venerdì 3 gennaio 2020

Costruirsi un passato nuovo di zecca a Taiyuan - Annamaria Testa (5)




Per arrivare a Taiyuan da Pechino bastano circa quattro ore di treno. La campagna che scorre oltre il finestrino mi colpisce. Mi aspettavo tanta agricoltura intensiva, invece i campi che vedo sono stranamente piccoli e irregolari.
Tra i campi, in mezzo al nulla e in apparenza senza alcuna logica, sorgono isolati agglomerati di decine di torri per appartamenti, edificate una accanto all’altra, alte sui trenta piani, che si alternano a villaggi di case basse.
Alcuni sono lontani e svettano sul verde, altri sono letteralmente affacciati sulla ferrovia. Visti da vicino sembrano l’ambientazione di una serie televisiva distopica.
Ci stiamo dirigendo verso sudovest, alla ricerca di suggestioni dalla Cina del passato. Troveremo qualcosa di diverso da ciò che ci aspettiamo, e di più complesso e spiazzante.
Anche nella periferia di Taiyuan, ai bordi della strada che porta a Pingyao, vediamo un’imponente schiera di torri tutte uguali. Veniamo a sapere che sono il massimo del lusso per quel territorio: abitazioni di 200-500 metri quadri l’una, enormi per lo standard cinese (beh, anche per il nostro), in vendita a 3000 euro al metro quadro e molto ambite dall’élite locale.
Di fronte alle torri, però, in mezzo e al di là della strada, ci sono interminabili infilate di alberi di recentissimo impianto (come si riconosce un albero appena piantato? Facile: ci sono i tutori – pali di sostegno che vanno poi rimossi nel giro di qualche stagione). Torri e alberi sono le due facce del nuovo sviluppo cinese. E noi ci stiamo passando proprio in mezzo.
Secondo il World economic forum, nel prossimo decennio metà delle nuove costruzioni mondiali sarà cinese. Stiamo parlando di qualcosa come due miliardi di metri quadri costruiti ogni anno.
Ma l’altra cifra impressionante riguarda la riforestazione: il governo cinese afferma di aver piantato 66 miliardi di alberi in tredici province a partire dal 1979, quando il piano intitolato Grande muraglia verde è stato varato con lo scopo primario di contrastare l’avanzata dei deserti. Soprattutto nel nord del paese, ogni anno viene riforestata una superficie corrispondente a quella dell’intera Irlanda.
Oggi, facendo leva su una capacità di pianificazione e controllo che non ha uguali, il governo vuole che siano “verdi” le nuove città, e una percentuale significativa dei nuovi edifici.

Conquistare la leadership
Si tratta non solo di contrastare l’inquinamento, che in alcuni distretti industriali resta ancora terribile, ma anche di modificare radicalmente l’immagine della Cina come “grande inquinatore”. Di cogliere le molte opportunità economiche connesse con lo sviluppo di tecnologie per l’energia pulita. E di sperimentare su larghissima scala modi innovativi di costruire e di abitare.
Infine, si tratta di conquistare un ruolo di leadership per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, occupando la posizione lasciata vacante dagli Stati Uniti di Donald Trump. Un progetto tanto ambizioso quanto visionario.
Di tutto questo, i mille e mille alberelli appena piantati sulla strada per Pingyao, come i moltissimi altri che vedremo viaggiando nei giorni successivi, sono solo un microscopico indizio.
D’altra parte, nel corso di tutto questo viaggio stiamo andando proprio in cerca di indizi e di segnali, anche piccoli, che però rimandano a grandi cambiamenti.
Poco prima di arrivare a Pingyao ci imbattiamo in un posto curioso, in altri indizi e in una storia così interessante che merita di essere raccontata. Riguarda la Qiao Jia Dayuan. Cioè, la residenza della famiglia Qiao.
È un luogo che si può definire in molti modi. È un sito storico. Un set cinematografico. Una destinazione turistica, e una macchina per far soldi. Una spudorata mescolanza di un quarto di vero e tre quarti di artefatto.
Ma il sito è anche l’espressione di un forte intento pedagogico governativo. E un imprevedibile elogio della prosperità, conseguita grazie all’applicazione costante dei valori confuciani: tradizione, moderazione, responsabilità, tenacia nelle difficoltà, rispetto dei legami familiari e sociali, armonia attraverso la gerarchia.

