Chi avesse voglia di dare un’occhiata al possibile futuro verde del pianeta e alla transizione ecologica prodotta dall’innovazione tecnologica, dovrebbe farsi un giro in Cina.
La Cina, va detto, consuma più energia di
qualsiasi altro paese al mondo. Ha un appetito vorace, alimentato per decenni
dal carbone, che l’ha resa il più grande emettitore di CO₂ del pianeta. Ma da
almeno dieci anni, questo gigante con una popolazione di un miliardo e 400
milioni di persone è impegnato in una svolta epocale. Il motivo?
Raggiungere un obiettivo ambiziosissimo, il cosiddetto “doppio carbonio”:
arrivare al picco delle emissioni entro il 2030 ed ottenere la neutralità
carbonica entro il 2060. A che punto siamo? Nel 2024, per la prima
volta, la capacità di energia non fossile installata in Cina ha superato il 60
per cento del totale nazionale, toccando i 2,2 miliardi di kW. Il resto, circa
il 40 per cento, proviene ancora da fonti tradizionali, in primis il carbone,
che rimane un pilastro per la stabilità della rete elettrica.
Si tratta di una transizione dove le tecnologie
avanzate vanno a braccetto con un ripensamento radicale dell’intero
sistema, una vera e propria rivoluzione energetica in casa. E per capire come
questo futuro stia prendendo forma, bisogna guardare a una provincia lontana
dai centri del potere finanziario e politico cinese, lo Xinjiang:
450 miliardi di tonnellate di riserve di carbone (il 40 per cento del totale
cinese), un potenziale di energia solare pari al 40 per cento del potenziale
tecnico nazionale e uno eolico di 1 miliardo di kW.
Siamo ad Urumqi, una cittadina vicina al
confine nordoccidentale della Cina, sotto la Mongolia, a pochi
kilometri dal deserto del Gobi. In una sala di controllo circondata da schermi
olografici dove scorrono flussi di dati in tempo reale, pochi tecnici
supervisionano 66 centrali energetiche sparse in una regione grande cinque
volte l’Italia. È il Centro Operativo Intelligente di Urumqi, avamposto
tecnologico e cervello operativo della più audace transizione energetica del
pianeta. È infatti qui, in questa provincia remota battuta dai venti e bruciata
dal sole, che si gioca una partita che potrebbe tra qualche decennio ridefinire
gli equilibri energetici globali e per ora la Cina ha in mano tutti i jolly.
La Cina, a differenza delle nazioni occidentali, ha
infatti capito da tempo una verità semplice ma rivoluzionaria: chi
controllerà l’energia del futuro controllerà l’economia del XXI secolo e
l’energia del futuro sono le rinnovabili. Xinjiang, con le sue
distese assolate dove soffia vento costantemente, è il Texas cinese e le
rinnovabili il suo petrolio verde.
Mentre l’Occidente dibatte sul costo della transizione
ecologica, la Cina agisce and leads by example producendo una
visione sistemica e comprensiva dello sfruttamento di diverse risorse. Il
progetto “Energia dallo Xinjiang al resto della Cina” trasforma così
l’abbondanza locale in uno strumento di politica nazionale. Corridoi a
ultra-alta tensione (UHV) – come Hami-Zhengzhou e Zhundong-Anhui – sono le
moderne arterie di un sistema circolatorio che pompa energia pulita verso
le fabbriche e le città della costa orientale. Fino al 2024, hanno esportato
oltre 800 miliardi di kWh, alimentando 22 province. È una strategia win-win:
le regioni orientali ricevono energia a basse emissioni, lo Xinjiang si
sviluppa e Pechino consolida il controllo su un’area strategicamente sensibile.
Il Centro di Urumqi è il simbolo di questa regia
centralizzata. Non è una semplice sala controllo, è un sistema nervoso digitale
che, attraverso un’intelligenza artificiale avanzata, gestisce 170 impianti per
una capacità di 11,12 milioni di kW. Trenta di questi funzionano già in
modalità “presenza zero” o semiautomatica. Questo modello risponde a
un’esigenza duplice: massimizzare l’efficienza e minimizzare
l’errore umano in un territorio sterminato. È l’applicazione pratica di un
principio di sviluppo: la fusione tra pianificazione statale e tecnologie
d’avanguardia che crea un acceleratore di sviluppo senza pari.
Perché la Cina ci riesce mentre l’Occidente arranca?
La risposta non è solo tecnologica. È politica e sociale. Il vantaggio
del ritardatario: la Cina si è industrializzata tardi, saltando
fasi inquinanti che per l’Occidente sono state un costo irrecuperabile.
La pressione sociale: i cinesi vogliono aria pulita. L’inquinamento non è più
un prezzo accettabile per la crescita. Il calcolo economico
dello Stato: l’inquinamento ha un costo sanitario enorme. Investire nel verde
non è solo una questione ambientale, ma un modo per ridurre la spesa pubblica
sanitaria.
L’Occidente, d’altro canto, è intrappolato in un paradosso:
ha firmato gli Accordi di Parigi, ma manca la volontà politica di
affrontare i costi di una riconversione industriale radicale. Qui, invece, la
transizione è una priorità nazionale assoluta.
La lezione di Urumqi non è solo per la Cina. Questo modello
è un prodotto esportabile nell’ambito della Belt and Road Initiative e
per i partner dei Brics. Immaginate questo sistema applicato ai deserti
dell’Arabia Saudita, dell’Iraq o del Nord Africa.
Il centro di Urumqi è il prototipo di una futura rete energetica
continentale, una “Via della Seta dell’elettricità” che potrebbe unire
l’Eurasia con flussi di energia pulita. In un mondo dove Europa e Asia sono
fisicamente un unico continente, questa non è fantascienza. È geopolitica.
Mentre da noi si negozia e si rimanda, qui, nel deserto del Gobi, il futuro
energetico del mondo è già in funzione. E dall’Occidente non arriva la
concorrenza, ma solo i visitatori, come me, a guardare e a prendere
appunti.
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