L’albergo
migliore d’Europa non è un albergo. È un centro di accoglienza, il “Refugee
accommodation and solidarity space City Plaza”, che alcuni attivisti e giornali
chiamano appunto The best hotel in Europe. L’edificio, abbandonato dal 2008, è
stato occupato da un anno e mezzo, con il sostegno e l’appoggio di svariate
organizzazioni, un tempo vicine e ora deluse e arrabbiate con Syriza e i suoi
quadri. Ora il City Plaza ospita più di 350 rifugiati e gode del sostegno e del
lavoro, oltre che di gruppi e collettivi greci, di diverse decine di volontari
internazionali. Poco distante da piazza Victoria, punto di ritrovo di tanti
migranti che vivono ad Atene, in un quartiere tradizionalmente di destra, in
una città estremamente contraddittoria e violenta, il City Plaza rappresenta un
modello, una rivendicazione e una richiesta di un’accoglienza diversa, piena,
degna.
Al piano terra dell’edificio, si incontrano i volontari addetti alla
sicurezza. Il loro ruolo, oltre a quello di tenere la struttura aperta e
fruibile, consiste principalmente nel controllare che chi entra sia un
residente, un volontario o un visitatore. Con la notifica dell’ingiunzione di
sgombero e la decrescente ma comunque viva presenza di Alba Dorata, è bene
assicurarsi delle intenzioni dei visitatori. I turni della sicurezza coprono
tutte le 24 ore e vengono svolti, come tutte le attività dell’hotel, da
volontari internazionali, residenti e greci. Il che permette di gestire le
lamentele del vicinato e una notevole flessibilità nella Babele di lingue della
migrazione. Quotidianamente arrivano persone che chiedono un posto dove stare.
Purtroppo, in inglese, francese, arabo, farsi o greco, l’unica cosa che si
possa fare in quel momento è aggiornare un’impietosa lista, dove si indicano
nomi, un recapito e attuale sistemazione. Quest’ultima voce racconta di una
parte di città disperata, costretta a vivere in strada: street è la voce in
assoluto più ricorrente di un elenco di varie centinaia di nomi. Il criterio di
accoglienza non segue però esclusivamente la cronologia di questa impietosa
lista d’attesa. Uno spazio è riservato alle donne in stato di gravidanza,
malattie, situazioni critiche. A tutti questi aspetti viene data attenzione
particolare all’interno delle assemblee periodiche che valutano queste
situazioni per assegnare un posto o una camera liberi. 400 persone non sono che
una goccia nel mare magnum delle migrazioni. L’obiettivo non è spostare i
problemi di sovraffollamento dai campi in città, ma offrire un posto adeguato.
I residenti non sono pochi ma, assunta l’impossibilità di risolvere al livello
di un singolo posto la questione dell’accoglienza, si è preferito puntare sulla
qualità della vita. Considerati anche i tempi biblici della gestione delle
richieste di asilo e della conseguente attesa coatta, è sembrato ragionevole
creare un posto che possa assomigliare ad una casa comune. Un’attenzione particolare
viene riservata ai bambini: sono più di 100, che scorrazzano liberamente per i
corridoi e le scale dell’hotel, che fanno assemblee e riunioni per conquistare
il diritto di entrare al bar, che salgono sulla sedia per arrivare al bancone a
chiedere un bicchiere d’acqua. Giocano a fare i grandi: “water please!”, è la
richiesta più frequente anche tra gli adulti, visto che all’interno
dell’edificio è stato vietato il consumo di bevande alcoliche e il caldo si fa
sentire. La loro natura di bambini cresciuti troppo velocemente non è solo un
gioco. Si manifesta in ogni momento della vita quotidiana dell’albergo, una
furbizia e un’energia traboccante che cerca di essere incanalata dagli sforzi
dei volontari che hanno deciso di dedicare il loro tempo alla costruzione e
all’apertura di uno spazio giochi, alla proiezione di cartoni animati, film e
corsi di lingua per bambini. Per piccoli e grandi vengono organizzati corsi di
diverse lingue a vari livelli, alunni e insegnanti si scambiano i ruoli a
vicenda. Un volontario greco impara l’inglese insieme ad un ragazzo arabo da un
volontario scozzese, che si siede a sua volta affianco al greco nel corso di
arabo. Grazie alla determinazione di alcune volontarie, che hanno dovuto
affrontare molte resistenze interne alla stessa assemblea, una stanza è stata
adibita a women’s space: le donne possono ritrovarsi per staccare dai bimbi,
seguire corsi di danza, fare lezione. La domenica le famiglie e i volontari
vanno al mare, decidono insieme dove, preparano i panini e una simpatica
