati dalla propaganda
elettorale di Pasquale Giuditta e Nicola Mancino, Udeur e Margherita.
Incontro Ciccillo, il tenore dilettante celebrato
dall’andrettese Vinicio Capossela in uno dei suoi brani. Mi dice che ogni
mercoledì va ad Avellino a cantare nella filarmonica, il resto della settimana
va sempre in campagna. Per non finire in anticipo nella fossa, mi dice.
Dopo il maestoso campanile c’è un altro pezzo di paese
in cui non sono mai stato. Cammino in via Pasquale Stiso, ex sindaco e poeta.
Adesso il sindaco è un commercialista. Non ho voglia di vedere e sentire nessun
amministratore. Guardo una donna che sbatte un tappeto, un’altra che sbuccia le
patate, gesti quotidiani, svolti in un silenzio pulito. Guardo certe case e le
vorrei accarezzare, accarezzo le porte di legno, quelle con le vernici di una
volta, bisogna conservarle queste porte, sarebbe bello se qualcuno da
qualche parte volesse salvarle, raccoglierle, fare un museo delle porte, quelle
col buco per far entrare la gatta ormai sono rarissime.
Torno nel corso, c’è una merceria senza insegna che
vende anche i giornali; un negozio di elettrodomestici che vende anche le
scarpe e un negozio di alimentari che vende anche elettrodomestici.
Mi fermo in piazza. Non c’è una panchina, la piazza la
usano per invertire il senso di marcia e tornare indietro. Qui c’è la farmacia
della famiglia Papa. La farmacista è una donna vivace e subito si mette a
parlare di politica. Il vecchio farmacista in pensione mi dice che lui non vota
per nessuno, lui era socialista. Un altro figlio, che non ha fatto grandi
studi, dà una mano alla sorella. Un po’ dentro, un po’ fuori, si fuma una
sigaretta, saluta chi passa. Nella farmacia entrano in continuazione persone
anziane. Antipertensivi e antireumatici i farmaci più venduti.
Torno verso la macchina. Mi siedo un po’ con Carmine,
muratore scapolo, che mi dice di avere trentanove anni, ma ne dimostra almeno
venti di più. Adesso si sente un ambulante che vende materassi. In un vicolo
incontro una persona dall’aria spaurita. È contento che gli chiedo qualcosa. Mi
risponde che sta aspettando il bel tempo. È stato una quindicina d’anni di
Svizzera, pure lui pare più anziano.
La gente che c’è in giro fa gesti lenti, non c’è
nessuna ebbrezza, sembrano davvero i primi passi fuori dal letargo. Si cammina
lentamente, si va alla macelleria, si va a comprare la frutta, il pane, la
carta igienica. Si esce per sbrinare il cuore nella luce e quello che accade in
fondo è ineccepibile.
La terra ruota ad Andretta come a Londra, alla stessa
velocità, incurante della velocità che c’è in superficie. Oggi è il
ventiquattro marzo, per il momento non è una data memorabile, ma non è detto,
fino alla fine del giorno può sempre capitare qualcosa. Il ventitré novembre
fino alle sette e mezzo era una domenica qualunque, poi venne il terremoto.
Davanti alla porta del Comune un manifesto che saluta
il Papa morto e uno che saluta l’arrivo del nuovo vescovo.
Per terra manifestini con fotografia a colori di un
candidato. Mi sembra la foto di un poveraccio, siamo tutti dei gran poveracci.
Giovani e anziani, anonimi e illustri. E questa competizione elettorale sembra
non riguardare nessuno. La sera anche qui guarderanno i politici alla televisione.
Avranno deciso di votare per questo o per quello, ma si ha la sensazione che il
paese nel suo complesso non abbia la forza di immaginarsi un futuro. Più che da
un popolo adesso un paese è abitato da un campionario di solitudini, una
sommatoria di esistenze scoraggiate. Eppure oggi qui sto meglio di come potrei
stare altrove. Questa faccia gonfia non è un problema, non devo dimostrare
nulla a nessuno, non devo esibire alcun entusiasmo, non devo mostrare
efficienza e convinzione.
Mi siedo in piazza a prendere appunti, ma il foglio
resta vuoto. Qualche sociologo illustre parla di scomparsa della realtà, parla
di dominio della simulazione. Qui mi pare che siamo in una terra di nessuno. La
realtà ormai è una cartilagine delicatissima e la simulazione non sa dove
appigliarsi. Alle dodici e venticinque si abbassa la serranda della farmacia, è
segno che la mattinata è finita.
Nessun commento:
Posta un commento