Per arrivare a Taiyuan da Pechino bastano
circa quattro ore di treno. La campagna che scorre oltre il finestrino mi
colpisce. Mi aspettavo tanta agricoltura intensiva, invece i campi che vedo
sono stranamente piccoli e irregolari.
Tra i campi, in mezzo al nulla e in
apparenza senza alcuna logica, sorgono isolati agglomerati di decine di torri
per appartamenti, edificate una accanto all’altra, alte sui trenta piani, che
si alternano a villaggi di case basse.
Alcuni sono lontani e svettano sul verde,
altri sono letteralmente affacciati sulla ferrovia. Visti da vicino sembrano
l’ambientazione di una serie televisiva distopica.
Ci stiamo dirigendo verso sudovest, alla
ricerca di suggestioni dalla Cina del passato. Troveremo qualcosa di diverso da
ciò che ci aspettiamo, e di più complesso e spiazzante.
Anche nella periferia di Taiyuan, ai bordi
della strada che porta a Pingyao, vediamo un’imponente schiera di torri tutte
uguali. Veniamo a sapere che sono il massimo del lusso per quel territorio:
abitazioni di 200-500 metri quadri l’una, enormi per lo standard cinese (beh,
anche per il nostro), in vendita a 3000 euro al metro quadro e molto ambite
dall’élite locale.
Di fronte alle torri, però, in mezzo e al
di là della strada, ci sono interminabili infilate di alberi di recentissimo
impianto (come si riconosce un albero appena piantato? Facile: ci sono i tutori
– pali di sostegno che vanno poi rimossi nel giro di qualche stagione). Torri e
alberi sono le due facce del nuovo sviluppo cinese. E noi ci stiamo passando
proprio in mezzo.
Secondo il World economic forum, nel
prossimo decennio metà delle nuove costruzioni mondiali sarà
cinese. Stiamo parlando di qualcosa come due miliardi di metri quadri costruiti
ogni anno.
Ma l’altra cifra impressionante riguarda
la riforestazione: il governo cinese afferma di aver piantato 66 miliardi di alberi in tredici province
a partire dal 1979, quando il piano intitolato Grande
muraglia verde è stato varato con lo scopo primario di
contrastare l’avanzata dei deserti. Soprattutto nel nord del paese, ogni anno
viene riforestata una superficie corrispondente a quella dell’intera Irlanda.
Oggi, facendo leva su una capacità di
pianificazione e controllo che non ha uguali, il governo vuole che siano
“verdi” le nuove città, e una percentuale significativa dei nuovi edifici.
Conquistare la leadership
Si tratta non solo di contrastare l’inquinamento, che in alcuni distretti industriali resta ancora terribile, ma anche di modificare radicalmente l’immagine della Cina come “grande inquinatore”. Di cogliere le molte opportunità economiche connesse con lo sviluppo di tecnologie per l’energia pulita. E di sperimentare su larghissima scala modi innovativi di costruire e di abitare.
Si tratta non solo di contrastare l’inquinamento, che in alcuni distretti industriali resta ancora terribile, ma anche di modificare radicalmente l’immagine della Cina come “grande inquinatore”. Di cogliere le molte opportunità economiche connesse con lo sviluppo di tecnologie per l’energia pulita. E di sperimentare su larghissima scala modi innovativi di costruire e di abitare.
Infine, si tratta di conquistare un ruolo
di leadership per quanto riguarda la sostenibilità ambientale, occupando
la posizione lasciata vacante dagli Stati Uniti di
Donald Trump. Un progetto tanto ambizioso quanto visionario.
Di tutto questo, i mille e mille alberelli
appena piantati sulla strada per Pingyao, come i moltissimi altri che vedremo
viaggiando nei giorni successivi, sono solo un microscopico indizio.
D’altra parte, nel corso di tutto questo
viaggio stiamo andando proprio in cerca di indizi e di segnali, anche piccoli,
che però rimandano a grandi cambiamenti.
Poco prima di arrivare a Pingyao ci
imbattiamo in un posto curioso, in altri indizi e in una storia così
interessante che merita di essere raccontata. Riguarda la Qiao Jia Dayuan. Cioè, la residenza della famiglia Qiao.
È un luogo che si può definire in molti
modi. È un sito storico. Un set cinematografico. Una destinazione turistica, e
una macchina per far soldi. Una spudorata mescolanza di un quarto di vero e tre
quarti di artefatto.
