Enrico Zanellati si aggira per il frutteto con aria affranta. Guarda le
reti divelte, gli alberi caduti. Mostra un pilone di cemento piegato in due:
“Il vento è arrivato e ha schiantato tutto”. Questo agricoltore di 34 anni
conduce, insieme al padre e a due fratelli, un’azienda di 52 ettari nel delta
del Po, in provincia di Rovigo. Coltivano foraggi e cereali. E negli ultimi
anni hanno impiantato il primo frutteto della zona, mele e pere di diverse
varietà. “È stata una scommessa, in un’area considerata non particolarmente
adatta a questo tipo di produzioni”. Ad agosto, il giorno prima di
raggiungerli, una tromba d’aria si è abbattuta sui loro campi, distruggendo una
parte importante del frutteto. “Fortuna che siamo assicurati”, si consola
l’imprenditore, raccogliendo una delle centinaia di mele finite a terra sotto
l’effetto vorticoso del vento.
Gli eventi meteorologici estremi sono una
delle manifestazioni più evidenti del clima che cambia – e pesano sempre di più
su una produzione che già di per sé fa fatica a garantire un reddito adeguato
agli agricoltori. Il numero di fenomeni classificabili come trombe d’aria,
grandinate intense, piogge torrenziali è in netta crescita in Italia. Basta
guardare il database europeo dedicato a questo tipo di manifestazioni
meteorologiche per vedere come il nostro sia uno dei paesi più
colpiti: dall’inizio dell’anno a oggi, ci sono stati 1.643 eventi di questo
tipo. Cinque al giorno.
Un numero impressionante, che assume ulteriore rilevanza se si segue la sua
tendenza negli anni: nello stesso periodo del 2009, ce n’erano stati 258. Nel
1999, appena venti. Cosa succede? “L’aumento della temperatura del mar
Mediterraneo libera maggiore energia nell’atmosfera”, dice Antonello Pasini,
fisico del clima al Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che ha dedicato
diversi studi e un libro in uscita agli eventi estremi. “Questo surplus di
energia non può che scaricarsi violentemente sul territorio: fenomeni che un
tempo erano gestibili diventano più devastanti proprio a causa del
riscaldamento globale”.
Danni ignorati
Il futuro non sembra promettere nulla di buono per la produzione agricola del nostro paese. Secondo un recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, l’area mediterranea è letteralmente nell’occhio del ciclone, non solo perché questi fenomeni meteorologici straordinari diventeranno ordinari, ma anche perché le nostre latitudini saranno sempre più soggette a prolungate ondate di calore. Il che si tradurrà in un inesorabile spostamento verso nord delle coltivazioni: se l’innalzamento delle temperature potrà avvantaggiare alcune parti dell’Europa del nord – che registreranno maggiori tassi di produttività – in quella meridionale le rese di colture come grano, mais e barbabietola potranno diminuire fino al 50 per cento entro il 2050. Di conseguenza, il rapporto prevede che in Italia – anche in aree produttive importanti, come la pianura padana o le colline del Chianti – il valore dei terreni agricoli potrà diminuire fino all’80 per cento entro il 2100.
Il futuro non sembra promettere nulla di buono per la produzione agricola del nostro paese. Secondo un recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, l’area mediterranea è letteralmente nell’occhio del ciclone, non solo perché questi fenomeni meteorologici straordinari diventeranno ordinari, ma anche perché le nostre latitudini saranno sempre più soggette a prolungate ondate di calore. Il che si tradurrà in un inesorabile spostamento verso nord delle coltivazioni: se l’innalzamento delle temperature potrà avvantaggiare alcune parti dell’Europa del nord – che registreranno maggiori tassi di produttività – in quella meridionale le rese di colture come grano, mais e barbabietola potranno diminuire fino al 50 per cento entro il 2050. Di conseguenza, il rapporto prevede che in Italia – anche in aree produttive importanti, come la pianura padana o le colline del Chianti – il valore dei terreni agricoli potrà diminuire fino all’80 per cento entro il 2100.
