Il furto al Louvre suscita indignazione ma Mediapart ricorda che i musei francesi vengono dal saccheggio dei territori conquistati
Il clamoroso furto di parte dei gioielli della corona di Francia al museo del Louvre ha avuto il merito di riunire la classe politica in un coro di deplorazione per un grave misfatto contro l’integrità di un bene che sarebbe comune a tutti i francesi. Emmanuel Macron si è affrettato a denunciare «un attacco a un patrimonio che amiamo perché è la nostra Storia». Una storia molto più oscura di quanto sembri.
Mentre il
mondo intero era rattristato dalla perdita di gioielli sontuosi, l’attenzione
si è concentrata maggiormente sui dettagli della composizione di questi
gioielli costituiti da pietre preziose appartenute a personaggi del Primo e del
Secondo Impero: Maria Amalia di Borbone-Sicilia, Hortense de Beauharnais, Maria
Luisa d’Austria (moglie di Napoleone I) e l’imperatrice Eugenia di Montijo
(moglie di Napoleone III).
Gli account
Instagram Everything is Political e Slow Factory hanno condotto una rapida
indagine, ipotizzando l’origine dei gioielli rubati. Gli smeraldi provengono
senza dubbio dalla Colombia, dove la miniera di Muzo era all’epoca la sola
miniera conosciuta che fornisse gemme di questo tipo attorno all’inizio del secolo
XIX; i diamanti proverrebbero da India e Brasie les diamants viendraient d’Inde
et du Brésil (altre fonti indicano il Sudafrica, dove i primi giacimenti di
Kimberley furono sfruttati già negli anni 1850-1860); le perle naturali del
Golfo Persico o dell’Oceano Indiano; gli zaffiri di Ceylon (l’attuale Sri
Lanka), principale fonte mondiale di zaffiri blu all’inizio del XIX secolo.
Solo i granati provenienti dalle miniere degli Urali venivano trasportati
nell’ambito del libero commercio europeo.
Nei territori
sotto il dominio britannico, portoghese o spagnolo, era il lavoro coatto delle
popolazioni indigene colonizzate a consentire l’estrazione di questi preziosi
minerali. Che la manodopera fosse schiavizzata o a contratto, l’ottenimento di
questi beni avveniva a vantaggio delle potenze imperialiste, che si
arricchivano grazie all’estrattivismo praticato sui territori conquistati con
la violenza e il lavoro delle popolazioni inferiorizzate.
Se oggi si
deplora la perdita dei beni simbolici del regno di Napoleone Bonaparte, il cui
nome è indebitamente venerato nella politica francese, ricordiamo che la sua
fortuna è stata ampiamente costruita sulla violenza e la spoliazione di altre
popolazioni.
Sotto il
Consolato e l’Impero, l’arricchimento di Napoleone e dello Stato francese si
basava in parte su un sistema di spoliazioni organizzate, indissociabile dalla
logica dell’espansione coloniale e militare. Le grandi «campagne» (termine che
difficilmente rende l’idea del livello di violenza impiegato), in particolare
in Italia, Spagna ed Egitto, permisero il saccheggio massivo di opere d’arte,
di tesori archeologici e risorse naturali, legittimandolo con il pretesto del
“progresso scientifico” oppure con la pretesa della “civilizzazione” di
popolazioni che non l’hanno richiesto.
La campagna
d’Egitto è allo stesso tempo una spedizione militare e un saccheggio economico
e culturale, volto a controllare le rotte commerciali orientali e a riportare
in Francia antichità, manoscritti e oggetti d’oro. Questi bottini, registrati
nei rapporti della Commissione delle scienze e delle arti e successivamente
esposti al Louvre, hanno alimentato il prestigio imperiale, radicando al
contempo l’economia francese nelle nascenti reti coloniali.
Così, la
costruzione del potere napoleonico si inserisce nella continuità di un modello
europeo di accumulazione basato sulla conquista, il dominio e l’appropriazione
violenta delle ricchezze materiali e simboliche dei territori conquistati.
La Francia
si vanta dei beni acquisiti con la brutalità
Alla luce di
queste considerazioni, cosa significa la grande desolazione che ha accompagnato
la scomparsa di questi oggetti rubati dal Museo del Louvre? Quale significato
attribuisce il nostro presidente al concetto di “patrimonio francese”,
considerando le origini immorali della costituzione di questi gioielli?
Il fatto che
la Francia possa ancora oggi vantarsi del possesso di beni acquisiti con la
brutalità e l’ingiustizia la dice lunga sul rispetto per la vita delle vittime
della colonizzazione.
La maggior
parte dei grandi musei europei ha costruito il proprio prestigio esponendo
opere acquisite tra la fine del XIX e la metà del XX secolo – periodo segnato
da un’espansione coloniale costellata di massacri e coercizioni – e provenienti
da presunte spedizioni etnografiche che in realtà erano solo un pretesto per la
predazione.
