mercoledì 24 dicembre 2025

Il furto dei gioielli della corona come specchio del saccheggio coloniale - Rokhaya Diallo

Il furto al Louvre suscita indignazione ma Mediapart ricorda che i musei francesi vengono dal saccheggio dei territori conquistati

Il clamoroso furto di parte dei gioielli della corona di Francia al museo del Louvre ha avuto il merito di riunire la classe politica in un coro di deplorazione per un grave misfatto contro l’integrità di un bene che sarebbe comune a tutti i francesi. Emmanuel Macron si è affrettato a denunciare «un attacco a un patrimonio che amiamo perché è la nostra Storia». Una storia molto più oscura di quanto sembri.

Mentre il mondo intero era rattristato dalla perdita di gioielli sontuosi, l’attenzione si è concentrata maggiormente sui dettagli della composizione di questi gioielli costituiti da pietre preziose appartenute a personaggi del Primo e del Secondo Impero: Maria Amalia di Borbone-Sicilia, Hortense de Beauharnais, Maria Luisa d’Austria (moglie di Napoleone I) e l’imperatrice Eugenia di Montijo (moglie di Napoleone III).

Gli account Instagram Everything is Political e Slow Factory hanno condotto una rapida indagine, ipotizzando l’origine dei gioielli rubati. Gli smeraldi provengono senza dubbio dalla Colombia, dove la miniera di Muzo era all’epoca la sola miniera conosciuta che fornisse gemme di questo tipo attorno all’inizio del secolo XIX; i diamanti proverrebbero da India e Brasie les diamants viendraient d’Inde et du Brésil (altre fonti indicano il Sudafrica, dove i primi giacimenti di Kimberley furono sfruttati già negli anni 1850-1860); le perle naturali del Golfo Persico o dell’Oceano Indiano; gli zaffiri di Ceylon (l’attuale Sri Lanka), principale fonte mondiale di zaffiri blu all’inizio del XIX secolo. Solo i granati provenienti dalle miniere degli Urali venivano trasportati nell’ambito del libero commercio europeo.

Nei territori sotto il dominio britannico, portoghese o spagnolo, era il lavoro coatto delle popolazioni indigene colonizzate a consentire l’estrazione di questi preziosi minerali. Che la manodopera fosse schiavizzata o a contratto, l’ottenimento di questi beni avveniva a vantaggio delle potenze imperialiste, che si arricchivano grazie all’estrattivismo praticato sui territori conquistati con la violenza e il lavoro delle popolazioni inferiorizzate.

Se oggi si deplora la perdita dei beni simbolici del regno di Napoleone Bonaparte, il cui nome è indebitamente venerato nella politica francese, ricordiamo che la sua fortuna è stata ampiamente costruita sulla violenza e la spoliazione di altre popolazioni.

Sotto il Consolato e l’Impero, l’arricchimento di Napoleone e dello Stato francese si basava in parte su un sistema di spoliazioni organizzate, indissociabile dalla logica dell’espansione coloniale e militare. Le grandi «campagne» (termine che difficilmente rende l’idea del livello di violenza impiegato), in particolare in Italia, Spagna ed Egitto, permisero il saccheggio massivo di opere d’arte, di tesori archeologici e risorse naturali, legittimandolo con il pretesto del “progresso scientifico” oppure con la pretesa della “civilizzazione” di popolazioni che non l’hanno richiesto.

La campagna d’Egitto è allo stesso tempo una spedizione militare e un saccheggio economico e culturale, volto a controllare le rotte commerciali orientali e a riportare in Francia antichità, manoscritti e oggetti d’oro. Questi bottini, registrati nei rapporti della Commissione delle scienze e delle arti e successivamente esposti al Louvre, hanno alimentato il prestigio imperiale, radicando al contempo l’economia francese nelle nascenti reti coloniali.

Così, la costruzione del potere napoleonico si inserisce nella continuità di un modello europeo di accumulazione basato sulla conquista, il dominio e l’appropriazione violenta delle ricchezze materiali e simboliche dei territori conquistati.

La Francia si vanta dei beni acquisiti con la brutalità

Alla luce di queste considerazioni, cosa significa la grande desolazione che ha accompagnato la scomparsa di questi oggetti rubati dal Museo del Louvre? Quale significato attribuisce il nostro presidente al concetto di “patrimonio francese”, considerando le origini immorali della costituzione di questi gioielli?

Il fatto che la Francia possa ancora oggi vantarsi del possesso di beni acquisiti con la brutalità e l’ingiustizia la dice lunga sul rispetto per la vita delle vittime della colonizzazione.

La maggior parte dei grandi musei europei ha costruito il proprio prestigio esponendo opere acquisite tra la fine del XIX e la metà del XX secolo – periodo segnato da un’espansione coloniale costellata di massacri e coercizioni – e provenienti da presunte spedizioni etnografiche che in realtà erano solo un pretesto per la predazione.