“L’Italia registra la maggior perdita di valore delle terre agricole, tra i
58 e i 120 miliardi di euro”, si legge nello studio. Un futuro di campagne
abbandonate non è l’orizzonte distopico di qualche romanzo, ma una circostanza
da prendere seriamente in considerazione.
Se i fenomeni estremi guadagnano le prime pagine dei giornali quando
colpiscono le città – come hanno mostrato a novembre l’acqua alta a Venezia, le
piene dell’Arno e del Po, e la pioggia alluvionale che ha travolto con un mare
di fango il centro di Matera – lo stillicidio di disastri che sta minando
l’agricoltura italiana passa molto più inosservato. Secondo stime della Coldiretti, negli ultimi dieci
anni gli eventi estremi sono costati al comparto agricolo 14 miliardi di euro,
se si sommano danni a strutture, infrastrutture e produzioni.
La tromba d’aria che si è abbattuta sull’azienda della famiglia Zanellati
nel delta del Po ha colpito un’area piuttosto vasta. Ha provocato danni in
tutta la provincia di Rovigo e anche in quella di Ferrara, sulla riva destra
del fiume. Alle porte di Tresigallo, città nota per aver dato i natali al
gerarca fascista Edmondo Rossoni, che l’ha trasformata in una culla
dell’architettura razionalista, l’azienda di Roberto Cera è una delle più
importanti della zona. I suoi frutteti si estendono su cento ettari. “Il vento
fortissimo dell’altro giorno non è che l’ultima manifestazione di un clima che,
da qualche anno a questa parte, non è più prevedibile”, dice l’agricoltore
mentre mostra le diverse varietà di pere che coltiva, tra cui una sperimentale
con la polpa rosa. “Quest’anno ha fatto caldo molto prima del previsto, ma a
maggio la temperatura si è abbassata velocemente. Questo ha interrotto le
fioriture e sottoposto a un incredibile stress le piante. Così ci troviamo con
una produzione più che dimezzata”.
Nelle terre anfibie
L’azienda di Cera si trova al centro delle cosiddette terre anfibie. Sono 250mila ettari incastonati tra il Po, il Reno e il Panaro, che con un’impresa ingegneristica straordinaria sono stati bonificati e letteralmente strappati all’acqua. “In alcune aree il terreno è quattro metri al di sotto del livello del mare”, sottolinea Mauro Monti, direttore del Consorzio di bonifica pianura di Ferrara.
L’azienda di Cera si trova al centro delle cosiddette terre anfibie. Sono 250mila ettari incastonati tra il Po, il Reno e il Panaro, che con un’impresa ingegneristica straordinaria sono stati bonificati e letteralmente strappati all’acqua. “In alcune aree il terreno è quattro metri al di sotto del livello del mare”, sottolinea Mauro Monti, direttore del Consorzio di bonifica pianura di Ferrara.
Su una mappa appesa al muro del suo ufficio al centro della città estense,
questo ingegnere sulla cinquantina indica i quattromila chilometri di canali
che deve gestire – “Quattro volte la distanza tra Aosta e Trapani” – e il
sistema di idrovore che aiutano a risucchiare l’acqua e avviarla verso il mare.
“Senza macchine, il territorio verrebbe in gran parte sommerso”.
Il direttore è reduce da una missione sul campo per valutare i danni della
tromba d’aria. Sul telefono fa scorrere foto di capannoni scoperchiati, piloni
caduti, casolari distrutti dal vento. “Uno dei miei tecnici, che è in servizio
da 38 anni, dice di non aver mai visto una cosa del genere”. Monti sa che la
sfida della crisi climatica è particolarmente complessa in un territorio
fragile come quello dove è stata fatta la bonifica. Mostra i dati delle serie
storiche sulle precipitazioni. “Il livello annuale è più o meno lo stesso, anzi
è in leggera diminuzione. Il problema è che queste piogge sono più intense.
Cade tanta acqua in poco tempo. E questo fa maggiori danni e non è utile
all’agricoltura”.