Ma il sito è anche l’espressione di un
forte intento pedagogico governativo. E un imprevedibile elogio della
prosperità, conseguita grazie all’applicazione costante dei valori confuciani:
tradizione, moderazione, responsabilità, tenacia nelle difficoltà, rispetto dei
legami familiari e sociali, armonia attraverso la gerarchia.
Ed ecco la storia.
I Qiao sono mercanti. Il patriarca Qiao
Guifa viaggia e vende tè e tofu nelle regioni della Mongolia interna, e si
arricchisce. Torna a casa e nel 1755 comincia a costruire la residenza
familiare. Negli anni, il complesso crescerà fino a comprendere 313 stanze,
organizzate secondo una rigida geometria di cortili, giardini e passaggi
interni, e un altrettanto rigida simbologia: l’intero complesso ha infatti la
forma del carattere cinese xi, che significa “doppia felicità”.
Anche in Cina si dice che la prima
generazione accumula ricchezza, la seconda la conserva e la terza la sperpera.
Nel caso dei Qiao non è così. Generazione dopo generazione, la famiglia si costruisce
un’ottima reputazione adottando severe norme di comportamento: niente alcol,
niente oppio, niente scommesse, niente abusi sui servi, niente concubine
“perché le donne portano guai”.
La terza generazione dei Qiao controlla
più di 200 negozi nella regione e, avendo bisogno di trasferire soldi in modo
sicuro, inventa il sistema bancario cinese. Ai tempi delle guerre dell’oppio (e
siamo a metà ottocento) i Qiao prestano denaro al governo. Ai primi del
novecento salvano sette suore italiane durante la rivolta dei boxer:
l’ambasciata d’Italia, per ringraziare, dona alla famiglia una bandiera
italiana che sventolerà sulla proprietà nei decenni
successivi salvandola, tra l’altro, dalla distruzione giapponese.
Memoria funzionale al passato e al futuro
In sostanza, il complesso degli edifici resta miracolosamente intatto nel corso di tutto il novecento, rivoluzione culturale compresa. Nel 1986 lo acquisisce il governo e lo trasforma in museo. Nel 1991 il regista Zhang Yimou lo usa come set per le riprese del film Lanterne rosse.
In sostanza, il complesso degli edifici resta miracolosamente intatto nel corso di tutto il novecento, rivoluzione culturale compresa. Nel 1986 lo acquisisce il governo e lo trasforma in museo. Nel 1991 il regista Zhang Yimou lo usa come set per le riprese del film Lanterne rosse.
Accolto con entusiasmo in Europa e negli
Stati Uniti, il film in Cina è in un primo tempo considerato una metafora
critica del potere totalitario, e censurato. Oggi lo si può scaricare senza
alcun problema dallo YouTube cinese.
“Quello era un vecchio modo di pensare”,
taglia corto scrollando le spalle una delle hostess in costume tradizionale,
quando le chiedo notizie della censura. Nel 2006 la tv di stato cinese ha
narrato in una serie televisiva di 46 episodi (con
qualche licenza artistica) la lunghissima vita di Qiao Zhiyong, il più eminente
dei membri della famiglia.
I visitatori, in massima parte cinesi, che
vengono a vedere la casa dei Qiao ci arrivano dopo aver percorso una spianata
ai cui bordi si trova una serie di statue di bronzo, a grandezza naturale,
ciascuna delle quali illustra e celebra una specifica conquista economica della
famiglia, illustrata in dettaglio da didascalie in cinese e in inglese.
Molti si mettono in posa accanto ai Qiao
di bronzo, rendendosi partecipi della scena rappresentata. Altre statue di
bronzo sono collocate all’interno della proprietà. Penso che, più ancora che un
museo e una testimonianza del passato, il sito voglia essere, appunto, una
macchina per ricreare una memoria (e un’interpretazione del confucianesimo)
altamente funzionale ai presenti e futuri progetti statali.
Se questo è l’intento, qualsiasi
preoccupazione filologica passa ovviamente in secondo piano.
Il governo ha spostato gli abitanti che
avevano casa in questi luoghi, indennizzandoli e collocandoli nelle nuove torri
per abitazioni che si trovano a una decina di chilometri di distanza.
Poi, attorno al sito autentico ha
edificato una replica, estesa tre volte tanto, destinata a ospitare negozi e
ristoranti e costruita ex novo nello stile originale, solo con strade più
larghe.
Marco D’Eramo, nell’illuminante Il selfie del mondo, parla
dell’”inautentico turistico” come di un autentico (e dunque rimarchevole) segno
del nostro tempo. E cita il caso di Lijang, città turistica cinese in larga
parte ricostruita (oltre 20 milioni di visitatori nel 2013). È un insediamento
che racconta una verità proprio nel suo essere del tutto artificiale.