In Francia,
secondo un rapporto redatto da Felwine Sarr e Bénédicte Savoye nel 2018, oltre
il 90% delle opere d’arte più emblematiche dell’Africa subsahariana si trova al
di fuori del continente. Ad esempio, il famoso museo Quai
Branly-Jacques-Chirac, che raccoglie arte indigena proveniente da Asia, Africa,
Oceania e Americhe, è ricco di oggetti arrivati in Francia all’epoca in cui il
nostro Paese aveva un ascendente su questi territori: è il caso del 66% della
collezione dell’unità “Africa”.
Per
conservare queste opere sul proprio territorio, la Francia ha elaborato un
espediente giuridico: integrarle nel demanio pubblico dello Stato, rendendole
così insequestrabili e inalienabili.
Un vero e
proprio museo degli orrori
Peggio
ancora, i nostri musei conservano ancora importanti collezioni di resti umani,
in primo luogo il Museo Nazionale di Storia Naturale e il Museo dell’Uomo, la
cui “collezione moderna” comprende più di 1.000 scheletri e circa 18.000 crani
ereditati da raccolte pseudo-scientifiche (in realtà razziste), coloniali e di
polizia del XIX e XX secolo.
Un vero e
proprio museo degli orrori che raccoglie resti umani provenienti da tutto il
mondo (Algeria, Senegal, Madagascar, Guyana…), tra cui quelli di numerosi
resistenti alla colonizzazione francese, ma anche di bambini. È quanto racconta
Xavier Leclerc nel suo ultimo romanzo Le Pain des Français (Gallimard), dando
voce a «Zohra», una bambina kabyle di 7 anni il cui cranio è conservato in una
scatola da scarpe tra i circa 9.000 crani conservati nel Museo dell’Uomo.
La storia di
Saartjie (Sawtche), detta “Sarah Baartman”, donna di origine ottentotta nata in
Sudafrica e morta a Parigi dopo essere stata vittima di ripetuti abusi sessuali
e fisici ed essere stata esibita nelle fiere, è emblematica di questa
spoliazione. Dopo la sua morte, calchi in gesso del suo corpo, dei suoi organi
genitali e del suo cervello furono esposti al Musée de l’Homme alla vista di
tutti fino al 1974, prima di essere relegati nel seminterrato. Dopo un’aspra
battaglia legale, promossa da Nelson Mandela, il Sudafrica ha finalmente potuto
recuperare il suo corpo nel 2002.
Nel luglio
2020, Parigi ha restituito all’Algeria 24 teschi di resistenti anticolonialisti,
tra cui Cheikh Bouziane, Cherif Boubaghla e Si Mokhtar ben Kouider al-Titraoui,
conservati dal XIX secolo al Musée de l’Homme. Da allora, la Francia si è
dotata di un quadro giuridico specifico: una legge del 2023 autorizza, in
deroga all’inalienabilità, la restituzione di resti umani a uno Stato straniero
a fini funerari.
In
precedenza, nel 2012, erano state restituite le teste di alcune persone māori
(originari di Aotearoa, nome māori della Nuova Zelanda).
Nel 2024, i
corpi di sei Kali’na – Pékapé, Couani, Emo-Marita, Mibipi, Makéré e Miacapo -,
rapiti in Guyana per essere esposti in una mostra coloniale, vengono celebrati
al Musée de l’Homme nell’ambito di una cerimonia sciamanica, alla presenza di
di capi tradizionali provenienti dal Suriname e dalla Guyana. Tuttavia, i loro
resti non sono stati restituiti. Diversi altri casi sono ancora in corso e, di
conseguenza, molti corpi rimangono ancora lontani dai loro territori d’origine.
Sotto la
pressione del rapporto Sarr-Savoy, che esortava lo Stato francese a restituire
le opere ai loro paesi d’origine e ai paesi africani, la Francia ha dovuto
riconoscere l’ingiustizia. Nel dicembre 2020 è stata quindi approvata una legge
per restituire alcuni beni culturali al Benin e al Senegal.
Il primo
oggetto restituito è stata una sciabola attribuita al capo politico El Hadj
Omar Tall. Anche il Madagascar ha recuperato la corona della regina Ranavalona
III, considerata dal ministro della Cultura Lalatiana Andriatongarivo
Rakotondrazafy uno dei simboli più preziosi dell’«orgoglio nazionale
malgascio».
Inoltre,
ventisei opere d’arte note come “Tesoro di Béhanzin”, donate allo Stato dal
generale Alfred Dodds dopo essere state saccheggiate durante una guerra e
conservate al museo del Quai Branly-Jacques-Chirac, sono state restituite al
popolo beninese. Il loro ritorno è stato oggetto di un magistrale film
documentario, Dahomey, realizzato dalla franco-senegalese Mati Diop.
Tuttavia,
con ventisei opere, siamo ben lontani da una rivoluzione. Il museo ne conserva
almeno 45.000 provenienti dai saccheggi coloniali.
La Francia
fatica ancora a riconoscere che gran parte del suo potere e del suo fascino
derivano dal suo ruolo violentemente distruttivo nelle ex colonie. Celebrare un
patrimonio acquisito con disprezzo per le vite umane testimonia un persistente
rifiuto di ammettere il prezzo del proprio prestigio, alimentato dai gravi
danni causati in passato e che persistono ancora oggi.
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