La scomparsa delle api
Oggi molto più di ieri gli agricoltori devono far fronte alle incertezze di un andamento climatico che non solo si può manifestare in modo estremo e distruttivo, ma è anche sempre meno prevedibile. L’oscillazione delle temperature in primavera non ha avuto un effetto dannoso solo sui frutteti, ma anche su un importante custode dei nostri ecosistemi: le api. “Visto il caldo precoce, le famiglie si sono riprodotte in modo massiccio prima dell’inizio della primavera. Nel mese di maggio, il freddo e le piogge hanno interrotto le fioriture. Risultato: c’erano tantissime api e pochissimo cibo in giro”, racconta Paolo Fontana, apicoltore di Isola Vicentina, ricercatore alla fondazione Mach di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, e autore del libro Il piacere delle api.
Oggi molto più di ieri gli agricoltori devono far fronte alle incertezze di un andamento climatico che non solo si può manifestare in modo estremo e distruttivo, ma è anche sempre meno prevedibile. L’oscillazione delle temperature in primavera non ha avuto un effetto dannoso solo sui frutteti, ma anche su un importante custode dei nostri ecosistemi: le api. “Visto il caldo precoce, le famiglie si sono riprodotte in modo massiccio prima dell’inizio della primavera. Nel mese di maggio, il freddo e le piogge hanno interrotto le fioriture. Risultato: c’erano tantissime api e pochissimo cibo in giro”, racconta Paolo Fontana, apicoltore di Isola Vicentina, ricercatore alla fondazione Mach di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, e autore del libro Il piacere delle api.
Questa situazione ha portato alla morte di famiglie intere e all’alimentazione
artificiale di altre attraverso la somministrazione di sciroppi zuccherini.
Così i mieli di alcune fioriture, come l’acacia, quest’anno non sono stati
prodotti. Ma gli effetti della scomparsa delle api – dovuta sia agli effetti
della crisi climatica sia all’abuso di pesticidi – vanno ben al di là della
mancanza occasionale di alcuni tipi di miele. Questi insetti impollinatori
hanno un ruolo primario nella produzione agricola, e quindi, in ultima istanza,
nella stessa sopravvivenza degli esseri umani sulla Terra.
“Il loro lavoro va considerato
fondamentale non solo per la riproduzione della frutta, ma anche per cibi di
origine animale come uova, latte, carne, perché gli animali si alimentano anche
grazie alle piante. Un boccone su tre di quello che mangiamo è il risultato di
un atto di impollinazione”, spiega Fontana.
Per dare concretezza alle sue parole, l’entomologo mostra due immagini:
nella prima si vede il reparto ortofrutta di un supermercato che abbonda di
prodotti; nella seconda lo stesso reparto è sguarnito, con i banchi quasi
completamente vuoti, si salvano solo arance e pomodori. Le due didascalie
recitano rispettivamente: la tua scelta di prodotti con o senza le api.
Invasioni aliene
A un insetto che scompare ne corrispondono altri che arrivano in massa. Nella sua azienda di Tresigallo, il signor Cera si aggira per i filari scrutando i frutti con attenzione. Cerca le tracce di una presenza molto poco gradita a lui come a tutti gli agricoltori della zona: la cimice asiatica. Alcune pere presentano le ammaccature tipiche lasciate dal passaggio dell’animale, ma tra le foglie non si vede alcun movimento. “Solo qualche giorno fa qui ce n’erano tantissime”, afferma. Avvistato per la prima volta in Emilia Romagna nel 2012, quest’insetto marrone dalla corazza resistente ha invaso a macchia d’olio i terreni di tutta l’Italia del nord. Dal Friuli-Venezia Giulia al Piemonte, è un coro unanime: la specie aliena originaria dell’estremo oriente è un flagello.