In Francia, secondo un rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoye nel 2018, oltre il 90% delle opere d’arte più emblematiche dell’Africa subsahariana si trova al di fuori del continente. Ad esempio, il famoso museo Quai Branly-Jacques-Chirac, che raccoglie arte indigena proveniente da Asia, Africa, Oceania e Americhe, è ricco di oggetti arrivati in Francia all’epoca in cui il nostro Paese aveva un ascendente su questi territori: è il caso del 66% della collezione dell’unità “Africa”.

Per conservare queste opere sul proprio territorio, la Francia ha elaborato un espediente giuridico: integrarle nel demanio pubblico dello Stato, rendendole così insequestrabili e inalienabili.

Un vero e proprio museo degli orrori

Peggio ancora, i nostri musei conservano ancora importanti collezioni di resti umani, in primo luogo il Museo Nazionale di Storia Naturale e il Museo dell’Uomo, la cui “collezione moderna” comprende più di 1.000 scheletri e circa 18.000 crani ereditati da raccolte pseudo-scientifiche (in realtà razziste), coloniali e di polizia del XIX e XX secolo.

Un vero e proprio museo degli orrori che raccoglie resti umani provenienti da tutto il mondo (Algeria, Senegal, Madagascar, Guyana…), tra cui quelli di numerosi resistenti alla colonizzazione francese, ma anche di bambini. È quanto racconta Xavier Leclerc nel suo ultimo romanzo Le Pain des Français (Gallimard), dando voce a «Zohra», una bambina kabyle di 7 anni il cui cranio è conservato in una scatola da scarpe tra i circa 9.000 crani conservati nel Museo dell’Uomo.

La storia di Saartjie (Sawtche), detta “Sarah Baartman”, donna di origine ottentotta nata in Sudafrica e morta a Parigi dopo essere stata vittima di ripetuti abusi sessuali e fisici ed essere stata esibita nelle fiere, è emblematica di questa spoliazione. Dopo la sua morte, calchi in gesso del suo corpo, dei suoi organi genitali e del suo cervello furono esposti al Musée de l’Homme alla vista di tutti fino al 1974, prima di essere relegati nel seminterrato. Dopo un’aspra battaglia legale, promossa da Nelson Mandela, il Sudafrica ha finalmente potuto recuperare il suo corpo nel 2002.

Nel luglio 2020, Parigi ha restituito all’Algeria 24 teschi di resistenti anticolonialisti, tra cui Cheikh Bouziane, Cherif Boubaghla e Si Mokhtar ben Kouider al-Titraoui, conservati dal XIX secolo al Musée de l’Homme. Da allora, la Francia si è dotata di un quadro giuridico specifico: una legge del 2023 autorizza, in deroga all’inalienabilità, la restituzione di resti umani a uno Stato straniero a fini funerari.

In precedenza, nel 2012, erano state restituite le teste di alcune persone māori (originari di Aotearoa, nome māori della Nuova Zelanda).

Nel 2024, i corpi di sei Kali’na – Pékapé, Couani, Emo-Marita, Mibipi, Makéré e Miacapo -, rapiti in Guyana per essere esposti in una mostra coloniale, vengono celebrati al Musée de l’Homme nell’ambito di una cerimonia sciamanica, alla presenza di di capi tradizionali provenienti dal Suriname e dalla Guyana. Tuttavia, i loro resti non sono stati restituiti. Diversi altri casi sono ancora in corso e, di conseguenza, molti corpi rimangono ancora lontani dai loro territori d’origine.

Sotto la pressione del rapporto Sarr-Savoy, che esortava lo Stato francese a restituire le opere ai loro paesi d’origine e ai paesi africani, la Francia ha dovuto riconoscere l’ingiustizia. Nel dicembre 2020 è stata quindi approvata una legge per restituire alcuni beni culturali al Benin e al Senegal.

Il primo oggetto restituito è stata una sciabola attribuita al capo politico El Hadj Omar Tall. Anche il Madagascar ha recuperato la corona della regina Ranavalona III, considerata dal ministro della Cultura Lalatiana Andriatongarivo Rakotondrazafy uno dei simboli più preziosi dell’«orgoglio nazionale malgascio».

Inoltre, ventisei opere d’arte note come “Tesoro di Béhanzin”, donate allo Stato dal generale Alfred Dodds dopo essere state saccheggiate durante una guerra e conservate al museo del Quai Branly-Jacques-Chirac, sono state restituite al popolo beninese. Il loro ritorno è stato oggetto di un magistrale film documentario, Dahomey, realizzato dalla franco-senegalese Mati Diop.

Tuttavia, con ventisei opere, siamo ben lontani da una rivoluzione. Il museo ne conserva almeno 45.000 provenienti dai saccheggi coloniali.

La Francia fatica ancora a riconoscere che gran parte del suo potere e del suo fascino derivano dal suo ruolo violentemente distruttivo nelle ex colonie. Celebrare un patrimonio acquisito con disprezzo per le vite umane testimonia un persistente rifiuto di ammettere il prezzo del proprio prestigio, alimentato dai gravi danni causati in passato e che persistono ancora oggi.

da qui

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