Sono arrivata in Tamil Nadu il
16 luglio di quest’anno con in mente un vago progetto di ricerca sul conflitto
ambientale, che sembra trovare in India un particolare nodo di sviluppo. L’India è infatti uno
dei BRIC, Paesi la cui economia è in
crescita e che sembrano ormai essere prossimi a raggiungere i colleghi
occidentali, in quanto a profitti e strategie economiche.
Il Governo
attuale, al cui vertice troviamo un partito nazionalista hindu come
il Bharatrya Janata Party,
sembra infatti voler puntare molto sullo sviluppo
del settore industriale, oltre che sulla produzione
di energia, soprattutto attraverso centrali idroelettriche e dighe. Del
resto il successo politico di Modi, attuale Primo
Ministro, eletto consecutivamente nel 2014 e poi nel 2017, è dovuto al fatto
che sembra promettere all’India una crescita
economica senza precedenti, concentrando ogni risorsa nel tentativo di
replicare il “piano Gujarat“.
L’India che siamo abituati a
vedere in televisione è quella di Mumbai, ricca e sfarzosa in alto, dove i grattacieli sfiorano le nubi
del monsone in arrivo, e sporca e degradata in basso, con i suoi chilometri di slum che sembrano
implorare per uno sguardo comprensivo l’uomo d’affari come il turista
occidentale.
Purtroppo il nostro sguardo
non arriva al resto dell’India, quella dei villaggi, delle campagne spopolate e depauperate da un sistema
che si auto-giustifica nel suo funzionamento sfruttatore. Un’India che sa di potersi
auto-sostentare semplicemente facendo affidamento sui ritmi
naturali, che però i cambiamenti
climatici che tutti stiamo contribuendo a creare stanno
stravolgendo drammaticamente. Un’India
purtroppo non sempre pienamente consapevole dei danni causati
all’ambiente e di come questi influiscano negativamente nella vita di tutti i
giorni.
.
Avendo studiato cooperazione conosco le maggiori teorie dello sviluppo,
comprese quella degli Stadi di Rostow e
quella della Dipendenza, o
ancora il ben noto Sistema-Mondo di
Wallerstein. Queste teorie hanno in comune un’unica visione dello sviluppo, che
dovrebbe essere comune ad ogni società, ogni cultura, ogni individuo.
Quest’idea in particolar modo ci dice che lo sviluppo è una linea ascendente,
una crescita continua che non raggiunge mai un plateau.
Adesso, come
ricercatrice sul campo che
fa uso di una lente più
prettamente antropologica, mi trovo a sostenere che in verità,
riconoscendo le differenze come ricchezze, dovremmo accorgerci di quanto questa visione sia parziale e
a tratti cieca.
In India al momento sono
attivi molti movimenti che sostengono l’interdipendenza invece che
l’indipendenza come
unica via, si veda il lavoro di Vandana Shiva e
del suo movimento come il messaggio lanciato a suo tempo da Gandhi e le sue
teorie sul “villaggio swaraj”.
Nell’attuale India, che vuole investire su risorse
energetiche e imprese private, ancora non ci si è resi conto che i residui culturali di una passata grande
civiltà vorrebbero opporsi allo sviluppo tradizionalmente inteso,
dando come alternativa una comunione autentica con la natura.
Questo è in particolar modo riferito al Tamil Nadu, Stato del Sud
del Paese che detiene specificità linguistiche, storiche e culturali
probabilmente non abbastanza valorizzate.
Siccome però il nostro focus resta sulle problematiche
ambientali, prendiamo ad esempio un fatto di cronaca di appena lo scorso anno e
torniamo per un momento ai fatti.
Vengo a conoscenza di quanto accaduto poiché al mio
arrivo vengo subito messa in guardia sul fatto che la mia ricerca potrebbe
farmi correre dei rischi. Infatti ormai da qualche tempo, qui in Tamil Nadu , la questione
ambientale è divenuta un argomento terribilmente scottante. Vi sono
state numerose proteste, ma una in particolar modo, avvenuta lo scorso anno,
sembra aver scosso pesantemente gli animi.
22 maggio 2018. Un corteo di oltre 20.000 persone
si raduna presso il distretto di Thootukudi, Tamil Nadu, nel Sud dell’India.
Quello che chiedono, dirigendosi presso gli uffici amministrativi, è che
la Sterlite Copper, impresa
che conduce attività estrattive in zona, smetta di inquinare il fiume
Thamirabarani, primaria fonte di sostentamento della popolazione per
agricoltura e pesca. 20.000 sono le persone accorse da ogni parte del distretto
e anche da fuori, parte di movimenti di attivismo che si ripromettono di
salvaguardare il fiume e le sue risorse, sempre più spesso vendute al miglior offerente,
senza alcun riguardo. Molti si sono ammalati per l’acqua e il cibo contaminato,
ad oggi si contano solo nel villaggio di Punnakayal 700 casi di cancro.
