Contro gli orrori di Israele e l’ipocrisia dei governi delle grandi potenze possiamo, in basso, imparare ad ascoltare le voci femministe palestinesi. Hanno qualcosa da dirci.
Parlare di guerra e femminismo, dopo oltre un anno di orrori del
genocidio ancora in corso di Israele contro la popolazione palestinese, non è
facile. La stessa parola guerra è inadeguata, non si tratta
infatti di un conflitto tra Stati, tra eserciti, ma di uno degli eserciti più
potenti del mondo, quello di Israele, che stermina una popolazione, animato da
una furia fanatica e razzista, che si espande in tutta l’area, di prendere una
terra che non gli appartiene e cacciare la popolazione autoctona, sostituendola
con quella ebraica.
Quando l’esercito di uno Stato occupante uccide oltre 50.000 persone, di
cui 17.000 bambini con bombe, malattie fame; ammazza più di 200
giornalisti; distrugge un patrimonio culturale, scuole e università; quando
bombarda scientemente un’ambulanza, ammazzando e seppellendo in una fossa
comune l’equipaggio di soccorritori, non bastano le (poche) parole di
denuncia e di condanna. Servono misure per colpire l’impunità di Israele,
come del resto hanno indicato la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte
Penale Internazionale,
Unione Europea e governo italiano, come sappiamo, hanno steso su quanto
avviene a Gaza e in tutta la Palestina un sudario di indifferenza e immobilità. Oggi la UE chiede
«armi all’Ucraina fino alla vittoria» (!), di riarmare l’Europa, di riempire
gli arsenali e di manipolare le coscienze fin nelle scuole. È una politica
insostenibile, un patriarcato con facce di donne. In questo quadro
di silenzio e doppi standard, di disinformazione e informazione disonesta,
ascoltiamo le voci femministe palestinesi, hanno qualcosa da dirci, una
strada da suggerirci grazie alla loro lunga storia di lotte di liberazione, dal
colonialismo britannico nei primi anni del ‘900, fino a quello sionista: la
storica Unione dei comitati delle donne palestinesi nel 2021 venne dichiarata
terrorista da Israele e, insieme ad altre 5 Ong messa fuori legge (per i
movimenti femministi e femminili in Palestina, vedi C. Dalla Negra, Questa
terra è donna, Astarte 2024).
Nello stesso anno nasceva negli Stati Uniti, il Palestinian
Feminist Collective con la dichiarazione: «Il sionismo, come tutti i
sistemi coloniali, è complice della violenza di genere» invitava a porre fine
alla violenza dall’interno, come dall’esterno. Le donne palestinesi sono
sempre state parte attiva della fondamentale resistenza alle aspirazioni
imperialiste sulla loro patria, convinte che la liberazione nazionale è
incompleta senza giustizia di genere. Lo sosteneva anche il giovane movimento
di Tal’at, contro misoginia e
patriarcato. E il PFC (Nada Elia su Middle East Eye, marzo
2021. N. Elia, La Palestina è una questione femminista, Alegre
2023).
Dopo il 7 ottobre e la vergognosa esaltazione di tutti i governi –
dagli Stati Uniti all’Italia – del diritto all’autodifesa dello stato occupante
di Israele dagli occupati, l’appello delle femministe palestinesi è
stato: «Porre fine al genocidio di Gaza è una questione femminista», forse anche una
reazione a quella parte di femminismo che, come in Francia, che insorgeva
contro stupri palestinesi sulle donne israeliane (petizione ripresa anche in
Italia da Micromega): la stessa procuratrice di Israele Gez, dichiarava
due mesi dopo in un intervista a Ynet: «Sfortunatamente sarà molto difficile
provare questi crimini» in assenza di denunce e di prove.
Decine di prove e testimonianze hanno invece purtroppo permesso di
ricostruire violenze e torture sulle donne palestinesi. Ultima in ordine di
tempo l’indagine della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite (13 marzo)
che nel suo rapporto scrive: Israele ha «intenzionalmente attaccato e
distrutto» il principale centro di fertilità del territorio palestinese e ha
simultaneamente imposto un assedio e bloccato gli aiuti, compresi i farmaci per
garantire gravidanze, parti e cure neonatali sicure, «deliberatamente
infliggendo al gruppo condizioni di vita calcolate per provocarne la
distruzione fisica» e «imponendo misure volte a impedire le nascite all’interno
del gruppo».
Ce lo ha ricordato anche Rania Hammad intervenendo il 18 febbraio scorso
alla Scuola politica della Casa Internazionale delle Donne «Non perdiamo più la bussola»:
Sappiate che la violenza di genere e sessuale è indispensabile al
colonialismo nel suo intento di eliminare noi, il popolo nativo della Palestina
e rubare le nostre terre nonché reprimere la nostra resistenza. Il Sionismo, Israele
non ha mai fatto segreto dei suoi piani, né della soluzione di avere tutta la
terra senza palestinesi, non è nulla di nuovo […] Mentre venivano ammazzate in
massa le donne palestinesi, mentre venivano sterminate intere famiglie e le
donne rapite, imprigionate, torturate, abusate sessualmente e stuprate, ci
siamo trovate, noi donne palestinesi in Occidente, in una situazione surreale
di fronte al massacro e ai nostri traumi. Ci siamo trovate di fronte al
femminismo coloniale, ci è stato chiesto di mettere da parte le cause del
conflitto stesso, le radici del problema, la verità storica, cioè quelle del
colonialismo di insediamento e dell’occupazione; ed è stato preteso da noi che
ci dimenticassimo di tutti i nostri antenati massacrati prima di noi, migliaia
di vittime, di corpi palestinesi, per soffermarci e condannare un giorno di
ottobre del 2023.
Ho ripensato al tempo della pandemia, quando sembrava che «nulla sarebbe
stato più come prima» e opponevamo la rivoluzione della cura contro
la guerra, sempre di stampo patriarcale, che distrugge le società in nome della
«esportazione» della democrazia e della «libertà delle donne» – ricordiamoci
l’Afghanistan e l’Iraq – arricchendo l’industria delle armi e i poteri
militari, scatenando guerre civili e sostenendo le occupazioni: violenza come
massimo gesto di incuria verso l’umanità e la natura. Esprimersi contro
armi, violenza e guerre, oggi, deve mettere al centro le pratiche, i pensieri e
le parole contro gli orrori compiuti da Israele in solidarietà con le
femministe palestinesi anche se sostenere queste posizioni può configgere con
il cosidetto «femminismo coloniale».
Cominciamo dalle nostre menti a sostenere la decolonizzazione.
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