Per gentile
concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione del libro di Antonio di Siena, Turisti a casa nostra (LAD, 2025). Buona lettura!
Questo è un
libro che si distingue per molti motivi, a partire dalla capacità di mescolare
sapientemente racconto e analisi, esperienza vissuta e teoria, storie e storia,
immagini – vivide, vividissime – e numeri. È come un lungo piano sequenza in
cui la macchina da presa si muove tra le strade, le case e le persone che le
abitano, si sofferma sui loro volti e sulle loro sofferenze, ci catapulta
all’interno delle loro lotte, per poi librarsi in cielo e mostrarci dall’alto
gli ingranaggi invisibili che stanno lentamente trasformando – o, in larga
parte, hanno già trasformato – le nostre città. In questo modo riesce nella
rara impresa di restituire, in tutta la sua carnalità, un fenomeno che altri
avrebbero affrontato unicamente con i freddi strumenti dell’analisi,
sociologica, economica o politica che sia.
Il risultato
è ancora più ammirevole se si considera che il fenomeno in questione – la
turistificazione – è tuttora in corso: esattamente come fotografare un oggetto
in movimento è molto più difficile che catturare qualcosa di statico, anche
analizzare dei processi storici mentre si stanno svolgendo – e nei quali siamo
direttamente coinvolti – è assai più complesso che studiare dall’esterno
processi già compiuti. Ma è proprio questo, in ultima analisi, a rendere così
appassionante la lettura: Di Siena non è un osservatore distaccato e tantomeno
imparziale – e tantomeno fa finta di esserlo – ma è egli stesso uno dei
protagonisti del proprio racconto, essendo quest’ultimo, in molti casi, il
frutto di esperienze da lui vissute in prima persona: un racconto, dunque,
fatto dall’interno, e il cui finale, come vedremo, è ancora da scrivere.
In questa
sede non mi dilungherò troppo sulla natura del processo di turistificazione in
sé, anche perché, da non specialista della materia, potrei aggiungere ben poco
alla brillante analisi di Di Siena. Piuttosto, mi concentrerò su alcune delle
dinamiche storiche – economiche e politiche – che lo hanno determinato. Prima
di farlo, però, può essere utile tratteggiare alcuni degli aspetti più salienti
del fenomeno. Per turistificazione, nell’analisi di Di Siena, si intende un
processo sistemico di colonizzazione ed espropriazione delle città da parte del
capitale finanziario, che trasforma lo spazio urbano, la casa, la vita stessa
dei cittadini in una merce da cui estrarre valore.
Non indica,
dunque, semplicemente la crescita del turismo, ma una vera e propria
metamorfosi economica, politica e culturale delle città contemporanee,
soprattutto nel Sud Europa. Ci troviamo, in sostanza, di fronte a un processo
attraverso cui le città vengono progressivamente riconfigurate secondo la
logica del turismo e della rendita, smettendo di essere luoghi di riproduzione
sociale – con comunità e identità stabili, servizi, lavoro – per diventare
“città-merce” o “quartieri-piattaforma”, come scrive Di Siena: spazi orientati
al consumo e al ricambio continuo di visitatori.
La
turistificazione è da intendersi, in sostanza, come una strategia di estrazione
di valore in un contesto di bassa crescita, quale quello dell’Europa
meridionale, in cui ormai vi è ben poco da estrarre dall’economia reale. In
tale contesto, le abitazioni diventano la “materia prima” di un’economia
renditiera che lavora su affitti brevi, consumo continuo e servizi turistici.
Questo
processo di estrazione di valore si articola su due livelli complementari. Da
un lato, i proprietari di casa vengono incentivati a privilegiare gli affitti
brevi – spesso presentati come un modo per “integrare il reddito” – ma che in
realtà spostano una quota crescente dei profitti verso le grandi piattaforme
digitali che gestiscono le prenotazioni e impongono le proprie regole, tariffe
e commissioni. In questo modo, la piccola proprietà viene inglobata in una
catena del valore dominata da attori globali che ne drenano la redditività.
Dall’altro
lato, si verifica una progressiva concentrazione della proprietà immobiliare.
Attraverso l’imposizione di condizioni di rimborso dei mutui sempre più
onerose, famiglie e piccoli proprietari vengono spinti verso l’insolvenza,
aprendo la strada all’espropriazione sistematica degli immobili da parte di
banche, società immobiliari e grandi fondi d’investimento. Ciò che inizia come
indebitamento individuale si traduce in un trasferimento collettivo di
ricchezza reale – case, quartieri, interi centri urbani – verso i vertici del
capitale finanziario. In sintesi, la turistificazione agisce come un meccanismo
di estrazione a doppia mandata: da un lato mercifica l’uso dell’abitazione,
dall’altro ne finanziarizza la proprietà, convertendo lo spazio urbano in una
miniera di rendita per il capitale globale. Una vera e propria forma di colonizzazione
finanziaria.