A un insetto che scompare ne corrispondono altri che arrivano in massa. Nella sua azienda di Tresigallo, il signor Cera si aggira per i filari scrutando i frutti con attenzione. Cerca le tracce di una presenza molto poco gradita a lui come a tutti gli agricoltori della zona: la cimice asiatica. Alcune pere presentano le ammaccature tipiche lasciate dal passaggio dell’animale, ma tra le foglie non si vede alcun movimento. “Solo qualche giorno fa qui ce n’erano tantissime”, afferma. Avvistato per la prima volta in Emilia Romagna nel 2012, quest’insetto marrone dalla corazza resistente ha invaso a macchia d’olio i terreni di tutta l’Italia del nord. Dal Friuli-Venezia Giulia al Piemonte, è un coro unanime: la specie aliena originaria dell’estremo oriente è un flagello.
“Arrivata con i commerci internazionali, ha trovato da noi un ambiente
favorevole grazie agli inverni più miti degli ultimi anni”, sottolinea Lorenzo
Martinengo, tecnico agricolo della Coldiretti di Cuneo. “La cimice asiatica è
particolarmente pericolosa per le coltivazioni, da un lato perché molto
prolifica, dall’altro per la sua elevata polifagia, che le permette di causare danni a
più di trecento coltivazioni, dalle mele alle nocciole, dalle orticole ai
cereali”.
Martinengo ormai si occupa a tempo pieno di questo animale, studiandone il
comportamento e immaginando soluzioni. Girando con lui per la zona di Saluzzo,
centro nevralgico di una delle principali aree frutticole in Italia, è
possibile toccare con mano l’ampiezza di quella che è una vera e propria
catastrofe. Entriamo in un meleto a caso. Gli insetti sono su ogni pianta. Li
si vede tranquillamente in azione: si posano sui frutti, estraggono dalla bocca
una piccola cannuccia con cui bucano la scorza e succhiano il nettare. A pochi
metri di distanza, il proprietario dell’azienda sta ultimando la raccolta su un
trattore. Nel retro della macchina, le casse piene di frutti sono impilate su
due colonne. In una ci sono i frutti adatti alla vendita, nell’altra quelli da
scartare perché danneggiati dalle cimici. Il rapporto è di uno a dieci.
L’agricoltore, un uomo sulla sessantina con lo sguardo chino sul trattore, non
ha voglia di parlare. Si limita a scuotere la testa e a indicare le casse.
I danni provocati da questa specie infestante sono enormi. Il Centro servizi ortofrutticoli di Ferrara
ha calcolato sul comparto pere e pesche nell’Italia del nord nel 2019 un
mancato introito di 356 milioni di euro, a cui va sommata la perdita di 486mila
giornate di lavoro. Per contrastare la cimice si sta pensando di introdurre nel
sistema un antagonista naturale, la cosiddetta vespa samurai, un insetto di
circa un millimetro che accorpa le sue uova a quelle della cimice e le
neutralizza. Il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi
dell’economia agraria (Crea) di Firenze sta conducendo delle ricerche per
valutare come procedere e quale può essere l’impatto di questa strategia.
“È un rimedio che potrà rivelarsi efficace”, sottolinea Martinengo, “ma
bisognerà comunque attrezzarsi a convivere con specie aliene sempre più diffuse
e pericolose per le nostre produzioni. Nella stessa area sono già presenti
la Popillia japonica, un coleottero che si nutre di
vegetali e frutti riducendo le piante a scheletri; e la Drosophila suzukii, un moscerino della frutta, che
attacca ciliegie, mirtilli, fragole, lamponi e uva”.
Quanto la crisi climatica sta favorendo queste nuove presenze? “Molti studi
hanno mostrato una consequenzialità tra specie nuove invasive e mutamenti del
clima”, dice Piero Genovesi, che coordina un gruppo di ricerca e una banca dati
sulle specie aliene all’istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale (Ispra). “Dalla cimice asiatica alla zanzara tigre, per non parlare
di varie specie acquatiche la cui diffusione è facilitata dal canale di Suez,
tutti questi animali sono arrivati in seguito all’intensificarsi degli scambi commerciali
e hanno proliferato in aree come la nostra grazie alle temperature più alte”.
