Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di
recente fatto con mio figlio.
È strano il modo in cui, con il tempo, certi ricordi sembrano diventare non
più sfuocati, ma più nitidi. Come se il fluire degli anni togliesse tutti i
dettagli irrilevanti, e lasciasse solo un’immagine stilizzata incisa nella
memoria.
Ecco: nei ricordi del viaggio che ho fatto a Shanghai nel 2005 ci sono due
immagini essenziali, nettissime. Smetto di scrivere, frugo nel disordinato
archivio delle foto e trovo proprio quello che mi ero stampata in mente. Ma,
nella mia memoria, dentro alla scena ci sono anch’io.
La prima immagine è notturna: sono in mezzo a una gran folla che preme da
tutte le parti, e c’è un abbacinante muro di luci al neon i cui colori acidi
riverberano all’infinito sulle facce delle persone e sui loro vestiti. Mi sento
spaesata come mai mi era successo prima.
La seconda immagine è colorata di tinte chiarissime. È il quartiere di
Pudong, con la sagoma della torre Oriental Pearl che si staglia iridescente tra
l’acqua e il cielo. Fa un caldo feroce, ma non ho mai visto niente del genere e
sono incantata: è come se mi fossi tuffata dentro un fumetto di Moebius, e
provassi ancora tutta la vertigine del tuffo.
Certo: se rivedessi oggi la Shanghai del 2005 di sicuro non mi farebbe la
stessa folgorante impressione. Ma il fatto è che adesso sto vedendo la Shanghai
del 2019. Che mi dà il medesimo brivido di futuro che ho sperimentato
quattordici anni fa. Per raccontare bene perché, però, prima devo aggiungere
alcune (assai sbrigative!) righe di coordinate storico-geografiche,
indispensabili per orientarsi.
Dunque.
Shanghai è già una città importante alla metà dell’otttocento, ed è sede di
insediamenti commerciali britannici, francesi e americani: sono le concessioni
strappate al governo cinese, sconfitto nella prima guerra dell’oppio.
Negli anni trenta è la quinta città più popolata del mondo, e il principale
centro commerciale e finanziario dell’Asia: è un posto dove emigra un sacco di
gente (ci abitano 70mila stranieri) e dove si può sul serio diventare ricchi.
Poi arrivano la guerra e l’occupazione giapponese.
Tutto cambia ancora nel 1949, quando l’esercito di liberazione della
Repubblica popolare cinese occupa la città. Negli anni seguenti quasi tutte le
aziende internazionali spostano la loro sede da lì a Hong Kong. Torneranno solo
nel 1990, quando la riforma economica di Deng Xiaoping aprirà nuovamente la
città ai capitali esteri.
Shanghai si trova sulla costa. Occupa una penisola sul delta del Chang
Jiang (fiume Azzurro), il più lungo della Cina. L’attuale centro di Shanghai è
attraversato dal fiume Huangpu (un affluente del fiume Azzurro) che separa i
distretti di Puxi (a ovest) e di Pudong (a est).
Oggi, con 24 e rotti milioni di abitanti, Shanghai è la più popolosa
megalopoli al mondo, e il suo porto è il più trafficato del mondo.
Nei decenni passati la città si è sviluppata soprattutto nel distretto di
Puxi, dove si trovano anche tutti gli insediamenti storici. Il distretto di
Pudong è rimasto una periferia piuttosto squallida fino a quando, nel 1990, non
si è deciso di trasformarla in un nuovo polo di attrazione per gli affari e la
finanza. L’operazione riesce perfettamente: la crescita dell’area è vertiginosa
e il valore economico sviluppato da Pudong nel 2018 è 165 volte il valore del 1990.
La Oriental Pearl, la torre televisiva di Shanghai che tanto mi ha
incantata la prima volta che l’ho vista, è stata costruita tra il 1991 e il
1995. Continua a essere un edificio unico e sorprendente. Di notte, cambia
continuamente colore, e giuro che l’effetto non è kitsch, ma incantevole. Oggi
è l’icona di Shanghai, così come la torre Eiffel è l’icona di Parigi.
Quando l’ho vista per la prima volta, però, lì intorno c’era solo un altro
grattacielo: la torre Jin Mao. Nel 2008 è stato completato il World financial
center, soprannominato l’apribottiglie per via della forma piatta e
dell’apertura rettangolare alla sommità. È stata invece completata nel 2014, e
aperta al pubblico nel 2016, la torre Shanghai. È il grattacielo più alto della
Cina, il secondo al mondo, e non è facile vederlo tutto quanto perché la
sommità spesso sparisce tra le nuvole o si perde nella foschia.
