Uno studio
della Statale di Milano passa in rassegna le vicende oggetto dei ricorsi alla
Consulta, che ha legittimato l'abrogazione dell'abuso d'ufficio. E sottolinea
"i gravi vuoti di tutela" lasciati dalla riforma del ministro
La pm che sequestra illegalmente le quote di una società per favorire un imprenditore amico. Il dirigente della Asl che nega il permesso di aprire nuovi ambulatori per evitare concorrenza a quello di suo figlio. I “baroni” universitari che aggiustano i bandi per assumere i loro protetti. Il commissario del concorso in magistratura che cerca di truccare la prova per aiutare un candidato amico. Sono tutti esempi (veri) di soggetti indagati e imputati per abuso d’ufficio e ora scagionati grazie alla legge Nordio, che ha abrogato il reato a partire dall’agosto 2024. A raccoglierli è stata un’assegnista di ricerca dell’Università Statale di Milano, Cecilia Pagella: in un articolo sulla rivista online Sistema penale – diretta dal professor Gian Luigi Gatta – la studiosa passa in rassegna i casi concreti sollevati alla Corte costituzionale dai 14 giudici (inclusa la Cassazione) che hanno sostenuto l’illegittimità della cancellazione della fattispecie per violazione della Convenzione Onu di Merida contro la corruzione. Una tesi rigettata dalla Consulta lo scorso 8 maggio, con il risultato che i procedimenti sospesi in attesa del verdetto – nonostante i (presunti) gravi soprusi commessi – finiranno o sono già finiti in fumo “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Le motivazioni della sentenza saranno depositate a breve, ma lo studio della Statale prende spunto dalle vicende oggetto dei ricorsi per “sottolineare ancora una volta i gravi vuoti di tutela” aperti dalla riforma del ministro della Giustizia, che lascia “sfornite di tutela penale” condotte dal “peso politico-criminale non trascurabile“.
Il colpo di
spugna più clamoroso riguarda i casi in cui l’abuso d’ufficio consiste(va) in
una prevaricazione. In un piccolo comune in provincia di Avellino,
ad esempio, un capogruppo di opposizione era stato
dichiarato decaduto dal segretario comunale che lui stesso
aveva denunciato per abusi edilizi: un atto secondo l’accusa
illegittimo, perché basato su dimissioni in realtà mai rassegnate dal
consigliere, e comunque emesso in violazione dell’obbligo di astensione. In
primo e in secondo grado il segretario era stato condannato per abuso
d’ufficio: dopo la cancellazione del reato, però, aveva impugnato la
sentenza chiedendo l’assoluzione piena. E lo scorso febbraio la Sesta
Sezione della Suprema Corte ha deciso di portare la questione alla Consulta,
ultima a farlo in ordine di tempo. Il primo, invece, era stato a settembre il Tribunale di Firenze nel processo sul cosiddetto
“caso Duchini”: Antonella Duchini, ex procuratrice aggiunta di
Perugia, era accusata di aver sequestrato illegittimamente le quote di una
società, in modo da consentire di comprarle “a un altro imprenditore con cui
intratteneva una duratura relazione personale“. Infine c’è il caso
sollevato dal gup di Locri, il cui protagonista è “il direttore dell’area dei
servizi veterinari di un’azienda sanitaria, il quale serialmente negava ai
richiedenti l’autorizzazione all’apertura o alla prosecuzione dell’attività
di nuovi ambulatori al fine di assicurare che lo studio di cui era
titolare il figlio non ne subisse la concorrenza”.
Secondo la
ricercatrice, le condotte di questo tipo sono ormai “penalmente irrilevanti“:
l’unico reato astrattamente ipotizzabile, infatti, sarebbe la violenza
privata, che però non è quasi mai applicabile in quanto presuppone l’uso di
“violenza o minaccia” per “costringere” qualcuno a fare o subire qualcosa.
Diversi invece i casi di abusi a vantaggio del privato, il cui esempio classico
sono i concorsi truccati: l’articolo cita i processi sulle
“concorsopoli” universitarie di Catania e Firenze,
in cui rettori e professori sono accusati di aver cucito bandi su
misura per i candidati prescelti. Ma tra le vicende rimesse alla
Consulta ce n’era una particolarmente clamorosa, a giudizio di fronte al
Tribunale di Roma: un tentativo di truccare il concorso per l’accesso
in magistratura da parte di un membro della commissione. Secondo i pm
l’imputato, professore universitario, non aveva dichiarato “un consolidato
rapporto personale con uno dei candidati, che era anche suo dottorando e col
quale aveva instaurato una relazione amicale che andava oltre
i normali rapporti professionali”. E aveva concordato con lui una serie di “segni
di riconoscimento” del suo tema, salvati sul proprio pc. La furbata non era
andata in porto solo perché era stata scoperta da un altro commissario, che
l’aveva prontamente denunciata.
Anche queste
ultime condotte, sostiene l’articolo, rimangono “sostanzialmente scoperte dal
punto di vista penalistico”: il reato di turbativa d’asta, infatti, è stato reso inservibile da un recente cambio di orientamento della
Cassazione, che
consente di applicarlo solo alle a gare per l’acquisto di beni e servizi e
non alle procedure per la selezione di personale. Anche il nuovo reato di “peculato
per distrazione“, introdotto dal governo contemporaneamente all’abolizione dell’abuso
d’ufficio (per
evitare procedure di infrazione da parte dell’Ue) “presenta margini talmente
angusti da risultare sostanzialmente inutile”: il delitto infatti si configura
solo quando i fondi pubblici sono destinati “a un uso diverso” da quello
individuato dalla legge. E nel caso dei concorsi truccati questo requisito
apparentemente non sussiste: le risorse, infatti, sono stanziate per assumere
un tot (ad esempio) di ricercatori o magistrati, senza precisare che tipo di
caratteristiche debbano avere. Insomma, conclude la studiosa, “c’è materiale in
abbondanza per toccare con mano i vuoti di tutela che restano
dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Vuoti che sta al legislatore,
di oggi o di domani, colmare”.
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