Quando
il Grande
Giorno arriva con la sua ingiunzione consumistica può accadere che un
tarlo si insinua nella mente, prima sottile poi sempre più pressante, e spinge
a considerare l’incipit celebre del Capitale di
Marx, «il mondo si presenta come una immane distesa di merci», nonostante il
tempo trascorso, ancora come la cornice teorica più adeguata per inquadrare un
fenomeno come il Black Friday.
1. Con
velocità fulminea, da fenomeno di costume circoscritto e un po’ bizzarro è
divenuto in pochi anni, complice il villaggio globale, evento planetario, con
un giro di affari vorticoso. Solo in Italia ha fatto registrare, anno su anno,
un incremento di circa il 55% di vendite e ha coinvolto sedici milioni di
persone, superando abbondantemente i due miliardi di giro d’affari. Il successo
ne ha dilatato la durata tanto che si parla di settimanadel Black Friday. Lo
spazio geografico di provenienza è certo, gli USA, ma la provenienza del
nome, venerdì nero, come conviene ad un mito sia pure di
oggi, al contrario della puntuale ricorrenza, è controversa e segnala che
anche le origini siano spesso una costruzione ex post,
che accompagnano i cambiamenti culturali di un’epoca. Ed allora che sia la
riattualizzazione tetra del giorno in cui gli schiavi finivano in saldo oppure
la giornata in cui gli operai disertavano le fabbriche dopo le intemperanze
del Ringraziamento o, ancora, racchiuda l’imprecazione dei
poliziotti della stradale di Filadelfia che in quel venerdì del ’61 furono
letteralmente travolti da un traffico eccezionale dovuto alle orde di
consumatori, come detto, queste ricostruzioni, sono un po’ tutte vere o, se si
preferisce, tutte un po’ false. Vero è che una storia come quella dei
poliziotti lamentosi non poteva reggere alla lunga come
stimolo allo shopping ed, allora, sotto regime
neoliberista, meglio la narrazione dei libri contabili dei negozi che da
quel fatidico venerdì passano dall’inchiostro rosso delle perdite a quello nero
dei guadagni.
Ma cosa
spinge una fiumana di gente, arrischiando la loro stessa incolumità, come
dimostrano taluni episodi americani finiti in tragedia, a prendere
letteralmente d’assalto i centri commerciali o come sciame digitale inondare
le piattaforme immateriali del web? La risposta è in una foto a colori che
sbuca dalla copertina di una rivista patinata, dai dettagli nitidi e con punto
di osservazione da sorvolo. Ritrae una delle tante scene che si sono ripetute
in questi giorni ovunque nelle moderne cattedrali del
commercio. E’ una calca di gente infervorata che assedia in circolo uno dei
tanti altari allestiti per l’occasione, sotto gli occhi
compiaciuti dell’officiante di turno, di una nota marca di prodotti
elettronici, che mostra – così si intuisce – ai consumatori lì convenuti
l’oggetto devozionale. I cartellini con lo sconto promesso saturano
poi tutto l’ambiente circostante. E non si sottolineerà mai abbastanza la
funzione decisiva dello sconto volto a piegare quella sorta di riluttanza all’eccesso,
che frena e che in questo modo viene tacitata. Perché la meccanica dello
sconto, è bene sempre rammentarlo, con la sua implacabile logica del risparmio,
serve a seppellire quell’antica vocazione alla parsimonia e alla misura che ci
abita da tempi remoti.
Sembrano
delinearsi i contorni del fenomeno. Un rito senza teologia in
cui tutti noi siamo immersi, devoti di un culto che non
promette espiazione, salvezza, ma solo crescente debito e conseguente colpa,
«questo culto – scrive Benjamin riferendosi al capitalismo – è
colpevolizzante-indebitante», che è poi il più vistoso apparente paradosso di
una civiltà che ha promesso benessere ma non poteva che
realizzare debito, basandosi in ultima istanza sul credito del denaro.
D’altronde,
la radice ultima di un meccanismo che postula una crescita infinita in un
quadro di risorse finite e per giunta in rapido deperimento non può
che risiedere in una credenza, una fede o qualche forma moderna di superstizione
razionalistica.