L’intero comprensorio si è riempito di altri edifici altissimi e
scintillanti. Un bel time lapse dell’Atlantic può darvi
un’idea immediata di quanto è successo.
Nuvole permettendo, dalla sommità della Shanghai tower si può vedere un
magnifico panorama della città. Ci saliamo al tramonto. L’ascensore va su
velocissimo (viaggia a 65 chilometri all’ora) e sale per oltre 600 metri in un
batter d’occhio, ma l’effetto dell’accelerazione è quasi impercettibile. Il
belvedere è gremito di gente che chiacchiera, beve, si fa selfie, manda
messaggi e sì, ogni tanto guarda anche la città illuminata, bellissima al di là
delle vetrate. Per avvicinarsi e guardare fuori c’è da sgomitare.
Costruire grattacieli a Shanghai è un problema non banale. Siamo sul delta
di un fiume (il terreno è alluvionale e instabile). L’area è percorsa da tifoni
che portano con sé piogge e venti fortissimi, mettendo a dura prova gli edifici
più alti. E anche se non siamo esattamente in una zona sismica bisogna comunque
tener conto dei terremoti. Queste condizioni avverse costituiscono un motivo in
più di meraviglia per chi osserva i grattacieli di Shanghai.
Tuttavia, la cosa che più mi colpisce di Pudong com’è oggi è tutto ciò che
si vede ai piedi dei grattacieli. Uno pensa: la folla, il traffico, no?
E invece tra un grattacielo e l’altro si vedono ampi passaggi pedonali
sopraelevati. E una insospettabile quantità di verde. Dal centro del distretto
finanziario si può arrivare a piedi fino alla riva del fiume, camminando
all’altezza delle cime degli alberi e sopra il traffico che scorre silenzioso.
Il motivo di tutto quel verde non è solo estetico, e non riguarda nemmeno
solo la qualità dell’aria o il contrasto al riscaldamento globale. Il governo
considera i parchi e le aree alberate come parte integrante dell’infrastruttura
urbana, con l’obiettivo dichiarato di rendere Pudong non solo economicamente,
ma anche emotivamente attraente per i migliori talenti del paese e del mondo.
Senza contare che il verde accresce in modo significativo, con la qualità della
vita dei residenti, anche il valore degli uffici e delle abitazioni
A Pudong, usciamo a cena con un altro amico cinese che mio figlio ha
conosciuto negli Stati Uniti. Ci incontriamo in un enorme ristorante a prezzo
fisso. È all’interno dell’ennesimo shopping mall lussuoso, luccicante,
traboccante di marchi della moda, ed è proprio di fronte al grattacielo in cui
lui lavora da qualche mese come analista finanziario. Arriva trafelato, ma
inappuntabile in giacca e cravatta.
È gentile e un po’ formale. Mi spiega che viene da una piccola cittadina
cinese (solo un milione di abitanti, dice). Il fatto che lui abbia trovato
lavoro a Pudong ha reso orgogliosa la sua famiglia, ma le cose sono meno
semplici di come lui racconta a casa. La vita è carissima e lui deve stare
molto, molto attento a capire le dinamiche dell’ufficio, quelle palesi e quelle
implicite, e a non fare errori. Gli errori non sono tollerati, dice.
Finiamo di cenare presto: lui ha trovato una casa a prezzi accessibili solo
in un’estrema periferia, e per rientrare dovrà farsi quasi un’ora di
metropolitana.
Lo rivediamo prima di partire: si presenta con un’enorme confezione rossa
e dorata di mooncake, un dolce
tradizionale e beneaugurante che si mangia in autunno. I dolci della luna sono
connessi con la leggenda di un amore eroico e infelice, che lui ci racconta. E
io mi intenerisco per questo giovane timido e cerimonioso, solo in una città
enorme, tutto teso a non deludere la sua famiglia, e che racconta storie
d’amore.