Ed ecco la storia.
I Qiao sono mercanti. Il patriarca Qiao Guifa viaggia e vende tè e tofu nelle regioni della Mongolia interna, e si arricchisce. Torna a casa e nel 1755 comincia a costruire la residenza familiare. Negli anni, il complesso crescerà fino a comprendere 313 stanze, organizzate secondo una rigida geometria di cortili, giardini e passaggi interni, e un altrettanto rigida simbologia: l’intero complesso ha infatti la forma del carattere cinese xi, che significa “doppia felicità”.
Anche in Cina si dice che la prima generazione accumula ricchezza, la seconda la conserva e la terza la sperpera. Nel caso dei Qiao non è così. Generazione dopo generazione, la famiglia si costruisce un’ottima reputazione adottando severe norme di comportamento: niente alcol, niente oppio, niente scommesse, niente abusi sui servi, niente concubine “perché le donne portano guai”.
La terza generazione dei Qiao controlla più di 200 negozi nella regione e, avendo bisogno di trasferire soldi in modo sicuro, inventa il sistema bancario cinese. Ai tempi delle guerre dell’oppio (e siamo a metà ottocento) i Qiao prestano denaro al governo. Ai primi del novecento salvano sette suore italiane durante la rivolta dei boxer: l’ambasciata d’Italia, per ringraziare, dona alla famiglia una bandiera italiana che sventolerà sulla proprietà nei decenni successivi salvandola, tra l’altro, dalla distruzione giapponese.