2. Se il
termine Black Friday è suscettibile di congetture, l’ethos che
lo anima ha origine certa. Come successe con lo spirito del
capitalismo, grazie all’intuizione protestante che l’accumulo di ricchezza
fosse un segnale di appartenenza alla comunità di eletti (come ci insegna
Weber), anche lo spirito del consumismo ha un suo punto di
origine ben preciso. E non a caso lo troviamo nella terra dove si insediarono
quegli stessi che erano portatori dell’originaria fede: gli Stati Uniti. Qui,
negli anni Cinquanta, vengono gettate le basi dello spirito consumistico,
necessario corollario di un apparato iperproduttivista che si regge sul primo
spirito. Da allora, si lavora incessantemente per creare una nuova antropologia
fondata sul soddisfacimento compulsivo di un godimento senza fine che si
esaurisce dopo ogni acquisto e cerca una propria riesumazione nel prossimo
oggetto del desiderio (Lacan parlava in proposito del discorso del
capitalista).
Sono passati
appena dieci anni dalla fine del conflitto mondiale e già si stava esaurendo la
spinta alla crescita innescata dalla ricostruzione delle macerie lasciate in
Europa e in Giappone. Negli Stati Uniti si temeva una crisi di sovrapproduzione
perché il mercato era già saturo. Allora si cercarono altri modi per convincere
le persone ad acquistare merci di cui, in fondo, non avevano bisogno. Una
società che si crede ricca solamente perché consuma beni inutili. Ma per far
questo deve cambiare il concetto stesso di bene. Come racconta Vance Packard
ne I persuasori occulti, lavoro pioneristico perché osserva in
tempo reale il mutamento di sistema, negli uffici marketing delle
aziende cominciano ad essere assunti gli psicologi, affinché suggeriscano come
convincere i consumatori ad acquistare ciò che non gli serve. Ancora più di
prima, allora, il bene diventa l’incarnazione di un sogno, di uno status,
di un carisma che sarebbe acquisito solo in virtù del possesso di un
determinato oggetto. Da allora le auto, negli Stati Uniti, aumentano di
dimensione, divenendo simbolo della personalità del guidatore. Nel 1955 viene
pubblicato un articolo di Victor Lebow sul Journal of Retailing che
è considerato il manifesto del capitalismo di consumo. Lebow
auspicava che il consumo divenisse un vero e proprio stile di vita, esprimendo
la necessità che gli oggetti avessero una vita breve, fossero sostituiti e
gettati a un ritmo sempre più rapido. Attualmente il capitalismo intero si
fonda su questa teorizzazione. L’usa e getta permette di abbassare il rischio
delle crisi di sovrapproduzione ma non fa i conti con il fatto che tale stile
non è sostenibile dal pianeta. Oggi ogni attività delle persone ruota intorno
all’acquisto ritualizzato di merci, tanto da fare dei centri commerciali
il non-luogo di ogni relazione umana, laddove prima erano le
piazze della città ad essere il centro relazionale delle comunità urbane. Ciò
significa che il capitalismo ha operato una vera mutazione antropologica
facendo del lavoro e dell’acquisto di merci lo scopo esistenziale. Chiedere di
lavorare meno e di consumare in modo consapevole diviene un discorso eversivo
in questo contesto. Anche se tale atto eversivo si rende necessario alla luce
della crisi ecologica cui stiamo assistendo. Il comportamento ecologico non è
neutro rispetto al sistema di sviluppo.
Il
mercato è indubbiamente forte e pervasivo, ma la storia ha mostrato che alle
idee serve più tempo ma che poi possono invertire la freccia
della storia in determinate circostanze; l’immaginazione di una soggettività
collettiva da costruire non catturata alla lunga può essere la svolta
dirompente di questo scorcio di nuovo millennio. E se un nocciolo di
verità le parole contengono, allora Black Friday, o venerdì nero,
ci ammonisce circa il treno impazzito su cui stiamo correndo verso il baratro,
che le guerre atroci in svolgimento stanno inverando. E dovrebbe anche
ammonirci circa il poco tempo a disposizione per tirare il freno.
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