Si tratta di
un fenomeno per molti versi globale, che però, nel Sud Europa, come detto,
sembra aver assunto connotati specifici, determinando uno strisciante processo
di “secondomondizzazione”, dice Di Siena, in cui il turismo sta progressivamente
diventando una monocultura economica: una dipendenza strutturale fondata sulla
rendita, la precarietà e la deindustrializzazione. Ciò è particolarmente
preoccupante se consideriamo la natura iper-estrattiva di questo modello, che
comporta una duplice espropriazione: non solo economica e materiale ma anche
simbolica, nella misura in cui quartieri perdono identità e memoria collettiva,
diventando “non-luoghi” pensati per la mobilità e la transitorietà.
Di Siena
sottolinea giustamente come quest’ultima non rappresenti un effetto collaterale
della turistificazione, ma bensì uno dei suoi obiettivi non dichiarati. La
turistificazione, infatti, svolge anche una importante funzione politica:
pacifica il conflitto sociale, assorbendo temporaneamente la disoccupazione
attraverso lavori precari, stagionali e non sindacalizzati; riduce la pressione
per politiche di piena occupazione, sostituendo il welfare con quello che Di
Siena chiama un “welfare surrogato”, cioè un sistema di sopravvivenza fondato
sulla rendita, l’indebitamento e la precarietà; e, infine, frammenta le
comunità, disinnescando alla radice qualunque tentativo di resistenza a cui
questo processo potrebbe – dovrebbe – dar vita. Lo svuotamento sociale diventa
dunque una forma di controllo politico: un vero e proprio dispositivo di
governo neoliberale (“svuotare per dominare”).
E qui
arriviamo al nocciolo della tesi di Di Siena: ovvero sia che la
turistificazione non è affatto un processo naturale – e neanche la conseguenza
inevitabile della crisi o al massimo della sua mala gestione – ma una strategia
politica deliberata, promossa e sostenuta dagli Stati dei paesi in questione,
finalizzata alla costruzione di “un modello semi-schiavile o – se vogliamo –
neocoloniale”, come scrive. Di Siena analizza in profondità le politiche
adottate dagli Stati al fine di creare le condizioni strutturali che rendano
possibile l’estrazione di risorse attraverso il turismo: dalla precarizzazione
del mercato del lavoro alla compressione della spesa pubblica e del welfare,
dalla riforma dei contratti di locazione alla facilitazione degli sfratti.
Tutti interventi che, lungi dall’essere risposte contingenti alla “crisi”,
delineano un vero e proprio modello di governance economica fondato sulla
rendita e sull’instabilità sociale.
In questa
sede, tuttavia, vorrei soffermarmi sul ruolo — a mio avviso ancor più decisivo
— giocato in questo processo dall’Unione europea, intesa non semplicemente come
cornice istituzionale, ma come sovrastato neoliberale incaricato di coordinare e
standardizzare tali politiche a livello continentale. Lungi dal limitarsi a
imporre vincoli di bilancio, come vedremo, l’UE ha agito come un meccanismo di
centralizzazione del potere economico e normativo, trasformando la cosiddetta
“governance europea” in una vera e propria infrastruttura di estrazione di
valore dal basso verso l’alto. Per parafrasare Marx, potremmo dire che l’Unione
europea si configura oggi come il comitato che amministra gli affari comuni
delle élite finanziarie transnazionali.
Per
comprendere appieno il ruolo dell’Unione europea nel processo di
turistificazione descritto da Di Siena, occorre tornare alle origini storiche e
politiche del progetto di integrazione europea. Fin dall’inizio, l’obiettivo
non era soltanto economico, ma profondamente politico: addomesticare le forze
del lavoro organizzato, neutralizzando la capacità di conflitto che, nei
decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, aveva costretto il capitale a
condividere una parte significativa dei propri profitti – e ad accettare una
riduzione del proprio potere di classe – sotto forma di salari, welfare e
diritti sociali.
La
costruzione europea si configura così dall’origine come una risposta di classe
alla crisi degli anni Settanta: una crisi percepita dalle élite non solo come
un problema di natura economica – nel senso di una riduzione dei profitti – ma
come minaccia politica, poiché l’aumento del potere contrattuale del lavoro –
reso possibile dalla piena occupazione e dalla democrazia industriale – metteva
in discussione la distribuzione del potere e dei profitti all’interno del
capitalismo occidentale. Il cosiddetto “vincolo esterno” – l’idea che la
disciplina economica dovesse essere imposta dall’esterno, attraverso regole
sovranazionali e mercati finanziari – divenne fin da allora il principale
strumento per contenere la sovranità democratica e restaurare il potere del
capitale.