carovana invade i vagoni della metro e dei tram ateniesi. Abbattimento delle
barriere linguistiche e culturali e lavoro di comunità procedono
parallelamente. Dalle lezioni di lingua, ai turni in cucina, le attività
nell’hotel vengono organizzate tramite assemblee aperte, in cui non serve il
patentino di militante per prendere parola, alle quali partecipano attivamente
residenti e volontari. In cucina lo chef cambia continuamente e, a turno,
qualcuno si assume la responsabilità di preparare uno dei tre pasti giornalieri
da offrire gratuitamente nel salone comune. Anche in cucina lo chef coordina,
non comanda, come il “nuovo politico” che Dolci si augurava, perché la parola
politica potesse avere il senso pieno di “complesso delle azioni per cui le persone,
i popoli, determinano la direzione della propria vita”. Politica è la parola
chiave dell’equilibrio raggiunto al Plaza. Garantire il rispetto dell’intimità,
un posto degno e accogliente in cui stare, la possibilità di partecipare e di
attivarsi mentre si aspettano le lungaggini delle burocrazie e i cambi d’umore
istituzionali, è politica. È politica discutere collettivamente dei problemi di
convivenza, di gestione, delle donazioni che arrivano e di come utilizzarle. È
politica fornire gratuitamente assistenza legale e medica, grazie alla presenza
di avvocati e di diversi dottori, tutti volontari, che hanno creato un piccolo
ambulatorio. È politica prestare attenzione alle persone, ascoltarne i
racconti, lavorare perché tutti possano sentirsi a proprio agio, aiutati e
volenterosi di aiutare creando un clima di rispetto e mutuo soccorso che ha il
sapore di una famigliona allargata. È politica cercare di arginare la crescita
di ulteriori sacche di disperazione e marginalità. Marx aveva sostenuto, salvo poi
smussare decisamente questa tesi, che gli stadi di sviluppo dei paesi più
avanzati forniscono schemi ed esempi dello sviluppo dei paesi arretrati. Il
movimento per l’accoglienza in una Grecia devastata dalla crisi e dalle
speculazioni sembra indicare il contrario. Un paese in crisi, con un debito
imponente e massicci interventi di privatizzazioni, dimostra che c’è ancora
spazio per la solidarietà, che lo sviluppo reale si oppone alla barbarie
razzista che si aggira per l’Europa. La crisi, più che migratoria, è di
gestione delle politiche d’asilo degli stati dell’Unione europea, dei principi
e valori che le orientano e delle pratiche che le caratterizzano. Gli aiuti
umanitari diventano strumenti di controllo dei flussi migratori, attraverso
l’allocazione di privilegi o penali a paesi terzi, a seconda che collaborino o
meno alle procedure di espulsione e rimpatrio, secondo lo schema di un freddo e
disumano “subappalto” cui fa eco un cieco e patinato “aiutiamoli a casa loro”.
La prova evidente di questa esternalizzazione è nella strategia che sottende
gli accordi tra Turchia e Ue: chiusura della rotta balcanica e stazionamento di
migliaia di persone nel limbo infernale degli hotspot e dei campi, in attesa di
procedure giuridiche che stabiliscano chi è legale, e dunque meritevole di
restare, e chi illegale, e dunque punibile col respingimento in Turchia. La cui
ospitalità sarà ricompensata dall’Ue con sei miliardi di euro. Da parte sua il
governo greco, in barba alle promesse elettorali, preferisce rinunciare alla
costruzione di una forma diversa di accoglienza, facendo strategicamente pesare
l’ingestibilità della questione migranti nei negoziati sul debito. Strategia
fallimentare, che non si discosta affatto dai meccanismi neoliberali e che non
lascia molto spazio alla speranza di un’inversione delle politiche economiche.
Il risultato è, piuttosto, la riproposizione della dialettica
“interno/esterno”, col conseguente acuirsi della narrazione identitaria e di
una spersonalizzazione dello straniero cui, se va bene, viene riconosciuto lo
status di vittima incapace. Nel suo piccolo, il City Plaza riesce a spezzare
questa dinamica, con la sua autorganizzazione e la creazione di una comunità
che rifiuta logiche assistenziali e autoritarie. Per questo si considera un esempio
per altre realtà associative e di movimento, spesso intrappolate dentro
ragnatele ideologiche che impediscono di prestare attenzione ai bisogni e ai
desideri delle persone, come per le istituzioni e organizzazioni, siano esse
statali o non governative. La disillusione e la rabbia verso le ong e la
gestione istituzionale dei campi sono palpabili, tanto tra i volontari che vi
hanno collaborato, quanto tra i residenti che ne sono stati clienti.