Noi ovviamente non giriamo solo per Pudong. Il fiume si attraversa
facilmente in metropolitana (evitiamo lo stucchevole sottopassaggio pedonale,
turistico e pieno di luci, con carissimo ingresso a pagamento). La
metropolitana è economica, capillare, linda, affollata (nelle ore di punta, spintonarsi
per entrare nelle carrozze è la regola). In ciascuna carrozza si trova uno
schermo che a ciclo continuo rimanda immagini di inaugurazioni, celebrazioni,
bambini sorridenti e folle che cantano e agitano la bandiera rossa della
Repubblica popolare cinese.
Nel distretto di Puxi c’è il Bund, con i solenni edifici del primo
novecento e la vista di Pudong più nota. Basta affacciarsi al parapetto che dà
sul fiume per trovarsi con il passato alle spalle e il futuro davanti agli
occhi.
A proposito di cambiamenti: camminando lungo il Bund nei giardini che si
snodano poco oltre il monumento a Mao Zedong (più che scrutare l’orizzonte
sembra sorvegliare che i passanti si comportino bene) intercetto un’immagine
che mi sembra esemplare.
Un uomo e una donna affiancati guardano ciascuno il suo telefono cellulare,
e poco distante un’anziana signora prega a mani giunte, con un libro aperto
sulle ginocchia. Sono tutti ugualmente assorti, ciascuno nella sua vecchia, o
nuova, religione.
Vediamo i templi, e il gremitissimo giardino del mandarino Yu. Ci
inoltriamo per Nanjing road, che di notte è ancora più illuminata di come la
ricordavo. Ogni due passi c’è qualcuno che ci offre di comprare un orologio
falso. Andiamo nell’enorme piazza del Popolo, in un angolo del cui parco si
tiene ogni fine settimana il mercato dei matrimoni: nonni e genitori
cercano sposi per i loro figli single, esponendone sintetiche biografie con
peso, altezza, istruzione, reddito.
Ci spingiamo (mezz’ora di metropolitana) fino a un remoto sobborgo per
trovare una lavanderia e fare il bucato. E andiamo a vedere Zhujiajiao, una
piccola città d’acqua poco distante da Shanghai: canali, ponti di pietra,
edifici centenari affacciati sull’acqua.
Anche lì la pressione turistica dev’essere alta: un cartello all’ingresso
avverte che in città non sono ammessi più di 33.784 visitatori al giorno, e non
più di 14.077 visitatori in contemporanea. Per fortuna siamo arrivati in una
mattinata di scarso flusso, ma mi chiedo quale strana cabala stia dietro quei
numeri così esatti.
Dicevo che, della mia visita precedente ho un altro ricordo netto, che però
riguarda una sensazione fisica: un caldo brutale, intollerabile, che non ti
lascia scampo. Così, in un pomeriggio torrido ci ripariamo nel più noto dei
tanti mercati dei falsi, vicino al Science and technology museum, giusto per
vedere com’è.
All’uscita della metropolitana, e senza nemmeno dover risalire al livello
della strada, ci troviamo in un labirinto di negozietti che vendono occhiali,
borse, maglie delle squadre di calcio, scarpe, abiti, telefoni cellulari,
valigie. È tutto sottoterra e, sarà per via dei neon che danno a ogni cosa una
vibrazione livida, sarà per l’odore di cibo, sarà perché non siamo così
interessati alle merci esposte, dopo poco ce ne usciamo con un certo sollievo.
C’è invece un angolo di Shanghai divertente e vitale e che – forse perché è
stato ripulito sì, ma non troppo – nonostante l’impatto turistico riesce a conservare
una dose d’anima.
Il posto si chiama Tianzi Fang, ed è all’interno della concessione
francese. Lì si trovano ancora case di pietra degli anni trenta, edificate
nello stile Shikumen, che mescola elementi cinesi e
occidentali ed è tanto tipico per Shanghai quanto gli hutong lo sono per Pechino.
Ci arriviamo di sera, a piedi e in maniera un po’ fortunosa perché
l’ingresso all’area non è per nulla evidente. Il posto è un’infilata di strade
strettissime e cortili uno dentro l’altro, e una festa di luci. Mangiamo una
ciotola di noodles in brodo, fatti al
momento e piccanti, in un ristorante così minuscolo che ci stanno solo tre
tavoli, il bancone e l’accrocco per fare i noodles, affacciato sulla strada.
A un banchetto di dolci, e dopo averne assaggiati svariati, ci compriamo un
cartoccio di torroncini alla rosa. E poi andiamo a perderci tra le luci.
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