Del resto, anche a casa Qiao, se arrivano
sempre più turisti bisognerà ben trovare il modo di alloggiarli, nutrirli,
intrattenerli e vendergli qualcosina, oltre a mostrargli le ricadute virtuose
dell’applicazione dei princìpi confuciani, no?
È una logica che non fa una piega, e un
ottimo esempio di pragmatismo cinese.
Pingyao è a circa cinquanta chilometri di
distanza. Si tratta di una situazione diversa, ma non così diversa.
La cittadina è stata dichiarata sito
Unesco nel 1997. Questa la motivazione: “Pingyao è un esempio
eccezionalmente ben conservato di tradizionale città cinese han, fondata nel
quattordicesimo secolo. Il suo tessuto urbano mostra l’evoluzione degli stili
architettonici e dell’urbanistica della Cina imperiale, nel corso di cinque
secoli”.
La città comprende circa quattromila
edifici risalenti alle dinastie Ming e Quing (insomma: costruiti a partire dal
1300) e sei chilometri di cinta muraria risalenti al 1370. È stata un
importantissimo centro bancario e del commercio dell’argento. Anche se oggi a
Pingyao arrivano – ci dicono – otto milioni di turisti all’anno, si tratta al
99 per cento di cinesi, e la città continua a rimanere fuori dei percorsi più
classici dei turismo occidentale. Le auto non possono oltrepassare la cinta
muraria.
Le strade sono abbastanza affollate di
gente che si guarda attorno, compra souvenir e, soprattutto, mangia (la
specialità locale è un tipo di carne servita fredda e tagliata a fettine, ma ci
sono anche mille negozi di dolci).
Tutto ciò paradossalmente, per noi che
siamo occidentali, restituisce autenticità al posto: stiamo osservando non
tanto un’antica città cinese, ma come i cinesi contemporanei visitano un’antica
città cinese.
Buona parte di Pingyao è stata restaurata,
ma a mano a mano che ci si allontana dalle vie centrali i negozi diventano più
semplici, e noi facciamo davvero fatica a capire cosa vendono.
La vera cosa da fare è passeggiare,
infilarsi nei vicoli, sbirciare nei cortili attraverso i portoni socchiusi,
guardare i tetti dall’alto delle mura. Andiamo anche a visitare le sedi delle
banche e il tempio confuciano, però.
Una signora del posto ci dice che in
precedenza, e per diversi decenni, il tempio è stato trasformato nella sede del
liceo di Pingyao. Lei ha studiato lì, e ricorda bene che nella sala dove oggi
noi vediamo la statua di Confucio c’era la palestra di danza. Sui muri, a
coprire le immagini dei discepoli di Confucio, la scritta “lunga vita al
presidente Mao”.
Entriamo in un piccolo ristorante
piuttosto defilato. Non devono essere troppo abituati ai clienti occidentali:
tutti si agitano e il proprietario fa subito spostare in un’altra stanza un
paio di clienti, o forse di familiari, che stanno mangiando la loro zuppa con
il naso nella scodella.
Il proprietario non spiccica una parola
d’inglese e ci capiamo a gesti, così non riusciamo a dirgli di non disturbarsi
più di tanto. Ci offre il tavolo migliore accanto alla finestra e lo pulisce
accanitamente con uno straccio. Resta a osservarci per tutto il tempo del
pranzo, e sembra sollevato quando vede che usiamo senza problemi le bacchette.
Per non offenderlo, ci tocca spazzolare via tutto, fino all’ultimo pezzo di
verdura e all’ultimo sorso di un brodo non proprio memorabile.
L’anziano signore che ci accompagna in
auto all’aeroporto parla con uno strano miscuglio di inglese e francese. Dopo
aver scoperto che veniamo dall’Italia, si mette a cantare Bella ciao. L’ha imparata all’asilo come “canzone
rivoluzionaria” (faccio un rapido calcolo: dev’essere stato negli anni
cinquanta) e se la ricorda ancora. Tutta quanta, in ottimo italiano, fino
all’ultima strofa.
Così, con la gradita partecipazione del
figlio millennial, ci mettiamo a cantare Bella ciao a squarciagola mentre passiamo tra
campi di granturco e filari di pioppi, e sembra quasi di essere nella pianura
padana.
Questa estate “no rain, no rain, never”, ci dice il signore
anziano: ma senz’acqua il mais resta basso e ci saranno
problemi con il raccolto. E anche questo ci suona, ahimé, familiare.
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