Forse quanto in Italia. Ma nascono da presupposti e principi, politici e morali, opposti e antagonisti. La polemica nostrana (almeno quella mainstream) affonda le sue radici in un misto di xenofobia, violenza verbale e securitarismo. La cosiddetta sinistra istituzionale e di governo ha ceduto su tutta la linea alla retorica delle destre, concretizzandola in un vergognoso codice di condotta, in una disgustosa e artefatta polemica sul soccorso in mare e in una sistematica operazione di repressione delle esperienze di solidarietà autogestite. Le critiche mosse dal City Plaza, ma più in generale da una notevole fetta dei movimenti per la casa e per l’accoglienza di Atene, coinvolgono la fallimentare gestione dei finanziamenti erogati dall’Ue, lo stato dei campi profughi governativi, l’assoluta mancanza di attenzione al benessere delle persone. Contestano la logica per cui tanto una tenda è meglio di niente. Se nella logica istituzionale, il concetto di empowerment è spesso un meschino grimaldello per legittimare l’opera di smantellamento dei servizi di assistenza alla persona, al City Plaza è una pratica quotidiana. Solidarietà, integrazione e benessere non sono parole. All’interno si percepisce chiara quella dialettica tra tensione e istituzione – l’una pratica libera, l’altra lettera morta – sulla quale Capitini fondava le sue critiche allo stato e alla chiesa, il rifiuto della “civiltà dei pubblici servizi […] che non può non prendere Gesù Cristo e metterlo in croce per mantenere l’ordine pubblico”. La stessa dialettica sulla base della quale Ivan Illich denunciava l’istituzionalizzazione di pratiche e valori come una mistificazione che conduce a giudicare e misurare gli uomini sulla base della capacità di consumare prodotti istituzionali, di essere, come si dice oggi, “attivabili”. Nel difendere i valori di solidarietà, autogestione e integrazione, nel renderli concreti ed agibili, la posizione del Plaza in questa dialettica è chiara. Altrettanto chiara è quella di tante istituzioni, governative e non.
Forse quanto in Italia. Ma nascono da presupposti e principi, politici e morali, opposti e antagonisti. La polemica nostrana (almeno quella mainstream) affonda le sue radici in un misto di xenofobia, violenza verbale e securitarismo. La cosiddetta sinistra istituzionale e di governo ha ceduto su tutta la linea alla retorica delle destre, concretizzandola in un vergognoso codice di condotta, in una disgustosa e artefatta polemica sul soccorso in mare e in una sistematica operazione di repressione delle esperienze di solidarietà autogestite. Le critiche mosse dal City Plaza, ma più in generale da una notevole fetta dei movimenti per la casa e per l’accoglienza di Atene, coinvolgono la fallimentare gestione dei finanziamenti erogati dall’Ue, lo stato dei campi profughi governativi, l’assoluta mancanza di attenzione al benessere delle persone. Contestano la logica per cui tanto una tenda è meglio di niente. Se nella logica istituzionale, il concetto di empowerment è spesso un meschino grimaldello per legittimare l’opera di smantellamento dei servizi di assistenza alla persona, al City Plaza è una pratica quotidiana. Solidarietà, integrazione e benessere non sono parole. All’interno si percepisce chiara quella dialettica tra tensione e istituzione – l’una pratica libera, l’altra lettera morta – sulla quale Capitini fondava le sue critiche allo stato e alla chiesa, il rifiuto della “civiltà dei pubblici servizi […] che non può non prendere Gesù Cristo e metterlo in croce per mantenere l’ordine pubblico”. La stessa dialettica sulla base della quale Ivan Illich denunciava l’istituzionalizzazione di pratiche e valori come una mistificazione che conduce a giudicare e misurare gli uomini sulla base della capacità di consumare prodotti istituzionali, di essere, come si dice oggi, “attivabili”. Nel difendere i valori di solidarietà, autogestione e integrazione, nel renderli concreti ed agibili, la posizione del Plaza in questa dialettica è chiara. Altrettanto chiara è quella di tante istituzioni, governative e non.
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