Un primo
passo in questa direzione fu il Sistema monetario europeo (SME), istituito nel
1979. Esso legò rigidamente i tassi di cambio fra le valute europee, impedendo
alle singole economie di utilizzare la leva monetaria per sostenere
l’occupazione e la spesa pubblica. In tal modo, la politica economica nazionale
venne progressivamente subordinata agli obiettivi della stabilità dei prezzi e
della competitività esterna: obiettivi funzionali non alla prosperità
collettiva, ma alla tutela dei creditori e degli esportatori. Lo SME
rappresentò, di fatto, una prima forma di addomesticamento del lavoro:
vincolare la politica monetaria significava togliere ai governi lo strumento
con cui, nel dopoguerra, si era garantita piena occupazione.
Con la
creazione del mercato unico europeo (1986) e la contestuale liberalizzazione
dei movimenti di capitale (1990), questo processo entrò in una nuova fase. Le
frontiere economiche vennero aperte non tanto per favorire la cooperazione,
quanto per creare concorrenza permanente tra Stati e lavoratori. La libera
circolazione dei capitali, in particolare, privò i governi della possibilità di
controllare i flussi finanziari, ponendo le economie nazionali sotto il ricatto
costante dei mercati. Si trattò di un passo decisivo verso la
finanziarizzazione dell’economia europea, che trasformò il credito,
l’immobiliare e il debito in nuovi terreni di estrazione di valore – gli stessi
su cui oggi si fonda, in larga parte, la turistificazione.
La creazione
dell’Unione europea – fondata sulla “libera circolazione delle merci, delle
persone, dei servizi e dei capitali” – e l’introduzione dell’euro portarono a
compimento questa architettura. Cedendo la loro sovranità monetaria, gli Stati
rinunciarono alla possibilità di gestire autonomamente il ciclo economico.
L’unico strumento rimasto per correggere gli squilibri tra i paesi dell’area
euro – non potendo più svalutare la moneta – divenne dunque la svalutazione
interna, cioè la compressione dei salari, dei diritti e della spesa pubblica.
Si inaugurò così un modello economico export-led, fondato sulla competizione
tra lavoratori europei e sulla riduzione sistematica del costo del lavoro. In
nome della competitività, le economie del Sud Europa vennero spinte verso la
specializzazione in settori a basso valore aggiunto, tra cui appunto il
turismo, mentre i paesi del Nord, e in particolare la Germania, rafforzarono la
propria posizione industriale ed esportatrice.
La crisi
dell’euro non ha fatto che esasperare queste dinamiche. Gli squilibri
strutturali generati dalla moneta unica – enormi surplus commerciali nel Nord e
deficit nel Sud –, combinati con gli effetti della crisi finanziaria, esplosero
nella cosiddetta “crisi del debito sovrano” – a sua volta generata
dall’impossibilità per i singoli Stati di gestire autonomamente le proprie
politiche monetarie – che fu usata dalle istituzioni europee come arma politica
per imporre riforme neoliberali radicali.
Oggi
sappiamo, infatti, che tale “crisi” fu in larga misura “ingegnerizzata” dalla
BCE (e dalla Germania) per imporre un nuovo ordine sul continente, in una sorta
di “shock economy” autoindotta. L’allora presidente della BCE, Jean-Claude
Trichet, non fece mistero del fatto che il rifiuto della banca centrale di
sostenere i mercati dei titoli di Stato nella prima fase della crisi
finanziaria fosse finalizzato a fare pressione sui governi dell’eurozona
affinché consolidassero i loro bilanci e attuassero le cosiddette “riforme
strutturali”, in particolare la deregolamentazione del mercato del lavoro.
La BCE e la
Commissione sfruttarono dunque la crisi come occasione per trasformare l’Unione
in un laboratorio di ingegneria sociopolitica: salvare le banche con denaro
pubblico, scaricare i costi sui cittadini attraverso tagli, privatizzazioni e
precarizzazione, e imporre un processo di radicale neoliberalizzazione
dell’economia europea.
Emblematica,
in tal senso, fu la lettera inviata nel 2011 da Jean-Claude Trichet e Mario
Draghi al governo italiano, nella quale la BCE imponeva un vero e proprio
programma di governo: riduzione della spesa sociale, riforme del mercato del
lavoro, deregolamentazione e privatizzazioni su larga scala. Un memorandum di
austerità preventiva, concepito per ridurre il potere contrattuale del lavoro e
assicurare la disciplina dei mercati finanziari.