La sfida dell’adattamento
Tra specie invasive ed eventi catastrofici, i produttori agricoli sono allo stremo. “Gli squilibri climatici e il riscaldamento globale sono la grande piaga della nostra agricoltura”, sottolinea Stefano Calderoni, imprenditore agricolo del ferrarese e presidente della società Futurpera, che ogni anno organizza un’importante fiera delle pere nella città estense. “I pessimi risultati di quest’anno possono diventare la norma. Se fossimo costretti a cambiare completamente direzione e a rivedere le nostre produzioni, quanto costerebbe alle aziende e all’intera economia agricola acquisire nuove conoscenze?”, si domanda l’imprenditore. “Serve un’azione congiunta tra produttori e decisori politici in una battaglia per l’adattamento, che va combattuta territorio per territorio”.
Tra specie invasive ed eventi catastrofici, i produttori agricoli sono allo stremo. “Gli squilibri climatici e il riscaldamento globale sono la grande piaga della nostra agricoltura”, sottolinea Stefano Calderoni, imprenditore agricolo del ferrarese e presidente della società Futurpera, che ogni anno organizza un’importante fiera delle pere nella città estense. “I pessimi risultati di quest’anno possono diventare la norma. Se fossimo costretti a cambiare completamente direzione e a rivedere le nostre produzioni, quanto costerebbe alle aziende e all’intera economia agricola acquisire nuove conoscenze?”, si domanda l’imprenditore. “Serve un’azione congiunta tra produttori e decisori politici in una battaglia per l’adattamento, che va combattuta territorio per territorio”.
Rispondere a una sfida così epocale non è semplice. I governi in Italia solitamente
reagiscono con interventi ex post, decretando stati di calamità e stanziando
fondi per colmare le perdite subite dagli agricoltori. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc),
elaborato dal ministero dell’ambiente dopo una consultazione pubblica nel 2017,
sembra per il momento rimasto nel cassetto. Mancano interventi strutturali in
grado di affrontare quella che è già percepita come una delle emergenze dei
nostri tempi.
Se la politica segna un po’ il passo, gli agricoltori stanno cominciando a
rimboccarsi le maniche. Sono in molti ad aver messo in campo strategie di
adattamento. Chiara Boschis è una di questi. Nei suoi vigneti sulle Langhe, tra
le splendide colline patrimonio Unesco, applica alla sua produzione una precisa
filosofia: “L’agricoltura deve essere fatta in sintonia con la natura, con un
approccio più equilibrato”. Già parte del movimento dei “Barolo boys”, il
gruppo che negli anni novanta ha rivoluzionato la produzione di quel vino e
l’ha trasformato in un prodotto d’eccellenza, Boschis oggi è in prima fila in
una battaglia culturale per un modo diverso e più sostenibile di vivere e
curare la terra. Ai margini del suo campo si vedono nidi di pipistrelli,
passeri, upupe e rapaci predatori, usati contro i parassiti. Tra i filari viene
piantata ogni anno una mistura di sementi di cereali e leguminose che poi
vengono tagliati e lasciati in loco per concimare il terreno.
“Una pianta equilibrata è più forte
e questo è sempre più importante in uno scenario in cui il clima cambia”, dice
l’imprenditrice. Insieme ad altri produttori, Boschis ha aderito a un codice
che è poi diventato un marchio, the green experience,
un elemento distintivo da proporre sulle bottiglie ai compratori.
Si tratta di un’esperienza pilota, più semplice per vini ad alto valore
aggiunto come quelli delle Langhe, meno per prodotti di largo consumo e basso
prezzo come la frutta o le piante orticole. Ma è una sfida che l’agricoltura e
la politica dovranno necessariamente cogliere per scacciare gli effetti di un
futuro di crisi che già si stanno misurando nel presente.
È lo stesso rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente a indicare la
strada. Invece di ripiegarsi in un atteggiamento fatalista e di aspettare
inermi la tempesta in arrivo, lo studio sottolinea come le previsioni siano
“statiche” e possano essere “compensate da dinamiche socioeconomiche come cambi
nell’efficienza produttiva in agricoltura e azioni di adattamento”. Tra
adattarsi o soccombere, la prima scelta sembra decisamente la più ragionevole.
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