La protesta è pacifica, ma
qualcosa ad un certo punto porta il reparto di polizia della zona ad aprire il
fuoco sui manifestanti, uccidendo 13 persone, tra cui un ragazzo di 17 anni, e
ferendone alcune centinaia.
Grande è lo scalpore che si solleva, ma cresce anche la paura tra coloro che si
impegnano per la causa ambientale. L’India, la più grande
democrazia del mondo, e ancora considerata tra le più promettenti secondo il
rapporto annuale di Freedom House,
non sembra farsi problemi nel sedare le proteste nel sangue.
Nessun rilievo ha avuto la notizia per il resto del
mondo, perché 13 persone sembrano forse ancora piccoli numeri. In Tamil Nadu
però quelle 13 vite spezzate hanno avuto più di una conseguenza, prima fra
tutte quella di far intendere che se
il Governo sostiene le industrie c’è poco da fare. Questa è
l’impressione che può essere raccolta tra i villaggi, in cui pure alcuni
avrebbero ancora voglia e bisogno di scendere in strada a dire la propria.
In seguito all’incidente la Sterlite Copper viene chiusa, i terreni
adesso sono sotto sequestro governativo. Molti
sono convinti che riaprirà comunque, ma il fatto più grave è che vi sono
anche altre fabbriche che
scaricano sostanze nel fiume, come la DCW e la SPIC, e ormai opporvisi apertamente rappresenta un’impresa
impossibile.
Purtroppo la questione non si esaurisce così, neanche
l‘inchiesta che avrebbe dovuto essere
svolta dal Central Bureau richiesta per l’agosto 2018 dall’Alta
Corte di Madras, tutt’oggi non è stata completata, e quel che è peggio è
che i manifestanti sono a loro
volta stati oggetto di accuse
da parte del Sub
Judicial Magistrate (SJM),
che ha loro richiesto di presentarsi presso la propria sede giustificando il
perché non avrebbero dovuto essere aggrediti dalla polizia e ingiungendo loro
di astenersi da altre proteste per almeno sei mesi.
Nell’attuale clima
internazionale, con la
questione ambientale che, ahimè, non compare nell’agenda politica di molti Stati, l’India è un po’ quell’esempio
squisitamente tipico che non manca di lasciare l’amaro in bocca. In
particolar modo il Tamil Nadu, Stato meridionale, sembra venir sfruttato con
particolare cognizione di causa.
Ritorna il divario Nord-Sud che siamo abituati a
figurarci, che sembra comparire in piccola-media scala un po’ ovunque nel
mondo, a immagine e somiglianza di quella che sembra essere la situazione
globale.
In Tamil Nadu solo
recentemente è stato eletto un presidente di etnia tamil, mentre per molti anni
l’amministrazione è stata retta da politici provenienti da altri Stati, che
secondo i locali si sarebbero fatti ben pochi scrupoli a sfruttarne le risorse
per portare maggiori profitti.
Quello che è avvenuto a Thootukudi non è il primo
episodio a gettare una lunga ombra sulle azioni di governo, che spesso le
persone intuiscono come loro nemico, pronto a sostenere le azioni di chi può
pagare ma non quelle della povera gente. Qui
in Tamil Nadu l’agricoltura è la base stessa della cultura, tutti in
famiglia hanno almeno un agricoltore o possiedono un pezzo di terra. Sono
abituati a fare affidamento sulla natura per quanto riguarda il proprio
sostentamento, e su nient’altro. Conoscevano i ritmi delle piogge e i rimedi
per qualsiasi malattia. Ad oggi, purtroppo, poco può ancora farli appigliare al
loro antichissimo stile di vita. Ecco che, non sentendosi sostenuti dal
Governo, molti smettono pure di opporsi all’inquinamento e all’eccessivo
sfruttamento dell’unico fiume perenne dello Stato.
Per adesso, anche forse grazie a quelle 13 vittime, le
vicende della Sterlite hanno attirato l’attenzione dei media quanto basta per
permettere all’Alta Corte di Madras di intervenire e far chiudere la fabbrica,
che attualmente non causa più alcun problema agli abitanti della zona. Se fosse
altrettanto facile con le altre, che invece continuano a produrre e a inquinare
a scapito della popolazione locale, forse il passo verso la giustizia
ambientale sarebbe più corto, ma ora
come ora sembra che ci sia parecchia strada da fare.
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