Ha destato molto clamore lo sversamento di paraffina
(“qualche centinaio di litri”, che volete che sia mai?) durante un’operazione
di carico di una nave davanti agli impianti della Saras, a Sarroch.
La Saras nel 2018 ha fatturato 9,20 miliardi di euro
(vedi foto allegata, fonte https://www.reportaziende.it/saras_spa_o),
controlla una società, la Sarlux per la produzione di energia elettrica della
potenza di 555 MWe che soddisfa quasi il 50% dell’intero fabbisogno isolano.
Come combustibile utilizza il Syngas, un gas di
sintesi derivato dagli scarti di lavorazione del petrolio, e così facendo da
una parte si libera di rifiuti tossici per il cui smaltimento dovrebbe pagare
cifre consistenti e dall’altra produce energia elettrica che vende a prezzo
superiore al valore di mercato grazie ai famosi CIP6, i sostanziosi incentivi
che permettono di equiparare gli scarti di lavorazione alle rinnovabili,
incassando centinaia di milioni di euro all’anno.
In questo modo, avendo la Sarlux priorità di
dispacciamento, ovvero il diritto di immettere in rete senza limiti – cosa che
fa producendo a pieno regime per circa 8.000 ore all’anno – condiziona
pesantemente il sistema energetico sardo impedendo la regolare transizione
verso il rinnovabile e sottraendo soldi pubblici da dedicare proprio a progetti
e interventi di riduzione delle emissioni nocive. Ciliegina sulla torta, il
territorio circostante la centrale viene devastato per chilometri e chilometri
dalle emissioni pestilenziali prodotte in gran quantità.
Ora, questo della Sarlux non è che un particolare
dell’intero quadro rappresentato dalla raffineria Saras. Come le cronache
degli ultimi anni ci raccontano, gli incidenti di ogni ordine e grado si
succedono in questo stabilimento, ma mai nulla e nessuno ha messo in
discussione lo stabilimento stesso e la sua gestione.
C’è da dire che, pur senza gli eccessi attualmente
registrati, date le dimensioni dello stabilimento, anche lavorando nelle
migliori condizioni e nel rispetto di tutte le normative, le ricadute sul
territorio risulterebbero allo stesso modo devastanti.
Onestamente si potrebbe anche dire che, fino a quanto
faremo uso dei fossili, sarebbe poco corretto parlare di chiusura della
stabilimento per trasferirlo altrove. Per liberarci di questo mostro con
tutte le sue aberrazioni evitando di trasferirlo a casa d’altri, sarebbe perciò
necessario comprendere cosa è necessario fare.
La prima e urgente azione è spingere al massimo la
transizione rinnovabile: prima ci libereremo dei fossili, prima potremo parlare
di chiusura e riconversione dello stabilimento. La seconda, legata alla
prima, è la progressiva riduzione dell’impiego del fossile che inevitabilmente
andrebbe a limitare la produzione e l’emissione di veleni di ogni genere e
sorta.
La terza, ma non per ordine di importanza, è
l’eliminazione di ogni forma di incentivo che consente ancora oggi alle lobbies
del fossile di restare competitive, condizionare e manipolare il panorama
energetico. La quarta, è il ritorno del controllo pubblico, o meglio
sarebbe dire collettivo (e perciò non statale) sulla produzione energetica, e
qui di seguito spiegherò perché.
Se tu sei una multinazionale che fattura diversi
miliardi di euro all’anno, avrai alle tue dipendenze stuoli di professionisti
incaricati di trovare ogni sistema utile ad accrescere ulteriormente il tuo
fatturato. Questi soggetti si occuperanno di promuovere l’immagine della
società a cominciare dalle scuole fino alle più alte istituzioni; se necessario
acquisteranno organi di stampa, li controlleranno o cercheranno di
condizionarli.
Eserciteranno pressioni sulle istituzioni per ottenere
leggi speciali e ad hoc, concessioni e deroghe e quanto necessario per svolgere
o favorire la propria attività. Valuteranno se finanziare la campagna
elettorale di qualche politico di comodo e cercheranno comunque di condizionare
l’azione politica. Valuteranno se finanziare degli studi scientifici in
grado di avvalorare la bontà delle attività svolte dalla società.
Di fronte ad una specifica norma ambientale, ad un
limite o un vincolo, valuteranno se conviene rispettarli, quali sono le
conseguenze economiche, sempre che ci siano, in caso di violazione, o se è più
conveniente fare pressione sulle istituzioni affinché vengano modificati o
rimossi, e le eventuali conseguenze sull’immagine della società.
Di fronte ad una specifica norma ambientale, ad un
limite o un vincolo che non si vuole rispettare valuteranno se intervenire
esercitando pressioni o minacciando la chiusura e il
licenziamento. Valuteranno se farsi essi stessi promotori di norme più
severe, che tanto non rispetteranno, al fine di darsi un’immagine più
ambientalista.
Di fronte a determinati rischi e pericoli sulla salute
dei lavoratori, valuteranno se conviene prendere i corretti provvedimenti o se
invece siano inferiori i costi economici di un eventuale risarcimento, se mai
ci sarà; anche perché le cause in tribunale possono trascinarsi per anni con un
eventuale finale nulla di fatto.
Se tu sei una multinazionale che fattura diversi
miliardi di euro all’anno, probabilmente le tue valutazioni saranno tutte di
natura prettamente economica, inclusa la vita dei tuoi dipendenti e addirittura
la tua vita stessa.
Se tu sei una multinazionale che fattura diversi
miliardi di euro all’anno, non ci saranno incidenti casuali ma incidenti
calcolati per i quali, salvo casi eccezionali, hai un ufficio stampa già pronto
a ridimensionare e/o fornire tutte le rassicurazioni del caso.
Perciò, cosa volete che sia qualche centinaio di litri
di paraffina sversato in mare?
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