Ma la BCE
non si limitò a far fare il lavoro sporco ai mercati. In più di un’occasione
utilizzò il proprio potere di monopolio della valuta come strumento attivo di
pressione finanziaria e monetaria. Un esempio fu la decisione della BCE di
ridurre gli acquisti di titoli di Stato italiani, pochi mesi dopo l’invio della
famosa lettera, al fine deliberato di provocare un’impennata dello “spread” e
costringere così Berlusconi a dimettersi e a lasciare il posto al governo
“tecnico” di Mario Monti – un vero e proprio esempio di “colpo di Stato
monetario”.
Ma il caso
greco rappresentò l’esempio più brutale di questa logica. Nel bel mezzo del
negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE destabilizzò
deliberatamente l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle
banche greche, effettivamente portando a uno stop tutto il sistema bancario del
paese, con l’obiettivo di costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure
misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, ricattando così un intero
popolo per imporre politiche di tagli, licenziamenti e svendite del patrimonio
pubblico. È forse superfluo a questo punto ribadire che il cosiddetto
“salvataggio” della Grecia non servì a salvare i greci, ma piuttosto le banche
creditrici francesi e tedesche, esposte verso Atene: in nome della solidarietà
europea si consumò così un gigantesco trasferimento di ricchezza dal Sud al
Nord del continente.
Tutto ciò ha
avuto effetti profondi e duraturi: smantellamento dei sistemi di welfare,
precarizzazione del mercato del lavoro, aumento delle disuguaglianze e
svuotamento della democrazia economica, stagnazione economica e deindustrializzazione.
Parallelamente, la politica economica – già pesantemente limitata
dall’architettura dell’euro – è stata completamente sottratta al processo
democratico e subordinata alle regole del capitale finanziario.
Ed è proprio
in questo contesto che matura il terreno su cui attecchisce la
turistificazione. Quando il lavoro stabile viene sostituito da lavori precari e
stagionali, quando la spesa pubblica è compressa e gli investimenti produttivi
si prosciugano, il turismo diventa l’unico settore capace di generare flussi di
liquidità immediata, seppure al prezzo di una crescente dipendenza e di un
impoverimento strutturale. In questo senso, la turistificazione, in cui la
città diventa una piattaforma di estrazione per il capitale globale, è la
conseguenza logica – e voluta – del modello economico europeo: un modello nato
per favorire gli interessi delle oligarchie finanziarie, in cui la rendita
finisce per prendere progressivamente il posto della produzione, soprattutto
nei paesi del “secondo mondo” europeo.
La lezione
che emerge da ciò – e che attraversa in filigrana tutta l’analisi di Di Siena –
è che la turistificazione non è un’anomalia da correggere con qualche politica
di settore o con un po’ di “regolazione intelligente” dei flussi turistici, ma
il sintomo di una malattia molto più profonda: la subordinazione integrale
dell’economia, dello spazio urbano e della vita sociale alle logiche della
rendita e della finanza. In questo senso, immaginare di contrastarla semplicemente
“cambiando politica economica”, senza mettere in discussione le fondamenta
dell’attuale ordine monetario e istituzionale europeo, equivale a curare
un’infezione sistemica con un analgesico.
Superare la
turistificazione implica, invece, un rovesciamento strutturale: la
riappropriazione, da parte degli Stati e delle comunità, degli strumenti
fondamentali di gestione e orientamento dell’economia – dalla politica
monetaria a quella industriale, dal credito pubblico alla pianificazione
territoriale. Significa restituire alla sfera democratica ciò che oggi è stato
consegnato ai mercati, alle banche centrali “indipendenti” e alle istituzioni
tecnocratiche di Bruxelles.
Solo
attraverso il recupero della sovranità economica e politica, cioè della
capacità collettiva di decidere come e per chi produrre ricchezza, sarà
possibile invertire il processo di deindustrializzazione e precarizzazione che
ha reso intere società dipendenti dalla monocultura del turismo. Finché le
città saranno governate dalle stesse regole che hanno imposto l’austerità, la
compressione dei salari e la privatizzazione dei beni comuni, esse
continueranno a trasformarsi sempre più in scenografie da sfondo ai flussi del
capitale finanziario.
Spezzare la
logica della turistificazione, dunque, non significa solo cambiare modello
urbano: significa cambiare paradigma economico e politico. Significa – per
usare le parole di Di Siena – “riscopr[ire] la comunità come infrastruttura
portante della democrazia e la stabilità come diritto e non come privilegio”,
sottraendo le nostre città al destino di colonie interne del capitale globale.
da qui