Memoria funzionale al passato e al futuro
In sostanza, il complesso degli edifici resta miracolosamente intatto nel corso di tutto il novecento, rivoluzione culturale compresa. Nel 1986 lo acquisisce il governo e lo trasforma in museo. Nel 1991 il regista Zhang Yimou lo usa come set per le riprese del film Lanterne rosse.
Accolto con entusiasmo in Europa e negli Stati Uniti, il film in Cina è in un primo tempo considerato una metafora critica del potere totalitario, e censurato. Oggi lo si può scaricare senza alcun problema dallo YouTube cinese.
“Quello era un vecchio modo di pensare”, taglia corto scrollando le spalle una delle hostess in costume tradizionale, quando le chiedo notizie della censura. Nel 2006 la tv di stato cinese ha narrato in una serie televisiva di 46 episodi (con qualche licenza artistica) la lunghissima vita di Qiao Zhiyong, il più eminente dei membri della famiglia.
I visitatori, in massima parte cinesi, che vengono a vedere la casa dei Qiao ci arrivano dopo aver percorso una spianata ai cui bordi si trova una serie di statue di bronzo, a grandezza naturale, ciascuna delle quali illustra e celebra una specifica conquista economica della famiglia, illustrata in dettaglio da didascalie in cinese e in inglese.
Molti si mettono in posa accanto ai Qiao di bronzo, rendendosi partecipi della scena rappresentata. Altre statue di bronzo sono collocate all’interno della proprietà. Penso che, più ancora che un museo e una testimonianza del passato, il sito voglia essere, appunto, una macchina per ricreare una memoria (e un’interpretazione del confucianesimo) altamente funzionale ai presenti e futuri progetti statali.
Se questo è l’intento, qualsiasi preoccupazione filologica passa ovviamente in secondo piano.
Il governo ha spostato gli abitanti che avevano casa in questi luoghi, indennizzandoli e collocandoli nelle nuove torri per abitazioni che si trovano a una decina di chilometri di distanza.
Poi, attorno al sito autentico ha edificato una replica, estesa tre volte tanto, destinata a ospitare negozi e ristoranti e costruita ex novo nello stile originale, solo con strade più larghe.
Marco D’Eramo, nell’illuminante Il selfie del mondo, parla dell’”inautentico turistico” come di un autentico (e dunque rimarchevole) segno del nostro tempo. E cita il caso di Lijang, città turistica cinese in larga parte ricostruita (oltre 20 milioni di visitatori nel 2013). È un insediamento che racconta una verità proprio nel suo essere del tutto artificiale.
Del resto, anche a casa Qiao, se arrivano sempre più turisti bisognerà ben trovare il modo di alloggiarli, nutrirli, intrattenerli e vendergli qualcosina, oltre a mostrargli le ricadute virtuose dell’applicazione dei princìpi confuciani, no?
È una logica che non fa una piega, e un ottimo esempio di pragmatismo cinese.
Pingyao è a circa cinquanta chilometri di distanza. Si tratta di una situazione diversa, ma non così diversa.
La cittadina è stata dichiarata sito Unesco nel 1997. Questa la motivazione: “Pingyao è un esempio eccezionalmente ben conservato di tradizionale città cinese han, fondata nel quattordicesimo secolo. Il suo tessuto urbano mostra l’evoluzione degli stili architettonici e dell’urbanistica della Cina imperiale, nel corso di cinque secoli”.
La città comprende circa quattromila edifici risalenti alle dinastie Ming e Quing (insomma: costruiti a partire dal 1300) e sei chilometri di cinta muraria risalenti al 1370. È stata un importantissimo centro bancario e del commercio dell’argento. Anche se oggi a Pingyao arrivano – ci dicono – otto milioni di turisti all’anno, si tratta al 99 per cento di cinesi, e la città continua a rimanere fuori dei percorsi più classici dei turismo occidentale. Le auto non possono oltrepassare la cinta muraria.
Le strade sono abbastanza affollate di gente che si guarda attorno, compra souvenir e, soprattutto, mangia (la specialità locale è un tipo di carne servita fredda e tagliata a fettine, ma ci sono anche mille negozi di dolci).
Tutto ciò paradossalmente, per noi che siamo occidentali, restituisce autenticità al posto: stiamo osservando non tanto un’antica città cinese, ma come i cinesi contemporanei visitano un’antica città cinese.
Buona parte di Pingyao è stata restaurata, ma a mano a mano che ci si allontana dalle vie centrali i negozi diventano più semplici, e noi facciamo davvero fatica a capire cosa vendono.
La vera cosa da fare è passeggiare, infilarsi nei vicoli, sbirciare nei cortili attraverso i portoni socchiusi, guardare i tetti dall’alto delle mura. Andiamo anche a visitare le sedi delle banche e il tempio confuciano, però.
Una signora del posto ci dice che in precedenza, e per diversi decenni, il tempio è stato trasformato nella sede del liceo di Pingyao. Lei ha studiato lì, e ricorda bene che nella sala dove oggi noi vediamo la statua di Confucio c’era la palestra di danza. Sui muri, a coprire le immagini dei discepoli di Confucio, la scritta “lunga vita al presidente Mao”.
Entriamo in un piccolo ristorante piuttosto defilato. Non devono essere troppo abituati ai clienti occidentali: tutti si agitano e il proprietario fa subito spostare in un’altra stanza un paio di clienti, o forse di familiari, che stanno mangiando la loro zuppa con il naso nella scodella.
Il proprietario non spiccica una parola d’inglese e ci capiamo a gesti, così non riusciamo a dirgli di non disturbarsi più di tanto. Ci offre il tavolo migliore accanto alla finestra e lo pulisce accanitamente con uno straccio. Resta a osservarci per tutto il tempo del pranzo, e sembra sollevato quando vede che usiamo senza problemi le bacchette. Per non offenderlo, ci tocca spazzolare via tutto, fino all’ultimo pezzo di verdura e all’ultimo sorso di un brodo non proprio memorabile.
L’anziano signore che ci accompagna in auto all’aeroporto parla con uno strano miscuglio di inglese e francese. Dopo aver scoperto che veniamo dall’Italia, si mette a cantare Bella ciao. L’ha imparata all’asilo come “canzone rivoluzionaria” (faccio un rapido calcolo: dev’essere stato negli anni cinquanta) e se la ricorda ancora. Tutta quanta, in ottimo italiano, fino all’ultima strofa.
Così, con la gradita partecipazione del figlio millennial, ci mettiamo a cantare Bella ciao a squarciagola mentre passiamo tra campi di granturco e filari di pioppi, e sembra quasi di essere nella pianura padana.
Questa estate “no rain, no rain, never”, ci dice il signore anziano: ma senz’acqua il mais resta basso e ci saranno problemi con il raccolto. E anche questo ci suona, ahimé, familiare.

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